Permesso a punti e gabelle, entrano in vigore le nuove norme. Con molta vessazione e poca integrazione. Il nostro Stato chiede che si studi la lingua, ma non dà gli strumenti per farlo
Il 10 marzo è entrato in vigore l’”accordo di integrazione”, più noto come “permesso a punti”. Riguarda gli ultimi arrivati, o meglio chi per la prima volta avrà un permesso di soggiorno. Centomila se ne prevedono, forse di più, per l’anno di grazia 2012. Hanno sperato in molti, nel mondo del volontariato da cui viene il ministro dell’immigrazione Andrea Riccardi, che il governo dei professori avrebbe trovato il modo di depotenziarne il carattere vessatorio. Speranze sfumate, come per la nuova gabella imposta ai tempi della Lega regnante: da 80 a 200 euro per ogni rilascio o rinnovo del permesso di soggiorno, un salasso per i nuclei familiari più numerosi.
Sostanza e forma del dispositivo Maroni sono infatti confermate col regolamento attuativo dell’accordo, emanato con una circolare del 2 marzo. In verità con qualche imbarazzo – dove si dice che al termine del primo biennio di applicazione se ne valuteranno i contenuti “con particolare riferimento al sistema dei crediti e dei debiti, al fine di adottare quei correttivi che possano rendere effettiva l’integrazione”- ma senza mutamenti di rilievo. Resta intatto, in particolare, il ribaltamento del concetto stesso di integrazione. Non percorso di mutuo riconoscimento ma, come osserva Chiara Saraceno, prezzo da pagare e di cui esibire ricevuta. Non lungimirante politica di responsabilizzazione reciproca tra Stato e migranti ma scambio ineguale. Tra chi, in tempi molto brevi, deve dimostrare di conoscere l’italiano e i fondamentali della nostra Costituzione (ma anche, con pedante puntigliosità, “l’organizzazione e il funzionamento delle istituzioni pubbliche e della vita civile in Italia, con particolare riferimento ai settori della sanità, della scuola, dei servizi sociali, del lavoro, degli obblighi fiscali”) e uno Stato che non assicura tutti i mezzi – e il tempo – per farlo. E in più l’ipocrisia dell’adesione immediata, che non potrà essere davvero consapevole, a una “Carta dei valori della cittadinanza e dell’integrazione” quando, se tutto va bene, per ottenere lo status di cittadino ci vorranno come minimo quindici anni. Che diventano venti, sempre che si sia pronti ad approfittare dell’anno-finestra dopo il compimento dei 18 anni, per i figli eventualmente nati, cresciuti, scolarizzati in Italia.
Che idea può farsi del profilo democratico, e prima ancora della serietà di questo paese chi viene obbligato entro tre mesi dall’accordo – pena la perdita di ben 15 dei 16 punti riconosciuti inizialmente – a una formazione civica ristretta in un corsetto multimediale di 5-10 ore presso le prefetture? Che sentimenti/risentimenti possono nascere in chi, in mezzo ai mille problemi dell’inserimento, deve subito darsi da fare per trovare, in una scuola pubblica o del volontariato magari lontana, un corso gratuito di italiano che permetta in poco tempo di avere un attestato di apprendimento linguistico ? I 30 punti che serviranno allo scadere del secondo anno per non vedersi revocato il permesso di soggiorno e non essere espulsi, si cumulano essenzialmente così, in una complicata caccia al tesoro di punteggi diversi: l’italiano solo parlato o anche quello scritto, il livello A1 di un certo framework europeo o il livello A2, un corso professionale o un percorso di licenza media, prove decise dalle scuole per adulti oppure dagli Enti certificatori degli apprendimenti linguistici, attestati che servono solo a non incorrere nelle sanzioni previste dal dispositivo oppure certificazioni di validità europea, test gratuiti oppure a pagamento. Un labirinto di disposizioni burocratiche in cui rischiano di smarrirsi perfino gli insegnanti. Tra i migranti ce ne sono tanti che hanno diplomi e lauree, conoscono più lingue , hanno in Italia amici, comunità, sostegni, contesti lavorativi umani e civili. Ma anche tanti che di scuola non ne hanno mai fatta, sono semianalfabeti o hanno alfabeti diversi dal nostro, non hanno mai sostenuto esami , sono isolati, lavorano in luoghi sperduti e con orari impossibili. Solitamente sono motivati e intraprendenti ma per informarsi, orientarsi, capire dove rivolgersi hanno bisogno di tempo, di relazioni, di stabilità, di un’accoglienza e di una solidarietà che, nonostante l’impegno di molti, non arrivano ovunque. La difficoltà maggiore non è la lingua, è non avere quel poco o tanto di grammatica sociale che serve a ciascuno di noi, italiano o straniero, per non sentirsi debole e smarrito.
