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Smascherare la Bestia nella piazza virtuale

Un gruppo di “cittadini preoccupati”, autotassandosi, ha dato vita ad un sito che si propone di destrutturare il linguaggio e i meccanismi della propaganda via social della Lega di Salvini. Il sito, che si chiama Smask, è online dal 1° settembre e aperto ai contributi dal basso.

Sono apparsi in una notte di inizio settembre come giganteschi funghi velenosi bidimensionali, enormi cartelloni di propaganda con cui la Lega inizia la sua campagna elettorale per le elezioni comunali di Roma. Non si vota per il Campidoglio che tra un anno. E i partiti non hanno ancora presentato neanche uno straccio di candidatura se si toglie l’autoriproposizione di Virginia Raggi che ha mandato su tutte le furie il gran ciambellano del Pd romano, Goffredo Bettini. Siamo dunque ai prodromi mentre a vedere i cartelloni salvininiani sembra quasi che il voto del 20 e 21 settembre già riguardi l’amministrazione della capitale. Il leader campeggia, vestito come negli altri manifesti per le regionali in giacca blu e camicia bianca, qui a braccia conserte. Per il resto cambiano solo i colori dello sfondo insieme a slogan e capitoli di testo “Roma, una città più pulita”, “Roma, una città più efficiente” e così via. Meno aggressivi e più discorsivi del solito, i manifesti romani sono soprattutto invasivi, alti sui vecchi trespoli dell’affissione pubblica comunale si stagliano a grandezza sei per tre sulle arterie consolari e sulla via del Mare e a scala più ridotta in tutti i quartieri, nei punti di maggior transito. Preparano la strada e intanto servono anche per la campagna elettorale di fine settembre, perché si sa che anche se a Roma si vota solo per il referendum, la capitale è sempre un porto di mare e tanti che la abitano sono residenti altrove. 

La Bestia, l’apparato di propaganda del leader leghista, è ferita ma tutt’altro che morta. E questi cartelloni settembrini sono lì a ricordarlo ai palazzi romani. Mentre l’ex capitano cerca di riparare nelle sue grinfie alle continue disfatte nei sondaggi e nelle preferenze. Perde terreno all’interno del suo stesso partito a vantaggio dal veneto Luca Zaia e alla sua destra la sua popolarità viene erosa dall’alleata Giorgia Meloni. Entrambi, tanto Zaia che Meloni, hanno, evidentemente, un profilo più rassicurante e adatto all’epoca post-Covid. E c’è inoltre da restaurare la sua immagine di fronte alla perdita di smalto dell’incombente processo Open Arms e dell’inchiesta milanese sugli affari immobiliari dei commercialisti della Lega. 

La Bestia, dicevamo si è rimessa in moto. Il suo compito, ormai è noto, da quando è stata partorita sei anni fa da un oscuro segretario del partito mantovano, Luca Morisi, è sempre stato quello di ottimizzare la partecipazione dei militanti facendo sponda con un apparato di propaganda innovativo, incentrato sull’idea del capo solo al comando, sovraesposto sui media tradizionali, elevato a brand con tanto di nome nel simbolo, un apparato che unisce attivismo dei militanti sui social, algoritmi più o meno truffaldini e una squadra di 35 funzionari di nuovo conio, una macchina del consenso pilotato che ha operato in pochi anni un completo re-styling della Lega Nord, da partitino regionale a forza politica nazionale e nazionalista, ponendolo al centro dell’agone politico. Fino alla richiesta agostana dei “pieni poteri” del Papeete, un anno fa. 

La Bestia è stata proposta ai militanti leghisti come un animale ungulato da branco: un lupo, suggerito nella foto che campeggiava sotto lo slogan “Libera la bestia che c’è in te” sul quotidiano online “Il populista”. Era questa la chiamata alle armi, l’invito o meglio la “call to action”, per usare il gergo del marketing politico 4.0. 

La Bestia è invece un mollusco tentacolare che spruzza nuvole nere avvelenando i pozzi nella grafica di un sito nuovo, appena lanciato – il 1° settembre – da un gruppo di cyberattivisti di sinistra, una iniziativa che si propone di smascherarne le tecniche di inabissamento e cattura delle prede della macchina salviniana del consenso. 

