Tra crisi economica, crisi ambientale e richieste di giustizia sociale l’economia sudafricana zoppica. Un approccio innovativo e condiviso alla redistribuzione è l’unica strada percorribile
Ci sono molti fattori che indicano questo sarà un anno critico per il Sudafrica. Il primo riguarda la congiuntura economica, soprattutto l’indebolimento senza precedenti della moneta, che ha raggiunto i minimi storici e non mostra segni di ripresa.
Il rand debole potrà pure emozionare alcune aziende esportatrici, ma avrà un enorme effetto negativo sulle importazioni, tra cui un numero crescente di beni al consumo. In un momento di contrazione nella domanda di materie prime, che costituiscono una parte cruciale delle esportazioni del Sudafrica, il rand debole contribuirà solo marginalmente al reddito nazionale, infliggendo un colpo dure alle famiglie e alle imprese.
Con poca o nessuna crescita in un’economia progettata per funzionare solo a livelli alti di PIL, la classe media (lavoratori autonomi, insegnanti, infermieri, medici, proprietari di piccole imprese e la grande varietà di famiglie che sostiene il funzionamento quotidiano dell’economia) farà fatica a sbarcare il lunario.
Il secondo fattore è la crisi idrica, con i suoi effetti su salute, cibo ed energia. La siccità causata da El Nino, che si aggiunge ad anni di scarsa pianificazione e malagestione delle infrastrutture, renderà il paese non solo assettato, ma anche ammalato, affamato e senza energia. Come sempre accade con le dinamiche ambientali, c’è un ritardo tra il verificarsi di un fenomeno ed i suoi effetti sulla qualità della vita delle persone. Nei prossimi mesi, la carenza di acqua attiverà malattie ed epidemie, specialmente nelle comunità più povere, riducendo la disponibilità di cibo. Il Sudafrica sta già importando ingenti quantitativi di granturco e altre colture di base per soddisfare i bisogni alimentari primari. Sullo sfondo di una moneta ai minimi storici, questo scatenerà un aumento dei prezzi alimentari. Un ritorno delle piogge nei prossimi mesi potrebbe migliorare in parte la situazione, ma anche peggiorarla, soprattutto se i rovesci saranno massicci e distruttivi, come lo sono stati in molti casi, per gentile concessione dei cambiamenti climatici. Con poca acqua, diminuisce l’energia idroelettrica e la capacità di raffreddamento per le centrali a carbone, inefficienti e antiquate, ma pur sempre l’asse energetico del paese. A sua volta, la mancanza di elettricità provocherà nuovi black-outs, con un effetto a catena sull’economia.
Poi c’è il fattore sociale, dimostrato dalle recenti proteste di studenti e lavoratori in tutte le università. Come attestato dalle classifiche del World Economic Forum, il Sudafrica si posiziona al primo posto tra le nazioni con le peggiori relazioni tra datori di lavoro e lavoratori. Per quanto gli industriali si possano lamentare della belligeranza dei sindacati, è chiaro che il conflitto è il risultato di una colpa bipartisan: le pratiche oppressive di molte imprese sono da biasimare quanto il comportamento a volte eccessivamente violento della forza lavoro. Lo sfruttamento è infatti una forma di violenza strutturale pari o anche peggiore dei vetri rotti e degli edifici vandalizzati che si vedono durante le proteste.
Pessime condizioni di lavoro sono diffuse in tutta la società, non solo nel settore informale. La gestione aziendale della cosa pubblica, con la pletora di subappalti e outsourcing, ha generato evidenti aberrazioni anche in istituzioni tradizionalmente considerate di alta qualità, compresi i migliori atenei. Bisogna ringraziare i movimenti studenteschi per aver evidenziato le pessime condizioni in cui operano migliaia di lavoratori. Siamo venuti a conoscenza di salari mensili di 2,000 rand (poco più di 100 euro), senza contributi nè copertura sanitaria. La richiesta di un salario minimo di 10,000 Rand appare non solo ragionevole, ma anche in grande ritardo. Sembra una riedizione della lotta dei minatori che portò al massacro di Marikana nel 2012. E riflette anche la profonda ingiustizia che domina l’economia sudafricana: come nel settore minerario, questi lavoratori a contratto stanno negoziando con dirigenti accademici che guadagnano milioni all’anno, coccolati da una lunga lista di benefit e premi di produzione.
