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Stellantis, e dopo?

Al di là dei toni entusiasti del management, soprattutto francese, parte in salita l’avventura di Stellantis, il colosso dell’automotive nato dalla fusione di Peugeot e Fca-Fiat. La sfida dell’elettrico e il mercato asiatico, l’unico che tira, ma soprattutto la possibile emorragia di posti di lavoro, specialmente in Italia.

I numeri della fusione

Il varo di Stellantis, che nasce dalla fusione tra la francese PSA e il gruppo italo-americano-britannico-olandese FCA e si configura come un’impresa di diritto olandese, ha visto i media italiani e francesi magnificare l’avvenimento. Mentre i dirigenti della società parlano di “momento storico”, sui giornali sono state elencate trionfalmente le cifre della nuova entità. I dati relativi al 2019 dicono che il fatturato dei due gruppi messi insieme è stato di 167 miliardi di euro (qualcuno dice 180 miliardi), con ben 400.000 dipendenti, 8,1 milioni di veicoli prodotti (qualcuno parla di 8,7 milioni), ciò che ne farebbe il quarto produttore mondiale, 14 (c’è chi parla di 15) marchi diversi, con circa infine 50 stabilimenti sparsi per il mondo. La quotazione di Borsa del gruppo al momento del suo esordio si aggirava sui 40 miliardi di euro e il mercato ha accolto la nuova arrivata in modo favorevole, cosicché tale valore è aumentato nelle settimane successive alla fusione.

Certamente le due entità, se fossero rimaste indipendenti sarebbero andate incontro a problemi probabilmente irresolubili, di fronte ad un mercato in piena turbolenza e ad una collocazione competitiva molto precaria delle due entità separate. Questo non significa che la fusione tra due debolezze riesca a risolvere tutte le questioni aperte.   

I valori di Borsa e il bastone di comando

L’entusiasmo appare a comando, visto che almeno in Italia la famiglia Agnelli controlla, o almeno influenza, una parte consistente della stampa, mentre in Francia l’orgoglio nazionalista fa premio su tutto; mentre l’entusiasmo dovrebbe essere frenato di fronte ai dati della realtà, in particolare per quanto riguarda il lato italiano. 

Intanto la quotazione di Borsa di Tesla, che ha prodotto nel 2020 solo 500.000 auto e solo elettriche, ha superato abbondantemente il livello di 800 miliardi di dollari, valore superiore a quello di tutte le case dell’auto tradizionale messe insieme. La quotazione poi di quattro diversi produttori cinesi, sempre votati all’elettrico, e la cui produzione si è aggirata nel 2020 intorno ad alcune decine di migliaia di unità ciascuno, è di due o tre volte superiore a quella di Stellantis. Abbiamo ancora il caso della statunitense Lucid Motors che, pur non avendo ancora consegnato nemmeno una vettura, è valutata dal mercato sui 24 miliardi di dollari, mentre la Rivian, che consegnerà la sua prima vettura elettrica in aprile, vale al momento circa 28 miliardi e si pensa che arriverà presto intorno ai 50, un poco più di Stellantis.

Ricordiamo che il mercato fissa la valutazione di un titolo soprattutto sulla base delle prospettive future dell’azienda e che le case dell’auto tradizionali, anche se sono ormai abbastanza concentrate sui modelli elettrici, scontano nella valutazione il peso dei molti impianti tradizionali presenti con il loro fardello di costi. 

Ancora per frenare gli entusiasmi italiani bisogna ricordare come non si tratti di una fusione tra eguali, come in realtà la PSA abbia assorbito FCA. I francesi sono maggioritari nel consiglio di amministrazione e l’amministratore delegato è espresso sempre da loro. Non a caso risiederà a Parigi. Nel capitale sociale è presente lo Stato francese, in qualche modo a tutela degli interessi nazionali, mentre non c’è una presenza pubblica italiana. Più in generale gli azionisti francesi hanno una quota del capitale totale maggiore di quella degli azionisti che solo con uno sforzo di buona volontà si possono dire nostrani (gli Agnelli). Si sa poi che nelle joint-venture apparentemente paritetiche  i francesi vogliono sempre comandare. Ma di tutto questo in Italia si parla poco.

Molti decenni fa era stata la Fiat a comprare la Citroen, ma era presto stata costretta a mollare la presa sotto la spinta dell’onda nazionalistica transalpina (c’era il presidente De Gaulle al comando). Oggi la storia dell’acquisto si ripete ma a ruoli rovesciati e peraltro pressoché nessuno da noi se ne commuove molto e qualcuno che somigli a De Gaulle non è in vista. Qualche anno dopo questo episodio, PSA aveva acquisito Chrysler Europe, manovra che andò a finire male molto presto.