Di tutto ciò il dispositivo non tiene conto perché chi l’ha ideato non voleva tenerne conto. Ma anche chi oggi lo applica non ha fatto granché per migliorarlo. Ci sono, tra le poche novità, quelle dovute al rispetto di norme nazionali e internazionali curiosamente dimenticate da Maroni, per esempio l’esclusione dalla sanzione della revoca del permesso di soggiorno e relativa espulsione dei titolari del permesso per asilo, richiesta di asilo, protezione sussidiaria, ricongiungimento per motivi familiari. Poi la traduzione in 19 lingue del testo dell’accordo e dei cinque moduli multimediali di formazione civica e – meraviglia tecnologica – un applicativo informatico per la gestione dell’agenda delle convocazioni a corsi e test , nonché per il computo in tempo reale dei “debiti” connessi con eventuali sanzioni amministrative o penali. Poi ancora un portale cui i migranti, con apposita password, potranno accedere per tenere sotto controllo la procedura. Infine, dulcis in fundo, 16 milioni per finanziare due avvisi pubblici per la presentazione di progetti di formazione linguistica e civica, uno per le Regioni (12 milioni ), uno per il vasto e articolato mondo di Enti Locali, associazioni, onlus, ong, fondazioni, scuole, università. Tutti soldi del Fondo Europeo per l’Integrazione, neanche un euro di risorse nazionali per sviluppare in modo stabile un’offerta formativa dedicata. E neppure per specializzare in un insegnamento così importante e complicato gli insegnanti della scuola pubblica e del privato sociale. Basteranno per il 2012 e il 2013?
Nessuno può dirlo perché, in tutto il dispositivo, non c’è traccia di programmazione, né previsioni basate su numeri definiti. E neppure di attente valutazioni, che pure si dovevano fare per predisporre soluzioni sensate alle numerose criticità verificatesi nel 2011 con i test di italiano dedicati alla sola “categoria” delle domande di permesso di soggiorno a tempo indeterminato. Tanti gli immigrati che non si sono presentati alle prove perché le convocazioni sono arrivate a indirizzi sbagliati. Tanti i convocati inutilmente perché già in possesso di titoli superiori o equivalenti. Tanti, probabilmente, quelli che non hanno avuto da datori di lavoro disinformati o ostili il permesso per esserci. E poi percentuali diversissime – dal 3% al 27% – di “bocciati” nelle diverse città e regioni. Scuole pubbliche che ci hanno messo il massimo dell’impegno e scuole pubbliche che invece si sono limitate al minimo. Realtà che hanno saputo valorizzare le competenze comunicative del “parlato” e realtà che invece, come nella peggiore didattica scolastica dell’italiano, hanno incentrato le prove solo sulla più difficile comprensione ed uso della lingua scritta. Da una parte una buona collaborazione tra pubblico e privato sociale, dall’altra rapporti scarsi o inesistenti . Neanche i numeri totali delle domande, delle convocazioni, delle assenze e delle presenze, delle “promozioni” e delle “bocciature” sono stati finora capaci di tirar fuori gli apparati degli interni e dell’istruzione. Dati parziali ( 50.000, 60.000?), impegni parziali. Ma “fare sistema”sarebbe indispensabile per compiti così complessi. Tanto più che con l’accordo di integrazione non solo si materializzeranno numeri almeno doppi rispetto a quelli del 2011, ma bisogni più complicati da intercettare e interpretare. E sanzioni ben più radicali – possibile che un progetto migratorio, con quel che di solito costa in soldi, fatiche, talora stenti e pericoli mortali, possa arenarsi per un’insufficienza in italiano? – del rinvio di qualche tempo di una più solida stabilizzazione. Non sono tanti però, tra istituzioni, sindacati, politica, quelli che se ne sono accorti.