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Socialisti in cocci

I partiti socialisti hanno progressivamente abbandonato il loro bacino di insediamento: le classi lavoratrici e i ceti medi legati al welfare. Una progressione di scelte errate con un unico risveglio: il Labour di Corbyn, una lezione non appresa.

I partiti sono imprese politiche volte a ottenere consenso elettorale e potere. È da vedere l’uso che ne fanno, dal governo o dall’opposizione, ma quello è il loro obiettivo istituzionale. Nella storia quasi bisecolare dei partiti di massa europei sono distinguibili più stagioni. La prima è iniziata coi partiti socialisti (o socialdemocratici). Che miscelavano tre ingredienti principali: l’offerta alle classi lavoratrici di una speranza politica, cioè la promessa di un futuro più giusto; una trama di vincoli di solidarietà e appartenenza e un’azione protettiva; la cura capillare del loro seguito territorio, avvalendosi di grandi apparati organizzativi. L’invenzione sarà imitata dai partiti comunisti, ma pure dai grandi partiti confessionali e conservatori. 

La seconda stagione dei partiti è iniziata tra gli anni ’50 e ’60. L’approssimarsi e l’insediarsi al potere dei partiti socialisti susciterà una grande mutazione che li ravvicinerà agli altri partiti. Dedicandosi ormai all’azione di governo, nazionale e locale, la utilizzavano per mantenere il loro elettorato. Alcuni partiti privilegiavano gli interessi diffusi, altri gli interessi di specifici gruppi sociali, altri ancora facevano mezzo e mezzo. Comunque, la speranza si faceva più vaga, la manutenzione delle appartenenze e l’azione protettiva si affievolivano, si alleggerivano infine le macchine di partito. E si semplificava del pari l’offerta elettorale. Se in precedenza i partiti socialisti avevano un’utenza connotata socialmente e lo stesso i loro concorrenti – ma le sovrapposizioni non erano escluse –, d’ora in poi l’offerta elettorale sarà rivolta a un’utenza più generica. Convergenti  nelle forme, i partiti convergevano anche sui programmi politici: il «compromesso socialdemocratico» era un ombrello molto inclusivo, cui corrispondeva una conduzione meno polemica della contesa politica. Presto inizierà il tempo della tv: i partiti si convincevano che la promozione elettorale tramite i teleschermi fosse più efficace, e meno onerosa, sul piano organizzativo, di quella condotta sul campo. Dopotutto, era cambiato il loro personale politico: ormai più incline a governare e ad amministrare che a interloquire in maniera ravvicinata con gli elettori. 

Finché non inizierà una terza stagione. L’ha inaugurata Margaret Thatcher. La quale, senza mettere in discussione le forme, dismesso il compromesso socialdemocratico, assunse un atteggiamento ferocemente polemico verso i laburisti, i sindacati e soprattutto le classi lavoratrici. Iniziava la stagione del neoliberalismo. La reazione dei partiti socialisti è consistita nello sposare anch’essi, con qualche aggiustamento, l’ortodossia neoliberale, ma soprattutto nel mettersi in caccia dell’elettorato moderato. 

Avrebbero potuto opporsi e organizzare la resistenza del mondo del lavoro, incoraggiando, ad esempio, un uso diverso delle nuove tecnologie. Hanno preferito abbandonare una parte del bacino elettorale su cui avevano finora contato: le classi lavoratrici e i ceti medi legati al welfare. Si erano verosimilmente convinti che il passaggio dal fordismo al postfordismo comportasse il regresso della classe operaia tradizionale e l’espansione della classe media dei servizi e della new economy. Meglio conquistare una nuova utenza che attardarsi a difendere il lavoro operaio e anche il welfare, troppo costoso per essere mantenuto così com’era. In assenza di alternative, il loro elettorato tradizionale si sarebbe accodato: a conti fatti, l’offerta della sinistra, seppur edulcorata, era per le classi lavoratrici più conveniente di quella della destra. Movente non secondario è stato l’ulteriore rinnovamento dei gruppi dirigenti e degli aspiranti a farne parte: ormai provenienti dal ceto medio istruito e disavvezzi al duro lavoro di manutenzione puntuale dell’elettorato. Meglio sfruttare le policies e anche i mass media

Per rendere più appetibile la nuova offerta e rivolgersi al nuovo elettorato, i partiti socialisti hanno addobbato la loro offerta politica in due modi. Il primo, seguendo i partiti moderati e conservatori, è consistito nel proporre nuove forme di leadership personale, con largo condimento di retoriche partecipative e tecniche di disintermediazione: quali l’elezione diretta del leader e le primarie per selezionare i candidati alle elezioni. Il secondo modo è consistito nel concentrare l’offerta programmatica sulla tutela delle minoranze e delle differenze. Qualcuno l’ha chiamato progressive liberalism.

