L’emergenza coronavirus mostra che i tagli alla sanità pubblica pregiudicano l’intero sistema socioeconomico. Il blocco della produzione rivela l’indispensabilità di ammortizzatori sociali che solo il welfare può offrire. E la visione di un’Europa fondata sull’austerità appare sempre più incongrua.
La pandemia da coronavirus, che al momento sta comprensibilmente assorbendo l’attenzione generale sui suoi sviluppi più immediati e drammatici, potrebbe avere una valenza storica non solo a livello sanitario e per le sue conseguenze sui sistemi produttivi e finanziari, ma anche come punto di svolta nelle teorie e politiche economiche prevalenti. Non da ultimo per importanza, il Covid-19 sta già rapidamente incidendo sul buon senso comune diffuso nell’opinione pubblica che da decenni continua a essere egemonizzato dal neoliberismo nonostante la ripetuta evidenza dei suoi fallimenti.
Un aspetto particolarmente incongruente delle vicende economiche degli ultimi anni è che la crisi del 2008 è stata “curata” persistendo nella stessa visione delle politiche che l’hanno determinata. Parte non secondaria della contraddizione è che, come avvertiva Keynes, “la difficoltà non sta nelle idee nuove, ma nell’evadere dalle idee vecchie, le quali, per coloro che sono stati educati come lo è stata la maggioranza di noi, si ramificano in tutti gli angoli della mente”. Solo che da quell’avvertenza sono trascorsi ben ottantaquattro anni e già la “Grande depressione” degli anni Trenta aveva insegnato che per compensare i fallimenti dei mercati è necessario abbandonare (anche a livello di buon senso) il credo liberista e affidare un ruolo significativo all’intervento pubblico, come poi si è fatto nel successivo mezzo secolo.
La storia ci ha confermato che nei paesi capitalisticamente sviluppati, i notevoli risultati economico-sociali raggiunti nel trentennio della golden age dopo la seconda guerra mondiale non si sono ripetuti nei decenni consecutivi caratterizzati dal ritorno al liberismo che, invece, riproponendo la visione del mercato come entità naturale da non “disturbare” con le politiche delle istituzioni collettive, ha fatalmente generato la “Grande stagnazione”.
Negli ultimi dodici anni, la difficoltà delle politiche fondate su quella visione di superare la crisi ha stimolato solo l’avanzata dei populismi che pure avvertono e denunciano alcune conseguenze del neoliberismo, ma non si emancipano dai suoi meccanismi socio-economici strutturali e, per di più, spingono verso equilibri molto più instabili e pericolosi fondati sul ritorno ai nazionalismi e alle politiche economiche protezionistiche.
Nell’Unione Europea, lo shock economico-sociale della pandemia potrebbe, come “effetto collaterale”, approfondire e allo stesso tempo evidenziare la discordanza tra le politiche seguite nel processo unitario e i loro risultati controproducenti. Il coronavirus, mostrando che “il re è nudo” (l’evidenza dei fallimenti del neoliberismo e della sua influenza negativa sulla costruzione europea, le idiosincrasie nazionali e gli interessi sottostanti che la ostacolano), potrebbe aiutare a superare la situazione di ristagno strutturale (ma di “stagnazione secolare” si discuteva già negli anni ’30) che caratterizza particolarmente il nostro continente e, in misura ancora più accentuata, paesi come il nostro.
Nel valutare le conseguenze della pandemia sulle vicende economiche e sulle teorie che cercano di spiegarle si può notare che, almeno per il momento, la disponibilità di scorte consente di attenuare la contraddizione tra le opposte esigenze di arrestare il contagio e di mantenere attivo il processo produttivo almeno per soddisfare le esigenze primarie più immediate. Ma se l’emergenza virale non termina in breve tempo, sarà sempre più difficile che anche solo la filiera produttiva alimentare e quella dei beni sanitari possano assicurare (e anzi incrementare, come serve) la loro attività se gli altri settori da cui pure esse dipendono per l’acquisizione degli input produttivi vengono rallentati per attenuare la diffusione del contagio. La salvaguardia delle condizioni sanitarie in tutti i luoghi di lavoro diventa dunque il fronte principale per contrastare direttamente e indirettamente la pandemia.
