Nell’area di Rafah si vive in spiaggia, tra le macerie, ammassati tra i ruderi delle case. Si muore di fame mentre al di là del valico sono fermi migliaia Tir colmi di ogni bene. Carovane come la nostra servono a supplire all’assenza di informazioni per l’assenza di giornalisti sul campo.
Nei giorni scorsi Pierluigi Ciocca dalle colonne de Il Manifesto descriveva con efficacia il vicolo cieco prodotto dall’economia di mercato capitalistica in cui, a suo avviso, siamo finiti. E ne descriveva “i suoi sempiterni, radicali difetti”: l’iniquità, l’inquinamento e l’instabilità che unite agli altrettanto radicali dogmi, ossia guerre, diseguaglianze e clima ci consegnano grossomodo il contesto odierno. E non da oggi. E cosa c’entra tutto ciò con Gaza, la Palestina, l’Ucraina o più direttamente la recente missione della Carovana al valico di Rafah promossa da AOI, Arci e Assopace Palestina? Io credo c’entri non foss’altro per la sensazione di deriva totale in cui siamo immersi e che si sostanzia con sempre più disumanità se non sadismo, di uomini contro altri uomini. E ciò che accade dentro la striscia di Gaza, ahinoi, è solo la punta drammatica dell’iceberg di questa terza guerra mondiale a pezzi che tocca quasi tutti continenti. Nella più totale indifferenza peraltro. Con questo spirito, per squarciare questo velo di indifferenza, ipocrisia e talvolta ignavia che all’indomani dell’avvio delle operazioni militari dentro la striscia da parte delle forze armate israeliane, abbiamo deciso di organizzare una raccolta fondi nazionale con l’intento di acquistare beni di prima necessità da inviare a Gaza.
E così abbiamo fatto, accompagnando i tir che nel frattempo avevamo riempito. Abbiamo trovato conferma nelle tante notizie frammentate che nel frattempo giungevano; la situazione è drammatica, “ben oltre la catastrofe” come ci ha detto il responsabile dell’OMS, l’organizzazione mondiale della sanità. Una guerra che non è una guerra perché non ci sono eserciti che si contrappongono in modo convenzionale: c’è un massacro in atto, un genocidio di un popolo, nel silenzio più totale, che muore perché è nato palestinese. La storia non sarà tenera con noi, soprattutto se continueremo a trovare sempre e solo differenze, se il nostro obiettivo sarà sempre e solo quello di correggere le virgole di appelli che parlano solo ai nostri piccoli egoismi e se, soprattutto, non saremmo in grado di concentrarci sull’unica cosa che tutte le organizzazioni palestinesi, egiziane, le Ong e le agenzie internazionali ci hanno chiesto: batterci per il cessate il fuoco, aprire i valichi agli aiuti, permettere un vero e proprio intervento umanitario, curare chi ha bisogno di essere curato e liberare la Striscia dall’occupazione militare. Se ciò non avverrà, sempre l’Organizzazione Mondiale della Sanità c’è lo ha detto con estrema chiarezza: dagli attuali 31 mila morti il bilancio potrebbe ben presto salire a 85 mila perché dentro Gaza non si muore più sotto le bombe. Si muore per malnutrizione, mancanza di cure adeguate, mancanza di medicine, mancanza di strutture sanitarie e infrastrutture capaci di garantire dignità e sopravvivenza. E tutto ciò con uno spettacolo macabro di migliaia e migliaia di tir colmi di ogni bene fermi da 10, 20, 30 giorni in attesa di essere visionato o respinto. In questo momento nel sud di Gaza, nell’area di Rafah sono presenti oltre un milione e mezzo di persone, quando prima del 7 ottobre la popolazione residente in quell’area si avvicinava a circa 280 mila abitanti.
In questo momento si vive in spiaggia, tra le macerie e in quelle pochissime case sopravvissute ai bombardamenti in condizioni drammatiche: 60 persone in 80 metri quadri pur di avere un tetto sulla testa, 1 bagno ogni 500/600 persone quando gli standard delle Nazioni Unite in situazioni di crisi umanitarie parla di 1 ogni 20 persone. Nessuno entra o esce senza l’avallo dell’esercito israeliano e soprattutto se non hai 5.000/7.000 dollari che ti permettano di oliare anche la disumanità più feroce. Tornare dal valico di Rafah e riprendere una vita più o meno normale non è stato per nulla facile. C’è un senso perenne di vuoto e di colpa per essere tornato qui, in questo Occidente difficile e colpevole e soprattutto non essere laggiù ad ascoltare e vedere ciò che accade e che nessuno è in grado di raccontare nella sua drammaticità. E c’è molta rabbia che occorre gestire e trasformare in maggiore forza e ostinazione per non perdere quel senso di utilità (e umanità) che la Carovana per Rafah ci ha permesso di vivere.
La Carovana ha aperto uno squarcio, ribaltando una narrazione mediatica insufficiente quando non travisata di ciò che sta accadendo dentro Gaza e fuori al Valico. Ed è questo un lavoro che sta continuando, facendo sì che quel pugno nello stomaco vissuto in prima persona possa arrivare in molti luoghi del nostro Paese per raccontare ciò che accade. Io me lo sono domandato molto in questi giorni: perché tre organizzazioni della società civile hanno dovuto organizzare una carovana per permettere a parlamentari e giornalisti di vedere il mondo com’è veramente? Tra i tanti messaggi che ho ricevuto uno infatti mi ha colpito molto: “Il valore di questa missione non è solo sensibilizzare l’opinione pubblica, quanto supplire ad una evidente assenza di informazione data dalla carenza (voluta) di mezzi di informazione sul campo”. E pensandoci e ripensandoci, guardando le reazioni e ai tantissimi post, servizi, foto e video che abbiamo prodotto in questi giorni di missione credo sia proprio questo il punto ed è uno dei motivi per cui ringrazio chi ha voluto esserci e chi oggi continua ad essere in carovana, da nord a sud del Paese, per raccontare ciò che ha visto e ciò che ha sentito.
L’autore, Walter Massa, è presidente nazionale Arci