Nessuno di questi tre fattori (crisi economica, crisi ambientale e richieste di giustizia sociale) svanirà quest’anno. Al contrario, è probabile che le varie crisi peggiorino ulteriormente, anche in virtù del contesto economico globale. L’economia mondiale zoppica, con l’affanno dei paesi emergenti che si aggiunge al malessere di lunga data nelle economie d’Europa e Nord America. I mercati continuano a contrarsi, nonostante un prezzo del petrolio che dovrebbe eccitare produttori e consumatori. Tra i vari fattori politici, come i rischi associati con il terrorismo e la migrazione, le prossime elezioni negli Stati Uniti aggiungeranno ulteriore incertezza, soprattutto se alcuni candidati dovessero passare le primarie.
In questo contesto, abbiamo bisogno di un approccio radicalmente diverso alla governance. Quello che abbiamo visto presso alcune università nelle ultime settimane è forse in grado di fornire alcune lezioni. Prima di tutto, è giunto il momento per tutte le parti coinvolte di ascoltare. È finito il tempo delle soluzioni preconfezionate. Abbiamo bisogno di deliberazioni inclusive e di tanta innovazione, che sono possibili solo se si dà spazio ad una pluralità di voci .
In secondo luogo, abbiamo bisogno di ripensare i fondamentali economici. La crescita è stata sempre presentata come un’alternativa alla redistribuzione. A sostenere questo approccio era la teoria che quando la ‘torta’ s’ingradisce, tutti ne traggono beneficio. Si trattava ovviamente di un miraggio (molto conveniente per alcuni interessi) che comunque ha dettato la politica economica per oltre vent’anni. Il Sudafrica ha allegramente sottoscritto al credo: “crescita prima e il resto dopo”. È stato un errore enorme, soprattutto nei primi anni 2000, quando una situazione di relativa bonanza economica avrebbe potuto essere utilizzata strategicamente per affrontare gli squilibri sistemici a cui ci troviamo di fronte oggi, in un’epoca di contrazione globale.
Con la fine della crescita, un approccio innovativo e condiviso alla redistribuzione è l’unica strada percorribile. Bisogna però evitare una riforma imposta dall’alto, perchè non farebbe altro che gettare benzina sul fuoco. Al contrario, serve un processo di partecipazione che coinvolga tutti i settori importanti nella società, per ridisegnare radicalmente il funzionamento del sistema fiscale. Come dimostrato da alcune trattative in corso nelle università, gruppi differenti possono trovare a un accordo soddisfacente su temi come il ridimensionamento degli stipendi, di benefit ed altri contributi quando diventa chiaro che il futuro di un bene pubblico – l’istruzione – è in gioco. Non vi è alcun motivo di credere che lo stesso non possa accadere per l’economia in generale.
Abbiamo bisogno di un nuovo contratto sociale per andare avanti. Se fatto correttamente e con una visione chiara, renderà tutti più fiduciosi sul futuro di questo paese, rassicurando non solo i cittadini (di tutte le razze e colori), ma anche quegli investitori stranieri interessati al benessere di lungo termine dell’economia (non gli speculatori che sono sempre stati così desiderosi di fare soldi a spese della nostra società).
Per rompere l’impasse che domina il dibattito pubblico, è necessario che leader progressisti nella politica, nelle imprese e nella società civile smettano di starsene in disparte. È anche indispensabile che gli accademici escano dal loro guscio per portare nuovi argomenti e nuove idee nel dibattito politico. E abbiamo bisogno di consulenti migliori. Spesso si tende a dimenticare che dietro i nostri leader c’è una vasta gamma di “esperti” pagati per offrire consigli. Devono smettere di illudere i politici che un ritorno al passato sia possibile (e tanto meno auspicabile), e devono accettare il fatto che la nostra unica speranza di successo è abbracciare il futuro con nuove idee.
Lorenzo Fioramonti (@lofioramonti) è direttore del Centre for the Study of Governance Innovation (www.governanceinnovation.org) presso l’Università di Pretoria e membro di WE-Africa.org