Vorremmo incidentalmente ricordare che la cessione del gruppo FCA ai francesi è solo l’ultima di una serie di vendite e chiusure di grandi imprese italiane, cosicché restano oggi sul campo praticamente soltanto alcuni complessi pubblici, mentre altri dall’Ilva, ad Atlantia, all’Alitalia, stanno per ridiventarlo. Ormai il confronto con gli altri grandi paesi europei appare abbastanza umiliante. La nostra struttura industriale è difesa con buoni risultati e almeno su alcuni fronti dalle nostre medie e piccole imprese, ma non è abbastanza. 

Le grandi trasformazioni in atto nel settore

La Cina e l’elettrico 

Il settore dei veicoli appare in piena turbolenza sia per alcuni fattori congiunturali che per altri motivi più di fondo. Per quanto riguarda il primo aspetto, bisogna sottolineare le conseguenze della pandemia che si sono fatte sentire in tutto il mondo, ma in particolare nei paesi occidentali. Così in Europa le vendite di vetture nel 2020 si sono ridotte del 24,3% rispetto all’anno precedente (del 27,9% in Italia). I dati del gennaio 2021 sono ancora molto negativi, in particolare per il nuovo gruppo. Una previsione stima che il ritorno alla normalità si avrà solo nel 2023. Soltanto la Renault nel 2020 ha perso 8 miliardi di euro. Nel lungo termine, in ogni caso, le vendite dovrebbero mantenersi stagnanti. 

Per quanto riguarda invece i sommovimenti di fondo conviene ricordare quelli principali che hanno investito il settore nell’ultimo periodo e che, presi insieme, costituiscono la più importante trasformazione registrabile da quando il prodotto “auto” fu inventato.  

L’automotive è un settore che, nato e sviluppatosi per molti decenni tra Europa e Stati Uniti, ora vede il centro dell’attenzione andarsi via via spostando verso l’Asia, prima con il Giappone e la Corea del Sud e da ultimo soprattutto con la Cina, diventata e di gran lunga il principale mercato e il più grande produttore mondiale (oggi vi si vendono in un anno altrettante vetture che in Usa e Europa messe insieme). Nella crisi della pandemia è il solo grande mercato che abbia retto la prova e i grandi produttori mondiali guardano soprattutto ad esso.

Un secondo mutamento riguarda le trasformazioni del prodotto in relazione alle crescenti preoccupazioni ecologiche. I diversi paesi si sono con il tempo sempre più preoccupati di legiferare in materia di standard ambientali. La Gran Bretagna, il Giappone, la Norvegia, la Svezia hanno annunciato che essi proibiranno la vendita di veicoli a motore termico a partire dal 2030.

Anche in questo caso un colpo decisivo al decollo dell’elettrico è stato dato dalla Cina, che ha imposto qualche anno fa che le varie case producessero una percentuale crescente delle loro vetture con tecnologia elettrica o ibrida. Tutti si sono così precipitati ad investire nel ciclo dell’elettrico; le notizie in proposito continuano a susseguirsi a ritmo settimanale. Tutto il ciclo dell’elettrico, dall’estrazione dei minerali necessari per le batterie, alla produzione delle stesse, a quella delle vetture, è per una parte molto importante di nuovo in mani cinesi. 

Intanto i costi delle vetture elettriche, prima molto elevati, si vanno rapidamente abbassando (si prevede che esse costeranno meno di quelle tradizionali tra il 2023 e il 2025), mentre aumenta progressivamente la durata delle batterie. In ogni caso le vendite delle vetture elettriche sono aumentate nel 2020 nel mondo del 43%, mentre le vendite complessive sono diminuite di circa il 20%. Nel 2021 dovrebbero vedere la luce nel mondo un centinaio di nuovi modelli solo elettrici. 

Una variante del tema riguarda lo sviluppo delle tecnologie dell’idrogeno, sviluppo che presenta qualche anno di ritardo rispetto a quello delle auto elettriche “tradizionali”. Questa volta a guidare la trasformazione sono stati soprattutto il Giappone e la Corea del Sud, presto anche gli altri.  La Cina prevede di avere un milione di vetture a celle di combustibile su strada entro il 2030. 

