Per gentile concessione dell’editore Rosenberg & Sellier, che ringraziamo, pubblichiamo un estratto del libro di Alberto Tridente Dalla parte dei diritti (pp. 360, euro 25.50, presentazione di Gian Giacomo Migone)
Operaio e sindacalista torinese, dirigente dei metalmeccanici e responsabile della politica internazionale della Flm, protagonista della riscossa operaia unitaria, Tridente racconta la sua formazione morale e intellettuale, intrecciando emozioni e vicende personali con i grandi eventi della storia. Eccone un estratto
I luoghi dove ho lavorato
Scorrendo questi decenni di storia vado spesso con il pensiero ai luoghi dove ho lavorato, sofferto per la fatica, e al solo ricordo provo ancora pena e sgomento, forse perché si tratta di posti abbandonati, senza più vita. Eppure lì ho lavorato, vissuto, ancora bambino, affrontando le dure realtà della vita, della guerra.
Ho già scritto di questi luoghi, forse non a sufficienza, specialmente di quelli che spesso rivedo perché su strade abituali o di altri volutamente rivisitati. Ho già parlato di Venaria Reale e della Reggia restaurata – in quella città sono nato e ci vivono una sorella, la vedova di mio fratello maggiore, i loro figli e altri parenti – e anche della cascina di Borgaro, nei pressi dell’uscita dalla Tangenziale nord, dove lavorai alcuni mesi nell’estate-autunno 1944. Ho anche scritto del Morin, il barbiere di Viale Buridani, dove ho incominciato a lavorare come “ragazzo spazzola” nel 1941: la bottega, prossima alle Case Operaie della Snia Viscosa, dove ha lavorato tutta la mia famiglia, genitori e fratelli e sorelle, non c’è più. Rimangono invece i vecchi estesi stabilimenti riutilizzati per altre attività. La cascina di Borgaro è ancora lì: abbandonata e silenziosa. Si intravedono solo dei silos, chissà che cosa contengono. I campi dove nell’autunno 1944 guidavo i buoi nell’aratura sono quasi del tutto scomparsi. Non si può immaginare che in quei campi un ragazzino di soli dodici anni lavorava duramente, scalzo e affamato, conducendo anche le pecore al pascolo. Da quella cascina fuggii di notte, in pieno coprifuoco, calandomi nel torrente Stura. Seguì il primo lavoro in fabbrica, la Giuntini, una quindicina di operai in Via Don Bosco, al Martinetto, uno dei quartieri popolari della città. Di quella piccola fabbrica rimane la sola targhetta della famiglia che vi abita a ricordarmi che lì ho lavorato per due anni, il mio primo ingresso in una fabbrica vera dal 1945 al 1947. Poco lontano, in Borgo Vittoria, c’era l’altra fabbrica, dove lavorai dal 1947 alla fine del 1953: la Fonti Luigi Eredi in Via Carlo Lorenzini, l’inventore di Pinocchio, meglio noto come Collodi. La fabbrica della Fonti Luigi Eredi è anch’essa silenziosa: non filtrano luci e i riflessi violetti dell’arco elettrico delle saldatrici al lavoro sono solo un ricordo. Fa tristezza la fabbrica muta; senza vita, morta, Fa tristezza come la cascina e la “boita” di Via Don Bosco, la fabbrichetta Giuntini. Anche la Fonti non era grande: una cinquantina di lavoratori tra meccanica e falegnameria, tutti amici i giovani, guardati con riverenza gli anziani. Ci lavorarono fraterni amici della Ceseta: Mario Barletta, Gualtiero Marangon, e altri di diverse comunità parrocchiali con i quali andai per montagne negli anni successivi. I tre fratelli Fonti l’avevano ereditata dal padre Luigi: erano professori alla Casa di Carità Arti e Mestieri, la scuola dove tornai a studiare dopo l’abbandono del 1941 per frequentare i corsi serali di orientamento professionale. In quella fabbrica imparai a saldare banchi per scuole, tralicci per appendere il tabellone con il cesto del gioco della pallacanestro e altre attrezzature ginniche per palestre. Infine ci furono le Ferriere di corso Mortara, il settore siderurgico della Fiat, dove lavorai per tre anni. In origine si chiamavano le Ferriere Piemontesi, prima che la Fiat le acquistasse per rifornire di lamiera le carrozzerie del Lingotto e poi di Mirafiori. In Via Livorno vi è ora la Ipercoop e dell’acciaieria di corso Mortara non rimangono che tralicci verniciati di rosso e l’immenso tetto che ricopriva la fila dei forni di rifusione dei metalli ferrosi. Lavoro duro, faticoso, caldo