La battaglia per il “diritto” di portarsi da casa il cibo che si vuole in alcune scuole del Nord apre uno squarcio inquietante sulla diffusa tendenza a una privatizzazione familistica del sistema educativo
Mangiare quel che c’è, attorno alla stessa tavola, è un’esperienza che rafforza l’appartenenza comunitaria, i sentimenti di amicizia e solidarietà. Compagno, si sa, è etimologicamente chi condivide il pane con altri. Vale anche per i “compagni di scuola”, assieme in aula e dunque anche in mensa? Si direbbe di sì visto che tra le finalità educative della scuola pubblica c’è che, almeno lì, si sia e ci si senta uguali tra poveri e ricchi, italiani e stranieri, chi in famiglia riceve ogni cura e chi no. Ma senza le rigidità di un tempo. Negli anni le mense scolastiche comunali si sono adattate alla composizione sempre più variata della popolazione scolastica e a una molteplicità di esigenze individuali e delle famiglie. Menù equilibrati tra tradizioni locali e moderne indicazioni dietetiche, e anche tra ciò che fa bene e ciò che piace di più. E diversificazioni che tengono conto di prescrizioni religiose , di patologie – allergie-intolleranze, delle richieste di alimenti biologici e a Kilometro zero. Va tutto bene, anche se le tante, forse troppe?, ansie qualitative e quantitative dei genitori oscurano qualche volta ciò che dovrebbe contare di più. L’importanza educativa del sedersi a mangiare tutti insieme, di imparare a rispettare certe regole, e magari anche a provare un po’ di tutto, per non ritrovarsi da adulti ancora incapaci di apprezzare un sugo diverso da quello della mamma o della nonna. Si diventa grandi anche così.
Non che tutto vada sempre liscio, in un mondo- bambino fatto per lo più di figli unici spesso vezzeggiati fuori tempo massimo con attenzioni alimentari tutte speciali. E con genitori sempre più propensi a considerare la scuola una sorta di protesi della famiglia, come se un luogo educativo non dovesse avere finalità, regole e modalità dello stare e del crescere insieme inevitabilmente diverse. Ma il modello di funzionamento delle nostre mense scolastiche, dove ci sono, non è affatto male. E libera – si direbbe – le mamme da almeno uno dei tanti obblighi difficilmente “conciliabili”. Anche se non è l’unico modello possibile. Se nella maggior parte dei paesi europei il tempo pieno non è affatto, come succede da noi, una sorta di optional, ma l’ordinario modo di funzionamento delle scuole del primo ciclo, non è invece sempre scontato il servizio di mensa. Nel Canton Ticino, per esempio, si considera del tutto normale che all’ora di pranzo le scuole interrompano l’attività, e che i ragazzini vadano e tornino da casa o utilizzino servizi outdoor prossimi alla scuola organizzati dai genitori. Stravincono i sandwich, invece, portati da casa o comprati a scuola per pasti molto informali, in paesi nordici in cui tradizionalmente a tavola, e per cibi cucinati, ci si siede solo a colazione e a cena. In Francia, invece, tempo pieno generalizzato e mense dovunque, e con un profilo educativo spiccatamente educativo. Non solo nel significato italiano di “educazione alimentare”. Fin dalle ultime classi della primaria, parte dei servizi è svolta infatti a turno da squadrette di bambini che servono in tavola, sparecchiano, riordinano i locali. Perché le responsabilità di ciò che è pubblico, quindi di tutti, e le abilità pratiche è meglio impararle da subito, e “tra pari”, senza gli esagerati timori che in Italia impediscono agli studenti ( perfino da grandi nella scuola superiore ) di fare da soli – tranne, si capisce, le peggio cose. Quanto a noi, il nostro difetto maggiore è in verità che le mense, come il tempo pieno, in molte aree del paese non ci sono proprio, ed è anzi proprio l’inerzia di Enti Locali restii ad organizzarle ad essere spesso utilizzato come alibi per evitare alle scuole e agli insegnanti la responsabilità di chiederlo e gestirlo. L’ 85% delle classi di primaria a Milano sono a tempo pieno, ma a Palermo non si arriva al 10% , qualcuno nella politica, nel sindacato, nelle associazioni professionali ancora se ne occupa? E come si fa a tenere aperte le scuole tutto il giorno, come dicono la Buona Scuola e i parecchi milioni stanziati allo scopo, senza le mense? O senza adottare in modo condiviso con le famiglie un modello analogo a quello ticinese ?
Ma non è di questo che oggi si discute. Oggi a Torino, Milano, Asti, Genova, Savona, e in altre città dove c’é il grande vantaggio educativo del tempo pieno, infuria invece la “guerra del panino”, cioè il “diritto”di portarsi da casa il cibo che si vuole e di consumarlo con gli altri nelle mense comuni. La nostra normativa, del resto, fa della refezione scolastica un “servizio a domanda individuale”, cioè un servizio che i Comuni devono garantire quando c’è il tempo pieno ma non un obbligo assoluto per le famiglie. Un regime – analogo a quello vigente per i nidi comunali – che tra l’altro vorrebbe che i Comuni coprissero gran parte dei costi con gli introiti delle tariffe. La guerra, cominciata due anni fa da 58 famiglie torinesi, contro un costo-mensa considerato eccessivo, o comunque squilibrato rispetto alla qualità dei cibi, alla fine è stata vinta. Nonostante un’opposizione del MIUR che è riuscita solo nel capolavoro di far estendere gli effetti di una sentenza a tutti i potenziali interessati. Ma Comuni e scuole non ci stanno, almeno sul consumo del pasto insieme ai compagni che utilizzano il servizio collettivo. Di qui le storie grottesche di questi giorni di bambini relegati a mangiare in solitudine in classe o in altri locali – chi piange, chi non mangia, chi si sente male : si potrebbe avere il buon senso di ascoltare il loro buon senso? – e di scuole che devono moltiplicare in più luoghi la doverosa assistenza degli insegnanti.