Come hanno reagito gli elettori? Gli elettorati in realtà sono meno fluidi di quanto spesso di dica. In generale, gli elettori di destra sono rimasti a destra. Semmai, quando scontenti, si sono radicalizzati e redistribuiti nei nuovi venuti della destra populista. Non si segnalano invece apprezzabili deflussi verso sinistra. Più complessa è la reazione degli elettorati di sinistra. 

Gli elettori di destra e di sinistra hanno preferenze diverse. I primi sono di bocca buona: più mercato e  meno tasse li accontentano. Gli elettori di sinistra hanno gusti più complicati. Una parte è rimasta leale ai vecchi partiti, salvo via via allontanarsi. Una seconda parte è defluita verso l’astensione, magari non permanente. Dove si è manifestata la possibilità, una terza parte ha prescelto le formazioni di nuova sinistra o altre, comunque non riconducibili alla destra. C’è infine un’ultima parte che ha preferito la destra populista, la quale avanza un’offerta politica simmetrica a quella, antica, della speranza. È un’offerta fatta, com’è noto, di discorsi paurosi, angoscianti e difensivi. Questa parte di elettori si è convertita ai discorsi xenofobi e antipolitici dei populisti, o la sua è solo ripicca per la rinuncia dei partiti socialisti a rappresentarla e a proteggerla? 

Non lo sappiamo, anche se qualche ricerca propende per la prima possibilità. I cosiddetti left behind non sarebbero in grado di adeguarsi agli inevitabili cambiamenti del mondo attorno a loro. Non sono attrezzati culturalmente per adeguarsi alle attese della società e dell’economia globalizzate e ai nuovi orientamenti culturali che questi ultimi impongono – multiculturalismo, rispetto delle differenze, grande flessibilità occupazionale – ed è pertanto ovvio che aderiscano all’offerta oscurantista dei populisti. L’interpretazione è un po’ razzista e va per la maggiore. Ma non dissolve l’incertezza. 

Il dato più sicuro è che i partiti socialisti dai primi anni 90 hanno disceso una china molto ripida. Tra i primi anni ‘90 e la seconda metà degli anni dieci del nuovo millennio, la Spd tedesca è calata dal 41 per cento dei consensi nel 1994 al 20 per cento del 2017; i socialdemocratici svedesi sono discesi dal 45 al 28 per cento, i danesi dal 36 al 26 per cento. Non è andata meglio ai socialisti spagnoli passati dal 38 al 28 per cento ed è stato un disastro per il Partito socialista francese, che si è ridotto dal 18 al 7 per cento. In Grecia  è sparito il Pasok. La sinistra italiana, che a fine anni ’80 – Pci più Psi – non era lontana dal 40 per cento dei suffragi, non arriva al 25 per cento, pur avendo ereditato una quota dell’elettorato democristiano. Non bastasse: tutti questi partiti hanno subito sostanziose secessioni. 

Sono dati inequivocabili: non contano né forma di governo, né regime elettorale. L’unico caso che si presta a qualche controversia è quello del Labour. Dopo aver conseguito, successivamente al restyling promosso da Blair il 43,5 per cento alle elezioni del 1997, il consenso elettorale è regolarmente declinato fino al 28 per cento nel 2010, per risalire al 31,6 nel 2015. Una risalita consistente, fino al 41 per cento, sopraggiungerà invece nel 2017, dopo che Jeremy Corbyn aveva promosso un’offerta di rappresentanza specificamente indirizzata al vecchio bacino elettorale working class. Per quanto si sia conclusa malamente, e quale che sia il giudizio politico su di essa, l’avventura di Corbyn è il solo esperimento – forse perciò tanto avversato? – di riuscita riscoperta. L’ultimo appuntamento elettorale, in cui il Labour e il suo leader sono stati bersaglio d’ogni sorta di ostilità, neanche troppo leale, è andato male. Ma è stato il miraggio del Brexit che ha scompaginato il gioco. In ogni caso, a dispetto delle opposizioni interne ed esterne, sotto la leadership di Corbyn si sono risollevate le iscrizioni, si è rivitalizzata la militanza, specie giovanile, anche sfruttando le nuove tecnologie digitali. Non si è registrata alcuna fuga dell’elettorato proveniente dai nuovi ceti medi ed è stata pure compensata l’emorragia provocata dallo Scottish National Party. Per un po’ di tempo, la ricetta era azzeccata.  