insopportabile: era però un mestiere importante. A seconda del rottame e degli ingredienti aggiunti, l’acciaio era trasformato in nobile metallo, anche inox, per i molti prodotti di uso quotidiano. Di quel mondo non è rimasto più nulla. Saranno pochi gli operai sopravvissuti all’usura, alle malattie, agli anni, soprattutto i miei più anziani compagni di lavoro, che mi insegnarono a lavorare, a saldare, a capire i processi chimici che avvengono durante la fusione dei metalli. Meno nobili, naturalmente, le patologie causate da quel lavoro: la silicosi era una di quelle più micidiali e frequenti, colpiva i polmoni degli operai e mieteva vittime nelle acciaierie e nelle fonderie. Era ed è ancora la malattia professionale più temuta, apre infatti la strada ad altre non meno gravi, come i tumori polmonari. Quelle malattie mi erano state risparmiate dalla provvidenziale proposta di andare alla scuola sindacale di Firenze, il ritorno alla scuola vera, quella che mi avrebbe aperto le porte agli incarichi e alle responsabilità da dirigente sindacale. Nonostante tutto quegli anni di lavoro manuale mi avevano dato molto, sempre accompagnati dalla professionalità e dalla conoscenza della vita operaia, dall’umanità dei compagni di lavoro, lottatori sindacali onesti, laboriosi padri di famiglia. Nella loro umiltà mi hanno insegnato molto, non solo professionalmente. Le grandi opportunità di crescita culturale e politica, che mi sono state offerte nel corso del tempo e che mi hanno portato lontano, sono state permesse anche dalla loro preziosa capacità di offrire esempi di vita ricca di validi insegnamenti. A tutti questi indimenticabili compagni di lavoro, di cui ricordo solo i soprannomi – come tali erano quasi sempre conosciuti – debbo molto, per tutto quanto è poi stato negli anni successivi della mia vita.
A Roma la Fim e la Flm sono rimaste in corso Trieste. Seppure nuovamente separate, le organizzazioni dei metalmeccanici coabitano nello stesso edificio di sempre, che vide nascere la Fim. Lì nacque anche il sindacato unitario di polizia, il Siulp. Ricordo con emozione la sera che tornando in sede vidi numerose auto della polizia ferme con le radio gracchianti. Erano le sollecitazioni che pervenivano dalla Centrale, ma gli equipaggi delle volanti non rispondevano: si erano riuniti nella sede sindacale dei metalmeccanici per costituire il loro sindacato, il primo sindacato di polizia, autonomo, democratico. Era stato uno straordinario passo in avanti nella democratizzazione del paese e si compiva nella sede del mio, del nostro sindacato!
Termina qui la storia, ma non la corsa. Questa continua nel tentativo di aggregare strutture di servizio pubblico ed enti amministrativi territoriali per realizzare altre iniziative da inserire nel programma di cooperazione, al quale sto dedicando immutata passione e gran parte del mio tempo. Non sento stanchezza né vivo delusioni di sorta, nonostante difficoltà non facili da superare. Il mio inesauribile ottimismo mi sorregge sempre, affidato non solo al mio carattere naturale, ma basato su quanto di nobile esiste nell’essere umano, che al meglio si esprime nella solidarietà e nel dono. Traggo fiducia ed energia dai molti e generosi esempi di dedizione di quanti si applicano ogni giorno all’attività nel volontariato, nelle ong, nelle cooperative sociali, negli ospedali. Traggo fiducia dagli onesti operatori dei servizi pubblici dei vari campi di attività e da quant’altro viene offerto alla cittadinanza da credenti e laici, uomini e donne dagli alti profili civili, e anche, nonostante tutto, dai molti altri onestamente impegnati ogni giorno nella politica e da semplici cittadini che, nel privato e nel pubblico, svolgono con rigore il proprio lavoro e dovere di cittadini. Dall’impegno dei singoli e dei gruppi, che non badano al proprio tornaconto personale o alla sola carriera, traggo questi stimolanti esempi.
Le carriere sono possibili e lecite, opportunità che non vanno ricercate come fine a se stesse, come del resto l’ascesa sociale spesso offerta dalle circostanze, senza per ciò dover vendere la propria anima a chicchessia. Basta fare il proprio dovere ed essere disponibili a servire ideali.