Almeno in questa fase di emergenza, il problema economico che sta maturando (la cui pericolosità dipende dalla sua durata) si pone più dal lato dell’offerta che da quello della domanda. Diversamente dal 2007-2008, le politiche monetarie e finanziarie possono fare poco. Per la verità, già da tempo hanno esaurito le loro possibilità e adesso ci troviamo di fronte a un grande problema aggiuntivo di natura “reale” che richiede il coordinamento e l’intervento diretto delle istituzioni pubbliche. Le configurazioni quantitative e qualitative (settoriali) sia della domanda sia dell’offerta e l’adattamento dei processi produttivi, sono scelte che il mercato e gli interessi individuali non sono in grado di attuare senza una significativa interazione delle istituzioni pubbliche e della loro cooperazione a livelli anche sovranazionali.
La globalizzazione non governata iniziata negli anni ’80, l’asimmetria tra lo sviluppo sovranazionale della sfera d’azione dei mercati e il contenimento del ruolo delle istituzioni indebolito anche nei confini nazionali, la scomposizione e frammentazione territoriale dei processi produttivi, la conseguente possibilità della loro delocalizzazione internazionale funzionale alla riduzione dei costi salariali, l’indebolimento contrattuale e politico-sociale dei lavoratori messi in concorrenza su scala mondiale, il calo della loro partecipazione alla distribuzione del reddito e ai consumi ulteriormente accentuato dalle politiche di privatizzazione dei servizi di welfare, lo specifico sviluppo delle prestazioni pensionistiche e sanitarie nominalmente complementari ma sostanzialmente sostitutive di quelle pubbliche con effetti peggiorativi sulle diseguaglianze, le politiche di consolidamento fiscale e di contenimento del ruolo pubblico, sono tra i principali aspetti della trasformazione del sistema capitalistico che ha generato la “Grande stagnazione”.
Ma ciò che la pur grave crisi scoppiata dodici anni fa non è ancora riuscita a far capire all’opinione pubblica e a imporre alle classi dirigenti lo sta mostrando drammaticamente e rapidamente la pandemia. La quale indica che l’offerta di un bene o servizio anche d’importanza strategica, se dipende da input intermedi provenienti da altri paesi, può arrestarsi completamente per la mancata fornitura anche di uno solo di essi dovuta a emergenze sanitarie e/o blocchi protezionistici.
L’emergenza da coronavirus ci sta facendo capire inequivocabilmente che il contenimento della sanità pubblica negli ultimi anni pregiudica non solo la salute, ma l’intero sistema economico-sociale. Il blocco di ampie parti del sistema produttivo per ridurre la diffusione del contagio mostra quanto siano indispensabili gli ammortizzatori sociali che possono essere offerti solo dal welfare pubblico. La visione dominante seguita nella costruzione europea fondata sull’austerità dei bilanci pubblici – nazionali e comunitari – si mostra ancora più incongrua per sostenere la crescita, l’occupazione e lo sviluppo economico-sociale.
L’imbarazzante inadeguatezza tecnica e lo sciocco servilismo alle politiche del rigore manifestate nella recente conferenza stampa della Presidente della BCE mettono in risalto la necessità nell’Unione Europea di un ricambio di visione politica e di classe dirigente. La pandemia in atto e le difficoltà di fronteggiarla con interventi scoordinati aiuta a capire anche i più gravi e generali squilibri economico-sociali che potranno crescere (il processo è già avviato) se dalla globalizzazione non governata si passerà ad una fase di deglobalizzazione altrettanto priva della cooperazione anche sovranazionale tra le istituzioni che finirebbe per lasciare spazio, ancora una volta, ai limiti dei mercati lasciati a se stessi, ma peggiorati dai protezionismi nazionalistici.