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Se la Cina ha vinto

Se l’obiettivo di un titolo apodittico come “La Cina ha vinto” è convincere il lettore della validità della propria tesi, Alessandro Aresu vi riesce pienamente. L’autore invita il lettore a osservare lo scontro di questo inizio di XXI secolo attraverso gli occhi di Wang Huning: il teorico del Partito, professore e attuale membro del Comitato […]

Se l’obiettivo di un titolo apodittico come La Cina ha vinto (Feltrinelli Editore, Milano, 2025, €15) è convincere il lettore della validità della propria tesi, Aresu vi riesce pienamente. Centonove pagine che, pur dense e concettualmente stratificate, si leggono in una sola giornata di pioggia, lasciando anche il lettore più scettico con la persistente impressione che, in effetti, la Cina possa davvero aver vinto. Una volta svanito l’impatto iniziale, sorgono tuttavia le domande: cosa ha vinto, e in che modo? Contro chi, invece, è chiaro fin dall’inizio: gli Stati Uniti.

Il libro si colloca in un dialogo aperto con due decenni di letteratura oscillante tra catastrofismo e trionfalismo. Se The Coming Collapse of China di Gordon Chang (2001) inaugurava il genere ormai screditato della Cina prossima al collasso, Has China Won? (2020) di Kishore Mahbubani ne offriva il riflesso speculare in chiave interrogativa. Aresu, al contrario, trasforma il dubbio in un’affermazione tanto provocatoria quanto rivelatrice. Eppure, la vittoria che descrive non è né economica né militare: prima di tutto, è intellettuale.

L’autore invita il lettore a osservare lo scontro di questo inizio di XXI secolo attraverso gli occhi di Wang Huning: il teorico del Partito, professore e attuale membro del Comitato permanente del Politburo che, da Jiang Zemin a Xi Jinping, accompagna da oltre tre decenni la leadership comunista. Wang è al tempo stesso oggetto e soggetto della narrazione: studiato, citato e utilizzato come dispositivo narrativo. Ispirandosi al suo libro più celebre, America against America, e al diario politico del suo periodo americano, Aresu adotta la voce del professore di Shanghai per fondere teoria politica e introspezione. Le riflessioni di Wang sul declino della vitalità spirituale americana diventano la lente attraverso cui il volume interpreta il riallineamento geopolitico del XXI secolo. In effetti, la lucidità dell’analisi di Wang e la sua straordinaria capacità di anticipare la traiettoria degli Stati Uniti hanno reso questo Tocqueville contemporaneo famoso ben oltre i ristretti circoli della sinologia e degli osservatori del Partito-Stato. Come scrive evocativamente Aresu, “L’assalto a Capitol Hill, il 6 gennaio 2021, ha fatto entrare America contro America nella leggenda”.

Uno dei principali meriti di Aresu non è soltanto quello di ricostruire la genealogia ideologica della Cina contemporanea, ma anche di far rivivere ciò che resta vitale della sinologia occidentale. Il libro rende omaggio a studiosi come Étienne Balazs, Joseph Needham e Jonathan Spence: nomi che rappresentano un’epoca scomparsa, in cui lo studio della Cina era ancora intellettualmente ambizioso, storicamente fondato e politicamente consapevole. Oggi, al contrario, la comprensione occidentale dell’Asia appare frammentata, confinata in un’accademia distaccata che, anche quando penetrante, resta ignorata dal potere politico.

La narrazione si dispiega come una sorta di Silmarillion dell’universo tecnologico e imprenditoriale dell’Asia contemporanea: una galleria di ingegneri-capitalisti e imprenditori-tech. Per i lettori occidentali, ammette Aresu, “questi elenchi di nomi somigliano a quelli dei personaggi di un romanzo russo”. L’osservazione, tanto ironica quanto vera, introduce gradualmente il tema della conoscenza asimmetrica tra Asia e Occidente.

I capitoli centrali ritraggono le figure principali di questa ascesa intellettuale e tecnologica. Tra i “politici”, particolare attenzione è dedicata a Wan Gang, “il cinese innamorato della Germania”. Umile ingegnere i cui studi furono interrotti dalla Rivoluzione Culturale, Wan Gang si impone come il vero demiurgo della strategia automobilistica di Pechino. Dai capannoni dell’Audi nel sud della Germania al ruolo di ministro della Scienza e della Tecnologia, Wan Gang incarna il successo della Cina nella produzione di veicoli elettrici. Accanto a lui si dispiega il ricco panorama della nuova aristocrazia tecno-imprenditoriale cinese: Wang Chuanfu, fondatore di BYD, la cui partnership con il fondo di investimento di Charlie Munger ha simboleggiato la convergenza del capitale americano verso la frontiera industriale cinese; e Lei Jun, il “Steve Jobs cinese”, visionario fondatore di Xiaomi, che ha trasformato l’elettronica di consumo in un terreno di orgoglio nazionale e competizione tecnologica. Insieme, queste figure incarnano un’epoca in cui innovazione orientata al profitto e controllo pervasivo del Partito coesistono, come dimostra l’umiliazione di Jack Ma dopo il ritiro dell’IPO di Ant Financial, appena un giorno prima del suo debutto sul mercato. L’episodio è una parabola del potere ultimo del Partito comunista. Se c’è qualcosa in cui Mao può trovare consolazione, è che la politica è rimasta al comando.

