La pura e semplice abolizione del titolo di studio rilasciato dalle università è una sconfitta dello Stato. Ecco perché
Il pensiero “debole” dell’applicazione della concorrenza ai servizi pubblici fondamentali ritorna alla ribalta con la proposta di abolizione dei titoli di studio. La pura e semplice abolizione del titolo di studio rilasciato dalle università è una sconfitta dello Stato. Negli ultimi trent’anni nessun governo è stato capace di impedire una crescita disordinata di sedi universitarie, facoltà, corsi di laurea, senza svolgere il proprio dovere essenziale: controllarne la qualità. C’è, in questo dibattito, specie nei suoi sviluppi più radicali, questi sì ideologici, la rinuncia alla fondamentale funzione di certezza che è svolta (deve essere svolta), dalle istituzioni pubbliche: si prende atto di un problema, la scarsa qualità di alcuni corsi ed alcune strutture accademiche di cui si è consentito negli ultimi anni lo sviluppo in assenza di ogni controllo, e si dà una risposta che va esattamente nel senso opposto, la rinuncia a garantire la qualità, a “certificare” che un certo percorso è mediamente in grado di assicurare un certo esito formativo “minimo”.
L’istruzione universitaria costituisce, però, un servizio pubblico essenziale, la cui istituzione è imposta dalla Costituzione per finalità che spesso vengono trascurate (la garanzia di laicità dell’istruzione, lo sviluppo della ricerca e della scienza in tutti i settori del sapere); poiché il servizio pubblico è in grandissima parte finanziato dallo Stato, ad esso spetta dare la garanzia che i corsi di studio finanziati forniscano attività di insegnamento pari ad una qualità minima (essenziale). Questa garanzia non può essere data solo con un controllo preventivo sul rispetto di tabelle ministeriali o di requisiti minimi quantitativi (numero di docenti per corso), ma deve essere data con controlli successivi sulla qualità effettiva, sui risultati, di ciascuno dei corsi attivati con il finanziamento pubblico. Come fare? Le proposte possono essere diverse e c’è bisogno, in primo luogo, di conoscere, e di distinguere.
Conoscere i modelli comparati cui si tende a fare indebito riferimento, in primo luogo: nei modelli anglosassoni, che si tende a portare a riferimento, la questione non è infatti risolta nella direzione, semplicistica, di un affidamento sulle capacità di autoregolazione del mercato. Non per tutte quelle attività che richiedono un affidamento su capacità minime di coloro che le svolgono. La via che suggeriscono questi modelli è, piuttosto, quella dell’accreditamento (da parte di soggetti pubblici, come il Privy Council inglese, o da soggetti privati abilitati, come negli Stati Uniti).
Distinguere tra attività diverse: pensiamo in primo luogo al caso delle professioni per lo svolgimento delle quali è la stessa Unione Europea a richiedere standard minimi di formazione (e, quindi, il riconoscimento automatico dei titoli): medico, infermiere, dentista, ostetrica, farmacista, veterinario, architetto. Esigenze non distanti si pongono, però, per altre attività, ed altre professioni (per tutti: avvocati, ingegneri).
Il sistema garantisce, oggi, che dietro la “nebulosa” del “valore legale” sia presente una qualità minima adeguata, sia in termini di contenuti formativi che di loro effettiva acquisizione? Forse no, ed è questo il problema: si copre con una “certezza” di qualità qualcosa che non corrisponde effettivamente a ciò che si promette e garantisce. La soluzione, però, va in direzione opposta rispetto a quella spesso prospettata dai sostenitori dell’abolizione del valore legale del titolo di studio.
