C’è un’idea carsica che scompare e ricompare nel dibattito politico europeo: quella di concedere incentivi finanziari agli stati in cambio di riforme strutturali. Si tratta di un’idea perniciosa che il Governo italiano farebbe bene a bloccare durante il semestre di Presidenza
Concepiti per la priva volta nel marzo del 2013 con il nome di Contractual Arrangements sono ritornati in voga recentemente grazie ad una esternazione di Mario Draghi in favore di un “Reform Compact” e sono stati ventilati da J. C. Juncker nel suo discorso inaugurale al Parlamento europeo.
Si tratta di un’idea perniciosa che il Governo italiano farebbe bene a bloccare durante il semestre di Presidenza. Va detto innanzitutto che una simile proposta è frutto soprattutto della de-politicizzazione del dibattito pubblico, europeo e nazionale. Ecco alcuni motivi per non accettare l’ennesimo ”pacco”.
1) Le “riforme necessarie”. La prima obiezione da muovere alla proposta è che essa si basa sull’assunto che esistano delle riforme strutturali “necessarie” che i paesi devono fare se vogliono tornare a crescere. È una cantilena ricorrente anche sui media italiani. Si tratta purtroppo in parte d’ingenuità giornalistica, ed in parte di un malizioso trucco semantico. Le riforme strutturali sono in primo luogo sempre delle riforme “distributive”, vanno cioè a modificare in modo strutturale la distribuzione delle risorse all’interno della società. L’esempio classico sono le riforme del mercato del lavoro: esse determinano in che modo il prodotto nazionale sia suddiviso fra salari e profitti, ovvero fra lavoratori e datori di lavoro. Le riforme attuate negli ultimi 20 anni in Italia e in Europa hanno provocato un massiccio trasferimento di ricchezza dai primi ai secondi (pari a più di 10 punti di PIL fra il 1970 ed oggi). Secondo la teoria che sottende questo tipo di riforme, una tale redistribuzione della ricchezza avrebbe dovuto – aumentando i rendimenti del capitale – promuovere ulteriori investimenti e quindi aumentare il volume della produzione, e con esso la crescita e l’occupazione. Al di là del fatto che esistano oramai numerosissimi studi che smentiscono questo tipo di evoluzione virtuosa, è evidente che sostenere astrattamente l’esistenza di “riforme necessarie” implichi ritenere economicamente e socialmente ininfluenti i loro esiti distributivi. Inoltre significa anche pretendere di far diventare “tecnici” ed assoluti dei dibattiti che invece sono estremamente politici e relativi, poiché determinano le condizioni di vita dei cittadini e l’organizzazione della società.
2) Chi deve fare le riforme. Un altro problema di questo peculiare tipo di “riformismo” è stabilire chi debba fare le riforme, ovvero è innanzitutto necessario intendersi sulla posizione relativa dei diversi stati rispetto a degli obiettivi o benchmark – in gergo. Non è difficile capire il livello di arbitrarietà che ciò comporta: non soltanto si devono monitorare degli indicatori economici piuttosto che altri, ma è anche necessario stabilire degli obiettivi comuni – ovvero l’orizzonte verso cui ci si dirige. L’OCSE ha sviluppato diversi indici per classificare la “capacità riformatrice” dei paesi. Gli indici più noti sono l’EPL (Employment Protection Legislation) e il PMR (Product Market Regulation), valori bassi di questi indici sarebbero virtuosi, secondo l’OCSE, poiché indicano minore regolamentazione, minori protezioni per i lavoratori, maggior flessibilità e maggiore apertura dei mercati. Tralasciando l’assoluta arbitrarietà dei criteri, è interessante notare che utilizzando gli indici dell’OCSE si potrebbe arrivare a conclusioni sorprendenti. Ad esempio i Paesi con l’EPL più elevato in Europa sono la Germania e l’Olanda, mentre l’Irlanda, la Spagna e anche l’Italia hanno indici decisamente più bassi. Similmente per quanto riguarda l’apertura dei mercati, l’Italia si piazza meglio ad esempio del Lussemburgo e del Belgio. C’è chi ha osservato quindi che se si usassero questi indici per stabilire chi deve fare le riforme si potrebbe cadere nel paradosso di dover pagare la Germania perché liberalizzi il mercato del lavoro.
3) Chi paga per le riforme. Supponendo di poter accantonare idealmente le prime due obiezioni, il terzo problema è stabilire come si formalizza l’incentivo finanziario per gli statiche fanno le riforme. Innanzitutto sarebbe necessario dare un prezzo alle riforme: quanto costa la liberalizzazione dei servizi postali o la flessibilità del mercato del lavoro? In secondo luogo, si tratterebbe di finanziamenti a fondo perduto (quindi dei trasferimenti) o dei prestiti (quindi da rimborsare)? Nel primo caso, quali paesi sarebbero disposti a operare tali trasferimenti, considerata la feroce opposizione fin qui dimostrata da tutti i principali paesi? Nel secondo caso, non solo bisognerebbe prezzare bene le riforme ma anche valutarne molto bene i rendimenti, poiché i prestiti si ripagano con gli interessi.
Tuttavia forse la ragione più forte per opporsi a simili idee ce la da proprio Mario Draghi, quando sostiene, nell’articolo sopra citato, che gli esiti dei programmi del FMI forniscono dei buoni esempi di come la disciplina imposta da organi sovrannazionali sia utile per imporre riforme. In sostanza Draghi propone di sospendere la democrazia ed applicare all’Europa la stessa terapia adottata dal FMI con i Paesi asiatici degli anni 90°. E guarda caso i paesi che ne sono usciti meglio sono quelli che non l’hanno applicata, come suggerisce spesso Stiglitz.
Infine è bene ricordare che questo teatrino sulle riforme strutturali serve ad evitare di discutere del vero problema dell’eurozona, ovvero l’incompleta architettura dell’unione monetaria. Perché come diceva Keynes “il pubblico afferra sempre meglio le cause particolari che le cause generali, la depressione sarà quindi attribuita a tensioni industriali, (…), alla Cina, alle tasse, (…), a qualunque cosa al mondo fuorché alla politica monetaria, che è stata il motore di tutto”.