È proprio in questa coesistenza tra innovazione e controllo che Aresu colloca l’essenza della resilienza cinese: un sistema politico capace di imparare dai propri errori. “Noi abbiamo inserito in questo sistema la rivoluzione permanente. E poi, conosciuta la contraddizione sulla nostra pelle, siamo tornati a casa: nella burocrazia celeste”, dice il Wang narratore. L’osservazione, a metà tra il filosofico e l’ironico, allude alla capacità del Partito di reinterpretare i propri fallimenti, come la sottovalutazione del primo mandato di Trump; un errore che il Partito non può permettersi di ripetere nel suo ritorno. Il contrasto tra l’adattabilità cinese e la compiacenza occidentale attraversa tutto il libro, culminando nello sguardo malinconico ma analitico del professore di Shanghai. La voce di Wang ritorna, echeggiando le riflessioni iniziali attraverso una serie di domande che articolano il nucleo dell’argomento di Aresu: “Perché gli stranieri sono così approssimativi? Perché nessuno di loro si sente incompleto quando non si sforza di tradurre, comparare, capire l’altro?”. Tali domande, poste da Wang ma chiaramente condivise dall’autore, rivelano un’asimmetria cognitiva che definisce il presente: l’Asia ha studiato a lungo l’Occidente, mentre l’Occidente ha smesso di studiare l’Asia.

Su questa base si innesta una delle metafore più memorabili del libro, offerta da Ted Chang, vicepresidente della taiwanese Penta Computer:

La posizione di Taiwan per l’intelligenza artificiale è simile a quella di Cremona per la musica nel XVIII secolo. Cremona era il centro della costruzione degli strumenti. I migliori violini di Stradivari, Guarneri e Amati provenivano tutti da Cremona. Tuttavia, Cremona non era il centro della musica, che ha bisogno di compositori, interpreti e pubblico per rendere possibile una bella esecuzione.

Oltre alla profondità analitica relativa al ruolo di Taiwan nell’economia-mondo, la metafora esprime potentemente la superiorità conoscitiva asiatica rispetto a quella statunitense. 

Questa nazione potente, così ignorante da non saper collocare Taiwan sulla mappa, sarà in grado di impedire alla Cina di realizzare la sua riunificazione?”. Figuriamoci Cremona.

Allo stesso tempo, La Cina ha vinto dedica grande attenzione alle fonti interne della forza cinese, in particolare ai meccanismi attraverso cui il Partito ha rilanciato la meritocrazia dopo la Rivoluzione Culturale. Il ripristino del Gaokao, l’esame nazionale di ammissione all’università, segnò una svolta simbolica nel 1977: la rinascita di un sistema fondato sull’impegno, la disciplina e la conoscenza come strumenti di mobilità sociale. Fu al tempo stesso un ritorno all’ordine confuciano e un adattamento della razionalità socialista, destinato a produrre una nuova generazione di tecnocrati.

Esami interni ed esterni, come quelli che Wang osserva malinconicamente sostenere da innumerevoli giovani sino-americani nelle aule di Berkeley, Yale e Princeton. Un serbatoio di intelligenza che la Cina non può più permettersi di perdere, ma piuttosto deve cercare di reimportare e attrarre ogni volta che sia possibile. 

Il libro esplora poi la dimensione esterna di questo progetto intellettuale: la rinascita del “Fronte Unito” sotto Xi Jinping (nota 1), il rinnovato accento posto sulla diaspora come risorsa per il ringiovanimento nazionale. Dal 2012 in poi, il Partito-Stato ha intensificato i legami con gli studiosi cinesi all’estero, trasformando la mobilità scientifica in uno strumento di soft power. La diaspora è diventata non solo un ponte culturale, ma un asset geopolitico. Aresu accosta questo sforzo alla storica capacità degli Stati Uniti di assorbire i talenti globali, un ideale celebrato ancora oggi in film come Oppenheimer di Christopher Nolan, che tuttavia omette la figura di Chien-Shiung Wu, la fisica cinese che contribuì al Progetto Manhattan (nota 2). 

Da qui, Aresu torna alla questione più ampia dell’egemonia tecnologica, concentrandosi su “il tweet più importante del XXI secolo” (immagini in fondo). Il 27 gennaio 2025, Zizheng Pan, allora un perfetto sconosciuto, pubblicò un’immagine che mostrava DeepSeek come l’app più scaricata davanti a ChatGPT sull’App Store di Apple. Se l’autore era oscuro, le conseguenze non lo sono. Il rilascio di questo sistema di Intelligenza Artificiale su larga scala, sviluppato con una frazione dei finanziamenti di ChatGPT e in forma open source, ha scosso la Silicon Valley e Wall Street.