Si possono attivare strumenti di verifica e valutazione, prima interna (nuclei di valutazione, purché realmente indipendenti dalle strutture e dai docenti valutati) e poi esterna (sempre indipendente), sull’effettivo svolgimento dei corsi, sulla partecipazione dei docenti, sulla loro qualità (in termini di produzione scientifica). Si possono attivare esami di Stato nazionali di verifica dell’apprendimento dei laureati per ciascuna classe di corso, anche al fine di misurare la qualità dei corsi in rapporto al successo conseguito dagli studenti, collegando a questi risultati in primo luogo effetti sul finanziamento degli atenei, ma anche sull’accreditamento delle strutture formative.
Senza eccessivi slanci ideologici, la via finanziaria sembra quella “pragmaticamente” più efficace, perlomeno per i corsi attivati da Università statali: i corsi di studio che, in seguito a verifiche pubbliche e trasparenti, sono al di sotto della soglia minima (essenziale) cessano, semplicemente, di essere finanziati dallo Stato. Se ciò comporta la chiusura di infiniti corsi di studio decentrati costruiti solo per soddisfare logiche localistiche si sarà fatto un servizio utile alla collettività nazionale e alle singole famiglie, che hanno il diritto di sapere che il corso di studio cui si iscrive il loro figlio ha una sicura qualità.
Si possono ripensare i bandi di concorso per il reclutamento nelle pubbliche amministrazioni ed i criteri per l’accesso ad alcune professioni, abbandonando la semplice presunzione di preparazione legata al conseguimento del titolo di studio, ma richiedendo specifici requisiti in termini di crediti conseguiti nelle materie considerate fondamentali per l’accesso all’amministrazione che bandisce o per lo svolgimento di una determinata professione. Attraverso questa semplice via, che passa per l’abbandono della presunzione che un certo percorso di laurea garantisca in ogni caso determinati sbocchi professionali anche in assenza di una reale coerenza tra esami impartiti e competenze richieste per una certa professione, si può peraltro uscire dal caos determinato da un sistema di equipollenze che oramai, dopo l’abbandono delle tabelle ministeriali in favore di percorsi molto più flessibili affidati alle università, ha perso gran parte della sua coerenza: in sostanza, (di norma: anche qui dovranno esserci delle eccezioni) non mi interessa che laurea hai (ma devi averla, e devo garantirne la qualità minima) ma per accedere a concorsi nell’agenzia delle entrate devi aver sostenuto gli esami di diritto amministrativo, diritto tributario, scienza delle finanze (e quant’altro si ritenga necessario), e così via. Anche qui, però, con qualche precauzione, perché il rischio è che, all’opposto, questo percorso conduca a bandi di concorso cuciti su misura per determinati candidati.
Queste soluzioni eliminano ogni ipotesi di “concorrenza”? Certamente no, perché, una volta assicurata la qualità minima, restano valide tutte le informazioni sulla qualità dei corsi risultanti dalle diverse valutazioni attivate. Le famiglie, correttamente informate, sarebbero in grado di scegliere i corsi di studio più adatti o quelli che danno maggiori garanzie di buona qualità. Si tratterebbe, quindi, non di vera concorrenza sul mercato (un “mercato dell’istruzione pubblica” è un ossimoro), ma di una competizione positiva, alla ricerca di livelli superiori, tra corsi tutti di qualità garantita.
Quindi non si tratta di “abolire” il valore legale, ma di dare al titolo di studio un valore diverso, di certificazione della partecipazione con successo dello studente ad un corso di studio garantito dallo Stato. Non si tratterebbe di una presunzione assoluta sulla preparazione acquisita, ma di un accertamento, con atto pubblico, del conseguimento di crediti formativi nel corso di studio frequentato.
Torniamo al punto da cui siamo partiti. La proposta di abolizione rappresenta l’ennesima rinuncia a porre il nostro sistema universitario al livello qualitativo minimo necessario a livello internazionale. La “concorrenza” consisterebbe, nella migliore delle ipotesi, in una netta differenziazione tra pochissime università di “eccellenza” (spesso più presunta che reale) e il grosso delle università nella sostanza abbandonate a se stesse.