Quali conclusioni ricavare da questa ricostruzione? 

La prima è che i partiti socialisti sono da trent’anni sulla difensiva. Vincono talvolta, ma a guardare con attenzione più che per meriti propri, per i demeriti degli avversari. Quando gli elettori sono stanchi dei governi di destra e delle loro politiche, hanno qualche possibilità di recupero. Difficoltoso per due ragioni. Salvo che devono rimediare ai danni provocati dalle destre – il caso italiano è esemplare – e che restano prigionieri dell’agenda  neoliberale. Non sono in grado di avanzare offerte alternative. 

La seconda conclusione è che il progressive liberalism da solo non paga. Sì, i partiti socialisti si sono radicati tra i ceti medi, ma in ragione dell’exit di parte non piccola delle classi lavoratrici. Difendere le ragioni della popolazione femminile, tutelare gli omosessuali, accogliere i migranti, corrisponde a un principio di giustizia sociale. Irrinunciabile e qualificante per chi stia a sinistra. Ma è inaccettabile che un’ingiustizia sia curata lasciando che un’altra si aggravi: quella verso il mondo del lavoro. L’hanno inteso gli elettori e infatti il bilancio del baratto è deficitario. Mentre la popolazione femminile è consapevole che non le servono compensazioni simboliche, ma benefici materiali: pari opportunità occupazionali, parità retributiva, servizi mirati alla maternità, ecc. Se ci si limita alle quote, appaiono una beffa. Infine: nulla lascia pensare che i ceti medi metropolitani e dinamici siano avversi alle politiche dell’occupazione o del welfare. Che non stanno più solo a cuore ai ceti popolari, ma anche a un’ampia fetta degli stessi ceti medi: lo sviluppo tecnologico minaccia l’occupazione di tutti. Resta da aggiungere che gli elettori di destra che si sono riaccasati a sinistra sono una minoranza insignificante. Ammesso che ci sia.

Nessuno a sinistra si lascia nemmeno abbindolare dal leaderismo e dalla pretesa disintermediazione. Le primarie si sono rivelate per lo più addomesticate: solo in rari casi hanno contraddetto le attese. In più concentrano la contesa sulle persone e non sulle scelte di policy. Sono insomma un trucco. I tanto denigrati congressi vecchio stile, locali e nazionali, erano un modo assai più stringente per interloquire se non altro con gli iscritti e con i quadri. Non è più immaginabile una presenza su territorio paragonabile a quella condotta dai partiti fino agli anni ‘60. Ma la fatua liturgia delle primarie, spesso manipolate dai media, non è il rimedio. 

Non funziona nemmeno il ricatto della dicotomizzazione della contesa politica, ottenuta intervenendo sulle regole elettorali, oppure tramite i media. Sempre meno gli elettori di sinistra scontenti scorgono reali differenze con l’offerta politica della destra. E se ne avvalgono, se non altro per protestare. O si astengono, o preferiscono altre opportunità. 

Infine. Non è detto che gli elettori della sinistra gradiscano le contese dicotomiche: è ciò che si ricava dai dati sull’astensione, che è meno elevata tra gli elettori di destra che tra quelli di sinistra. Già, perché non solo gli elettori non cedono al ricatto maggioritario, ma, batti e ribatti, potrebbero aver capito come funziona il gioco. Le leadership che perdono le elezioni sono escluse dal potere, ma si consolano occupando postazioni piuttosto confortevoli, insieme ai loro intellettuali di servizio. Agli elettori della sinistra tocca invece il conto della macelleria sociale che è consueta per i governi di destra. Per i quali i governi di sinistra, che rimettono i conti in ordine e non a loro spese, sono un ottimo affare.