Eppure, al di là delle turbolenze finanziarie di breve periodo, ciò che conta davvero è ciò che Aresu mette in luce citando il commento a quel post di Zhiding Yu, scienziato senior di Nvidia. Yu si congratula con Pan e riflette sulla sua scelta di carriera: un ex tirocinante che, dopo aver trascorso l’estate del 2023 nel leggendario gruppo di ricerca di Nvidia guidato da Bill Dally, rifiutò un’offerta a tempo pieno e decise invece di tornare in Cina per unirsi alla start-up DeepSeek. La storia di Pan è straordinaria non solo per i risultati tecnologici del suo gruppo di ricerca, ma soprattutto per il valore simbolico della sua decisione: gli Stati Uniti non sono più l’unico luogo in cui si può condurre ricerca d’avanguardia. Lo stesso Yu e il venture capitalist Marc Andreessen definirono immediatamente il rilascio di DeepSeek come il nuovo “momento Sputnik” dell’America. Tuttavia, gli Stati Uniti sembrano incapaci di adottare le contromisure adeguate, come commenta la voce narrante di Wang:

Eppure, quando puntiamo le nostre videocamere nei luoghi dove sorgono le miniere e le fabbriche degli avversari, i grandi progetti che dovrebbero ridurre la dipendenza dalla Cina, non vediamo nulla. Dopo un po’ ci annoiamo e dobbiamo cambiare canale.”

O ancora:

La cosa più interessante (…) è che, secondo le nostre fonti, anche l’avversario ha queste stesse informazioni, e molto di ciò su cui abbiamo riflettuto qui è nero su bianco nei rapporti pubblici. Ma non riesce a invertire la rotta. Ne parla, tiene audizioni al Congresso, poi però non succede quasi nulla. Si tratta di un popolo privo di spirito pratico.”

In tutto il testo, La Cina ha vinto oscilla tra ammirazione e avvertimento. Aresu non idealizza la Cina, elencandone le vulnerabilità: l’invecchiamento demografico, la dipendenza da cibo ed energia importati, il debito locale, un modello di crescita eccessivamente trainato dalle esportazioni e una domanda interna fragile. Eppure, insiste sul fatto che la forza del Partito risieda nella sua capacità di riconoscere le contraddizioni e trasformarle in strategia. La “vittoria” del libro non si misura in termini di PIL o di potenza militare, ma nella capacità di fondere capitale intellettuale, industriale e culturale in una visione strategica coerente, qualcosa che l’Occidente frammentato e autoreferenziale sembra aver dimenticato come fare. La Cina ha vinto parla al fascino occidentale per l’efficienza cinese, rivelando al tempo stesso i limiti della nostra conoscenza. La sua lettura è preziosa non solo per chi studia l’ascesa della Cina, ma per chiunque voglia comprendere come tecnologia e potere si stiano ridefinendo su scala globale. Il saggio di Aresu non chiude il dibattito, ma ne definisce con chiarezza i termini. La domanda finale posta dalla voce di Wang suggerisce ciò che alla Cina manca ancora per vincere davvero: il Partito saprà imparare a essere “too simple, sometimes naive”? (nota 3) Un’ambizione culturale senza la quale, secondo Aresu, “l’ascesa economica del socialismo con caratteristiche cinesi rischia di essere incompleta.”

Note: 

  1. Nella storia del Partito Comunista Cinese, il Fronte Unito (tǒngyī zhànxiàn) rappresenta la strategia politica volta a creare alleanze tra gruppi sociali diversi per rafforzare la posizione del Partito e consolidare il potere statale. Nel 2018, una riforma istituzionale ha trasferito l’Ufficio per gli Affari dei Cinesi d’Oltremare (Qiáobàn) dal Consiglio di Stato al Dipartimento per il Lavoro del Fronte Unito del Comitato Centrale del PCC. Da allora, tutte le attività di coordinamento politico, culturale e ideologico legate alla diaspora sono state quindi trasferite ulteriormente dalla sfera della statale a quella del Partito. Per chi volesse approfondire si veda “Le politiche verso la diaspora cinese”, Brigadoi Cologna, 2025.
  1. A tal proposito si può sentire la puntata del podcast “Altri Orienti” episodio 46 “Si, no, un grande no” di Simone Pieranni.
  1. L’espressione “too simple, sometimes naive” divenne celebre nel 2000. Durante una conferenza stampa alla Great Hall of the People di Pechino, una giornalista di Hong Kong, Sharon Cheung, chiese al Presidente Jiang Zemin se, in virtù del neonato principio “un Paese, due sistemi”, ci si dovesse aspettare “una nomina imperiale” per le scelta del Chief Executive della città. Visibilmente irritato Jiang rispose: “Don’t be too simple, sometimes naive”. La frase “too simple, sometimes naive” divenne “un meme ante litteram”, e a venticinque anni di distanza viene ancora ricordata.

“Il tweet più importante del XXI secolo” di Zhizheng Pan (DeepSeek) e il repost con commento di Zhiding Yu (Nvidia):