Il sito si chiama Smask.online (così il dominio) ed è nato dopo un anno di lavorazione, promosso da un gruppo di ricercatori, web designer, esperti di comunicazione e “cittadini preoccupati” che preferisce lavorare come “collettivo redazionale”, cioè senza un portavoce. Si tratta, per il momento, di una cinquantina di membri attivi, tra i quali una ventina i fondatori, con età tra i trenta e gli ottanta anni, nessun rapporto con le Sardine o con altri collettivi di cyberattivisti, ha un radicamento, per il momento, in Lombardia, Umbra, Lazio e Sicilia e anche collaboratori tra gli italiani all’estero. Il collettivo di Smask, che si autofinanzia, è aperto, basta registrarsi sul sito e sottoscrivere il codice etico. L’idea – ci spiegano – è che il “capitano” non esiste in realtà, è solo un simulacro tenuto in pista artificialmente con tutti i riflettori puntati sul palco. Un artificio mediatico, un finto bersaglio dietro cui si muove la Bestia. E si deve dunque, piuttosto che prendersela con i tweet di Salvini, decostruire i messaggi e i significati impliciti che vi si nascondono, smontando pezzo per pezzo i “frame” che li rendono così falsamente innocui, le trappole linguistiche e cognitive, i bias e le fake news. Il collettivo si propone di rispondere con messaggi concisi e stile rigoroso, sempre citando le fonti. Finora – si tratta di un work in progress – sono state rintracciate 10 tematiche e 150 parole chiave che ricorrono nel linguaggio “bestiale”, passando al setaccio i post, i tweet e le frasi ricorrenti nei suoi comizi. Le 150 parole chiave affrescano, come un cloud o una trina, la homepage. Le 10 tematiche sono disposte a seguire: vanno da “Famiglia e ordine”, “Ossessione migranti”, “Nemici, complotti e bacioni”, “Dio e patria” fino a “Amici neonazionalisti”, “Guardaroba e travestimenti”, “Sport da bar” e “Dieta sovranista”. Non tutte le voci sono ancora riempite e attendono contributi da raccogliere tra chi vuole partecipare al progetto collegandosi in Rete. Entrando in ognuno di questi capitoli detti “Tentacoli” si penetra nello storytelling della macchina octopussiana e quindi si accede ad altri sottocapitoli interattivi dove si può aggiungere la propria controrisposta di smascheramento. Dal menù in alto si accede invece a una breve spiegazione sull’identità dell’animale da neutralizzare, corredata da una emeroteca di pubblicazioni sull’argomento “Bestia”. A coadiuvare il sito sono stati attivati anche un account Facebook, uno di Twitter e uno su Instagram ma è nella pagina internet che si accede alla maggior parte dei contenuti già redatti, mentre non è escluso che in futuro il collettivo di Smask, crescendo, si dedicherà anche ad altri social come Tik Tok, su cui la Bestia avrebbe già 300mila follower, ancora però da verificare se siano millantati o no, e sui canali YouTube connessi ai vari Salvini Lab. 

L’obiezione di fondo al lavoro volontario del collettivo di Smask può essere quello arcinoto del linguista cognitivo George Lakoff, che invitava a “non pensare all’elefante”, tanto per rimanere in tema animale. Cioè a non impegnarsi a smentire i frame dell’avversario ma piuttosto a svilupparne di propri e più potenti. Il rischio, in altre parole, è quello di convincere solo le persone già avvertite della pericolosità del discorso salviniano. O peggio di rafforzarlo. Ciò che da anni, secondo la linguistica cognitiva, è da tenere sempre presente è il meccanismo delle cosiddette “echo chambers” o casse di risonanza. Questi “oggetti” virtuali sono indicati come tipici della comunicazione via social network perché gli algoritmi che agevolano la condivisione alimentano community chiuse nelle quali il passaggio di contenuti ed espressioni si cristallizza escludendo le idee in dissenso, i dubbi e quindi alla fine i contatti con i dubbiosi e i dissenzienti anche nella interrelazione tra persone fisiche, ad esempio nei discorsi da bar. È l’intero mondo dei social network che, avvertono da anni gli esperti, tende a irrigidirsi e a frantumarsi in comunità chiuse e impermeabili a idee e ragionamenti diversi e dissonanti, che vengono respinti come attacchi all’identità del gruppo. Il collettivo di Smask deve vedersela pertanto con tutti questi meccanismi della cosiddetta “misinformation” o distorsione, nell’attecchimento di fake news resistenti a ogni smentita. 