Guida autonoma e ingresso nel settore del Big tech

In ritardo rispetto alle iniziali previsioni, comunque in marcia verso il traguardo, è l’auto a guida autonoma, su cui si lavora sia in Asia che in Europa che negli Stati Uniti, anche se la contesa appare soprattutto centrata su Usa e Cina, con appendice tedesca. Si tratta della trasformazione più importante tra quelle in atto elencate in questo articolo. Intorno al 2025 si dovrebbero forse registrare sul mercato le prime presenze significative di vetture pienamente autonome. 

Si può ricordare che attualmente 14 case dell’auto, con 84 diversi modelli, hanno avuto l’autorizzazione ad eseguire test di guida con veicoli autonomi in un certo numero di strade di Pechino, mentre il servizio di tassì con vetture a guida autonoma istituito da Baidu nella stessa città è stato utilizzato nel 2020 da 15.000 persone. Per quanto riguarda gli Stati Uniti, Waymo (Google) ha in corso un esperimento a Phoenix, Arizona e anche Uber e Lyft portano avanti prove simili.

Nel frattempo in Cina e in Giappone si avvia la costruzione di nuove città pensate proprio a partire dallo sviluppo della vettura autonoma, dell’intelligenza artificiale e delle altre tecnologie nuove.

Ricordiamo ancora che l’auto è sempre più imbottita di elettronica; qualcuno ha parlato a questo proposito di telefonino a quattro ruote e anche la vettura autonoma richiede un grande salto in avanti tecnologico. Nel 2010 una vettura media conteneva 10 milioni di linee di codice, oggi ne ha 100 milioni e il numero aumenta.

Queste quattro trasformazioni hanno un’incidenza profonda su altri movimenti. Ne ricordiamo alcuni.

La conseguenza più importante, almeno nel lungo termine, riguarda il fatto che l’auto autonoma può essere utilizzata sostanzialmente per il 100% del tempo, mentre quelle attuali lo sono normalmente per una percentuale molto più piccola. Presumibilmente quindi saranno affittate e non comprate e in conseguenza si dovrebbe verificare un drastico taglio nei livelli produttivi. Ciò comporterà profondi mutamenti nel settore dei servizi di trasporto e nella stessa organizzazione delle città; si prefigura una nuova mobilità di massa. L’affitto a breve invece dell’acquisto comporterà che il peso dei marchi e in particolare di quelli premium potrebbe diminuire notevolmente.

L’auto elettrica per essere assemblata richiede un minor numero di pezzi rispetto a quella tradizionale. Questo significa che i produttori di componentistica si troveranno di fronte a grosse difficoltà, tanto più che il settore è attraversato dalla rivoluzione elettronica e l’auto a guida autonoma comporterà livelli di produzione più ridotti. Parallelamente, in particolare in relazione alla guida autonoma e alla digitalizzazione, stanno entrando nel settore i grandi protagonisti del big tech, da Apple ad Alibaba, da Google a Tencent, da Microsoft a Baidu, a Didi Chuxing, da soli o in alleanza con le case tradizionali. Si vanno formando joint-ventures le più varie tra aziende del digitale e case dell’auto a livello plurinazionale. Per quanto riguarda l’auto elettrica arrivano nuovi produttori, come sopra indicato; il nome più noto è quello di Tesla, ma dietro a inseguire ci sono almeno quattro o cinque case cinesi importanti e un paio di statunitensi. I nuovi entranti nel settore rischiano di dominarlo presto in ragione della loro forza tecnologica e finanziaria.  

Le prospettive del nuovo gruppo

La fusione tra PSA e FCA dovrebbe produrre, secondo l’azienda, sinergie per 5 miliardi di euro all’anno per i prossimi anni, anche se le previsioni di questo tipo si rivelano di solito a consuntivo come troppo ottimistiche. Le dimensioni del nuovo gruppo permettono di far fronte alle grandi spese di investimento e di ricerca richieste dalle nuove tecnologie. Stellantis può contare su una guida apparentemente capace nella persona di Carlos Tavares, che aveva già compiuto il miracolo di rimettere in marcia PSA e poi  Opel (peraltro, in questo secondo caso, licenziando circa un terzo dei dipendenti), che si trovavano in acque molto agitate. In particolare Opel sembrava un caso disperato. Un problema rilevante è ora quello di risanare la Fiat, carente di modelli e di vendite. Il piano strategico del nuovo gruppo dovrebbe essere pronto entro l’estate del 2021.

