Il 15 febbraio del 2003, durante la più grande manifestazione che si ricordi, Veltroni ci promise che Roma avrebbe avuto una Casa della pace. Quella promessa è ancora da mantenere, non tanto nel senso fisico della parola, ma per fare della città stessa una Casa di pace.
Il dibattito preelettorale è fatto prevalentemente di posizionamenti, non c’è confronto sul progetto, ma anche quando c’è non riesce a guardare all’oltre in cui siamo immersi. Ma davvero Roma, che è stata per secoli caput mundi, capitale prima del mondo conosciuto e poi della cristianità, non sa guardare più oltre il raccordo anulare? Davvero Roma, già città aperta, si è così rinchiusa in se stessa da non ambire più a essere metropoli mondiale? Davvero il popolo romano non sa più riconoscersi se non in un coacervo di interessi, spesso contradditori, in una sommatoria di particolarismi, tutti contro tutti, senza ambizioni?
La crisi, con il suo portato di povertà abissali e grandi ricchezze ha fiaccato la città, ma è stata soprattutto la mancanza di politica a incattivirla. Una politica che da troppo tempo è una rincorsa a gruppi di interesse o, peggio, a cordate affaristiche, prima ancora che mafiose. E se farsi gli affari propri è la cifra della politica, ciò ha permeato anche la società e la sinistra cittadina, frammentata da particolarismi senza un progetto. Per ricostruire Roma serve una visione che abbia anche una proiezione globale.
Roma è una grande città europea, ma è anche stata per secoli capitale mediterranea, al centro del bacino in cui si è svolta per millenni tutta la sua vita politica, culturale ed economica. Eppure non ce lo ricordiamo più. Viviamo in un’epoca in cui la guerra è tornata fatto quotidiano, una guerra che ci circonda da ogni lato e che ci coinvolge non solo perché vi partecipiamo, o per moto di solidarietà con le vittime dirette, ma perché siamo un luogo in cui cercano rifugio coloro che la fuggono. Eppure fingiamo che non esista. Rinchiusi in noi stessi nell’illusione di poterne restare fuori.
Ma sappiamo che non è così. E che non possiamo sfuggire alle responsabilità che ha una grande metropoli internazionale nel mondo globalizzato. Roma deve assumersi questa responsabilità, quella di essere un attore mondiale per la pace, e può farlo anche perché è sede di una delle grandi religioni mondiali, ma soprattutto perché è il luogo ove opera la più grande concentrazione italiana di uomini e donne che alla cooperazione, alla solidarietà, alla accoglienza hanno dedicato la propria vita, per lavoro o per volontariato. Un know how e un’energia immensa che l’amministrazione della città non ha mai voluto valorizzare.
Significativamente, lo scorso anno, il Forum mondiale dei premi Nobel per la pace si è tenuto a Barcellona, e non più a Roma. Da anni i fondi comunali, provinciali e regionali per l’aiuto allo sviluppo sono azzerati, il Forum provinciale per la pace è stato prima avvilito e poi dissolto, il Comitato cittadino per la cooperazione decentrata non è riuscito nemmeno a farsi ricevere dagli ultimi sindaci. Ma non si tratta solo di fondi. Una grande capitale fa politica di pace anche senza mezzi, nel costruire relazioni con le altre grandi città, nel promuovere una cultura di pace tra i propri cittadini, nella lotta al razzismo, nel proporsi come sede di negoziati, nel favorire la cooperazione dei propri cittadini stranieri verso la madrepatria,nel dare rifugio a chi lo cerca, nello stesso ricostruire se stessa come città dell’uguaglianza. Già solo nel pensarsi città globale con un progetto globale.
Quindi l’oltre non è solo il lacerato tessuto urbano dopo il raccordo, o le solitudini e i rancori che l’attraversano, ma il mondo stesso in cui siamo immersi. Il 15 febbraio del 2003, mentre si cominciavano a concentrare i tre milioni di persone che dettero vita alla più grande manifestazione per la pace di sempre, incontrammo, c’era Luigi Ciotti, Alex Zanotelli, Riccardo Troisi e tanti altri, il sindaco di Roma Veltroni. Promise che Roma avrebbe avuto una Casa della pace. Quella promessa, sono passati tre sindaci, è ancora da mantenere. E’ ora di farlo, non tanto nel senso fisico della parola, ma per fare di Roma stessa una Casa di pace.
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