Perché, sempre seguendo ciò insegna la letteratura specifica, cercare di fare breccia nelle “echo chambers” può contribuire all’erezione di un muro sempre più invalicabile di segregazione linguistica e culturale. Il collettivo di Smask è consapevole di questi pericoli. “Sappiamo – dicono – che esiste il rischio di essere autoreferenziali e anche quello di non riuscire a sfondare il muro dei convincimenti viscerali che la Bestia ha seminato. Ci abbiamo riflettuto a lungo nell’arco dell’anno in cui abbiamo messo in gestazione il progetto. Ma alla fine abbiamo rotto gli indugi, pensiamo che non possiamo avere un effetto moltiplicatore più che tanto, perché la Bestia ha proliferato già abbastanza ed è ora di provare a fermarla senza più lasciare completamente scoperta la piazza digitale, che poi diventa anche piazza fisica, provare a interrompere la continua triangolazione tra piazza virtuale, media tradizionali e piazza fisica. Soprattutto pensiamo – aggiungono – che la schifiltoseria della sinistra a confrontarsi su questo terreno, abbia lasciato alla Bestia campo libero. E poi – concludono, gettando il cuore oltre l’ostacolo- vedremo come va”. 

Il lavoro di demistificazione di Smask può essere definito come una attività non istituzionale, fatta dal basso e da non da esperti del settore, di debunking (da bunker, fandonia). È un compito enorme quello di scardinare i gangli della post verità, su cui persino Mark Zukerberg ultimamente è chiamato a dare prova per fermare il gioco sporco che può condizionare artificialmente il funzionamento della democrazia e avvelenare i pozzi della società attraverso il dilagare di haters, complottismo e ora negazionismo sanitario sul Covid. Esistono persino manuali online di “debunking” dove la prima regola è che si devono escludere, sempre, i toni aggressivi. Che è in effetti uno dei postulati del codice etico di Smask. 

L’obiettivo di Smask è quello dichiarato di “recuperare almeno gli incerti”. Secondo Eli Pariser – già direttore di Move-On, la rete dell’attivismo di sinistra che negli Usa sostenne fortemente la prima campagna elettorale di Barack Obama oltre che fondatore del sito di attivismo online Avaaz –  le “eco chambers” sono in effetti refrattarie allo smascheramento delle fandonie. Tra i molti contributi pubblicati in Rete su questo aspetto, recentemente il filosofo epistemologo C. Thi Nguyen, dell’università dello Utah, sottolinea come accanto alle “echo chambers”, le casse di risonanza, ci sono le “epistemic bubbles” o bolle epistemiche, che sono più sensibili alle smentite. “La semplice esposizione a prove di confutazione – scrive il filosofo americano- può rompere una bolla epistemica mentre rafforza una camera di risonanza”. Perché – chiarisce – mentre nella bolla epistemica “altre voci non si sentono in quanto sono precluse, lasciate fuori, nelle casse di risonanza, le altre voci sono attivamente delegittimate, screditate, escluse. Il modo per rompere una cassa di risonanza non è quindi – avverte – sventolare “i fatti” in faccia ai suoi membri. Si deve invece attaccare la cassa di risonanza alla radice e riparare la fiducia infranta nel messaggio veritiero”. Un suggerimento, il suo, a questo punto ripetuto soprattutto ad uso delle autorganizzazioni di “cittadini preoccupati” come i collaboratori di Smask. Difficile che possano convincere i militanti-troll che ritwittano in automatico le immagini e le parole del leader, ma forse – questo è ciò che sperano a Smask- possono dare un argine e una risposta di realtà ai ragazzini che pensando di essere entrati a far parte di un innocuo gruppo social “A chi piacciono le patatine fritte” e si ritrovano sommersi da un diluvio di propaganda razzista e brutalista.