Si riscontrano però importanti punti di debolezza nella nuova costruzione. PSA è forte in Europa e in una parte dell’Africa e FCA lo è nelle Americhe, quindi con un’integrazione molto positiva tra i due gruppi dal punto di vista geografico, portano in eredità una presenza quasi nulla nell’area più importante: l’Asia e in particolare in Cina, dove messi insieme, vendevano ogni anno poco più di 200.000 vetture (su un totale di più di 25 milioni). Mentre non vi sono tracce di una presenza di qualche rilievo in Giappone e Corea del Sud. In India sembra che ora il gruppo stia cercando di fare qualcosa con il marchio Jeep. 

Anche se PSA ha qualche carta da giocare in tale area, il nuovo gruppo è relativamente debole nelle nuove tecnologie, sia nell’auto elettrica che in quella autonoma e gli investimenti su tali fronti sono inferiori a quelli dei protagonisti di tali segmenti. Per quanto riguarda in particolare l’elettrico, in Europa sono in testa alle vendite nel 2020 Volkswagen, Renault e Tesla. Il nuovo gruppo non è tra quelli (da Volvo a General Motors) che hanno già annunciato che fra un certo numero di anni produrranno soltanto vetture elettriche.  

Stellantis è anche poco presente nel settore del lusso e dagli alti margini; Maserati, Alfa Romeo, DS sono poca cosa e si richiederebbero forti investimenti per penetrare più seriamente un comparto dominato dai tedeschi, dove hanno qualche posizione di rilievo anche giapponesi e svedesi/cinesi.

Si sa che i processi di fusione, in particolare nel settore dei veicoli, difficilmente riescono. Negli ultimi cinque anni non si registrano altri grandi “matrimoni”.

Un altro problema può essere rappresentato dal troppo alto numero di marchi: 15 contro gli 11 di Volkswagen. Insomma, per tirare le somme, la prognosi è riservata. Pensiamo in ogni caso che difficilmente il gruppo sarà tra i principali protagonisti dei mutamenti del settore nei prossimi anni.

I problemi italiani; le politica e l’occupazione

Di fronte all’attivismo francese, l’inerzia della politica italiana sul tema appare ancora più marcata. I risultati della fusione appaiono incerti soprattutto sul lato italiano e sarebbe opportuna una strategia nazionale che sostenga l’iniziativa su vari fronti (con adeguate politiche per la ricerca, la formazione, il sostegno alla componentistica, nonché la partecipazione al capitale del gruppo) e cerchi di indirizzarla verso obiettivi desiderabili per il paese.  

Brutte sorprese arriveranno presumibilmente sul fronte del numero dei dipendenti. In generale le case dell’auto, nonché le imprese della componentistica, di fronte alle conseguenze della pandemia e a quelle, più importanti, della rivoluzione tecnologica in atto, tendono a ridurre i livelli di occupazione. 

In prospettiva problemi particolari si pongono su questo fronte per Stellantis. La capacità produttiva complessiva del nuovo gruppo in Europa appare largamente superiore ai livelli di vendita attualmente sviluppati ed esistono tra le due entità duplicati sia a livello di stabilimenti che di uffici. 

Gli impianti italiani, anche se molto avanzati dal punto di vista tecnico, lavorano da molti anni con volumi di produzione ridotti, mantenendo l’occupazione grazie alla cassa integrazione e ad altre provvidenze pubbliche e questo ormai da 14 anni. Tra l’altro, negli anni Novanta si producevano in Italia in media 1,7 milioni di unità all’anno, mentre nel 2016 si era ancora ad 1 milione di pezzi e nel 2020 eravamo ormai scesi a 717.000, il minimo per non morire. I siti italiani vengono utilizzati all’incirca per il 60% della loro capacità produttiva, mentre quelli della PSA lavorano su tre turni. E c’è da considerare che FCA garantiva sino ad oggi circa il 50% del fatturato del settore italiano della componentistica. 

In assenza del collocamento nei siti italiani di nuovi modelli in misura adeguata, cv’è quindi da aspettarsi qualche cattiva sorpresa per quanto riguarda l’occupazione nei nostri stabilimenti e nell’indotto. 

Tralasciamo i problemi organizzativi derivanti dal processo di integrazione tra i due gruppi, dalla cultura aziendale abbastanza differente; anche nell’area degli enti centrali si registreranno esuberi importanti di personale.

Va ricordato infine un particolare curioso: nel consiglio di amministrazione di Stellantis entrano due rappresentanti dei lavoratori; nominati senza ascoltare gli stessi lavoratori e i sindacati, mentre per quanto riguarda quello di spettanza di FCA la persona designata è un alto manager di una multinazionale.