Bassa partecipazione, regole incerte, esiti contestati: la democrazia Usa non è mai stata così fragile, tra le falsità e le minacce di Trump e l’immobilismo di Kamala Harris. Le elezioni del 5 novembre mostrano le pericolose derive della politica, che da Washington arrivano fino a noi.
Di ritorno da un ennesimo soggiorno negli Stati Uniti, ove sono ormai in corso elezioni presidenziali e congressuali che si consumeranno il 5 novembre – in molti Stati è in corso un cospicuo voto postale anticipato – mi sforzo per non cadere preda di un sentimento purtroppo universale di sconforto accompagnato da malcelata soddisfazione per le sofferenze di un potere sempre più ingombrante. Il mitico elefante nella cristalleria. Perchè queste elezioni segnalano la crisi di una democrazia che si riverbera in ogni parte del mondo, compresa la nostra Italia.
Al massimo livello si contrappongono due candidature entrambi foriere di crescenti tragedie di guerra che si traducono in stragi di innocenti. Trump, esplicitamente fascistoide, mente sapendo di mentire ogni volta che apre bocca, ma con credibile sincerità preannuncia l’eliminazione, si spera, soltanto giudiziaria e politica degli avversari sicuramente sconfitti. Gli si affianca ormai Elon Musk, un altro “fuori di testa”, con precisi conflitti d’interesse. La proclamazione eventuale della vittoria della sua avversaria, a suo dire, costituirebbe invece la prova di una truffa analoga a quella subita nel 2020 e meriterebbe a suo avviso, in forma più drastica, la stessa reazione messa in atto in quella occasione con l’invasione popolare del Congresso. Peggiora la situazione il fatto che i meccanismi elettorali vigenti sono tali da rendere plausibili accuse di questo tipo.
Infatti, le regole variano non soltanto Stato per Stato, ma contea per contea. Il voto si svolge in una giornata feriale, in poche sedi tali da determinare lunghe e disordinate code. Latitano i controlli, perchè variano le modalità di accesso al voto, talora previa registrazione, postale anticipato o meno, tecniche elettroniche o scritte, orari elastici, comunicazioni anticipate di risultati parziali, mai sottoposti a verifiche da parte di rappresentanti delle parti contendenti. Se l’esito complessivo dell’elezione presidenziale è comprensibilmente il risultato di un compromesso costituzionale tra piccoli e grandi Stati, l’esperienza del 2020 ha messo in dubbio la regola su cui si fonda: il dovere dei “grandi elettori” espressi dalle urne in ogni Stato, di esprimere in toto l’esito del voto nel proprio Stato.
Si aggiunga, a titolo di controprova, che, nel 2000, il democratico Al Gore dovette cedere la presidenza a George W. Bush Jr. perchè suo fratello Jeb Bush, governatore della Florida, non consentì la riconta delle schede che avrebbe determinato l’esito complessivo di quelle elezioni, consentendo alla Corte Suprema, a maggioranza repubblicana, di scegliere il nuovo presidente. Grava, oltretutto, sulla qualità democratica del sistema elettorale il suo costo economico. Sia Trump che Harris registrano contributi tutt’altro che disinteressati, per circa un miliardo di dollari ciascuno, che consolidano l’egemonia di una esigua minoranza multimiliardaria sulle istituzioni politiche a scapito degli interessi e dei diritti della grande maggioranza non più sovrana. Se poi si aggiunge che il governo di uno Stato straniero, quello d’Israele, controlla i finanziamenti di circa un terzo dei parlamentari nel silenzio acquiescente dei media più importanti, lo Stato di crisi della democrazia, un tempo imperfetta, ma sovrana diventa lampante.
I sondaggi d’opinione registrano ad oggi previsioni incerte negli Stati ritenuti determinanti ai fini delle elezioni attuali. Kamala Harris – candidata democratica dopo la tardiva rinuncia di Joe Biden – deve fare i conti con una situazione di incerta e limitata partecipazione al voto che, negli Stati Uniti come in tutto l’Occidente, rischia di favorire la maggiore capacità di un candidato dell’estrema destra a motivare al voto potenziali astensionisti. Lo spauracchio dell’immigrazione trova pronto e pressoché unanime riscontro nelle schiere di bianchi poveri che ne risultano distratti dalle crescenti di diseguaglianze sociali che Trump si guarda bene di mettere in discussione. Ad oggi, la vice presidente in carica, pur prendendo tardivamente la distanze dalla presidenza Biden, non sembra capace e nemmeno intenzionata a motivare il numero crescente di giovani pacifisti, antiliberisti, ebrei filopalestinesi, minoranze etniche militanti, portati a rifiutare la logica del “male minore”, non votando o, addirittura, preferendo il limpido messaggio politico di Jill Stein – la candidata dei Verdi Usa (qui l’analisi del New York Times ). Per Kamala Harris, l’insistente appello al voto femminile, sicuramente motivato dal diritto di aborto in pericolo, la ripresa economica poco percepita e i flebili richiami a istanze di maggiore giustizia sociale, potrebbero risultare insufficienti.
Quale che sia l’esito finale della contesa, ancora una volta tornano a mente le parole dello storico Edward Gibbon che individuava il declino dell’Impero di Roma nell’incapacità di rispettare le leggi che intendeva imporre al mondo. Tuttavia, tale sviluppo non può essere motivo di soddisfazione per coloro che lo denunciano. I suoi esiti possono risultare catastrofici per tutti. Occorre, quantomeno, iniziare una discussione, ad oggi mancante, su conseguenze, antidoti, possibili rimedi, anche a salvaguardia di valori di una storia anche nostra.