Chi ha ragione, in questo teatrino affollato di troppi attori, e quali sono le ragioni e i pretesti che sbriciolano quello che conta di più? In quanto patria del diritto, scriveva Ennio Flaiano, l’Italia finisce con l’essere anche patria del rovescio. Parole sante. Una verità è che, in punta di algido diritto, e anche in termini di concrete difficoltà organizzative, le scuole che impediscono il contatto tra mense e “schiscette” qualche ragione ce l’hanno. Perché delle caratteristiche del cibo portato da casa – igiene e carica tossicologica – non si occupano né le ASL né le aziende che forniscono il servizio mensa, e le scuole (e i Comuni) non intendono assumersi responsabilità di eventuali contaminazioni tossiche che potrebbero determinarsi nei probabilissimi scambi tra schiscette domestiche e regolamentari monoporzioni sigillate. Come assicurare, del resto, che bambini attratti dall’appetitoso trancio di pizza del vicino mangino disciplinatamente senza ottenere “assaggi” il loro pur salutare minestrone di farro, e che il fortunato che si porta a scuola “il tonno autenticamente siciliano con il pomodoro bio dell’orto di casa” – di cui si vanta sul Corriere un’orgogliosissima mamma milanese – sia così generoso da condividerlo con altri? Nelle scuole italiane, grazie ai rigorosissimi regolamenti imposte dalle norme, è ormai diventato difficile persino offrire a tutti i bambini la torta fatta in casa in occasione di un compleanno. E poi come fare, quando farà caldo, a conservare al fresco il tonno in questione, o a riscaldare quando fa freddo l’eventuale lasagna? Problemi minuti ma veri. Non è un caso che a Torino i genitori che intendono invece utilizzare la mensa stiano facendo circolare una ponderosa petizione in cui chiedono di essere tutelati dai pericoli di scambi alimentari contaminanti, e anche, già che ci sono, da quello di dover pagare per tutti i costi di pulizia e sanificazione dei locali a cui i disertori evidentemente si sottraggono.
Davvero non si può fare altro che così ? Il tormentone , in questi tempi di esplosione di sempre nuovi egoismi/diritti individuali, si annuncia contagioso e pesante. Tant’ è che Regione Lombardia annuncia l’istituzione di una cabina di regia composta da tutti gli attori – Comuni, ASL, dietisti, associazioni e commissioni mensa di genitori, dirigenti scolastici e quant’altro, per venire a capo della faccenda. Con l’ANCI nazionale anch’esso in mobilitazione di analisi e di proposte. Ne usciranno, c’è da scommetterci, una caterva di ulteriori minuziose regolamentazioni.
Vedremo. Ma in una vicenda così, ci sono non pochi elementi, e molto seri, su cui riflettere. Prima di tutto, il progressivo aumento delle tariffe dei servizi da parte dei Comuni, dovuto a difficoltà finanziarie e anche alla diffusa incapacità di far pagare i morosi ( nel caso delle mense scolastiche, a non pagare c’è sempre almeno un buon 10% degli utenti ). La mensa sarà anche un servizio a domanda individuale ma, proprio come per gli asili nido ( dove quest’anno ci sono state circa 20mila domande in meno ), non è accettabile che servizi essenziali finiscano col costare così tanto da incoraggiare la diserzione delle famiglie. Con l’aggravante che, logorate come sono in molte realtà le utili negoziazioni tra istituzioni e rappresentanti degli utenti, si finisce sempre più spesso coll’incoraggiare di fatto il ricorso individuale e di gruppo alla magistratura. Che avrebbe, si direbbe, altro da fare. E che per molti motivi non è in grado, come in questo caso, di approdare a sentenze sensate e risolutive. Ma c’è anche dell’altro, forse più preoccupante. Si tratta della strisciante e diffusa tendenza a una privatizzazione familistica del sistema educativo, soprattutto nel primo ciclo ma non solo. Figlia di un individualismo che guarda solo al vero o presunto benessere del proprio figlio e non a ciò che può essere bene di tutti e per tutti , e di un’idea piccina e rovinosa della scuola come di un’espansione di ciò che per educazione si intende o si pratica nei singoli nuclei familiari. Mode e pregiudizi compresi. Fino alle levate di scudi, e alle denunce di insegnanti e di presidi, per un cattivo voto, per una regola che impedisce l’uso del cellulare in classe, perfino per una richiesta di rifondere i danni dei frequenti vandalismi studenteschi. Fino, purtroppo, alle ingombranti pressioni per non avere nella classe del proprio figlio un disabile in più o alle fughe dalle scuole con “troppi” stranieri. Non sono tutti così, i giovani genitori di oggi, ma non c’è da meravigliarsi di quanto avviene sul versante della scuola quando, su quello della sanità, si moltiplicano le evasioni dagli obblighi di vaccinazione, con tutti i rischi che ne derivano per la salute di tutti. Non è un buon momento per ciò che è pubblico, e neppure per ciò che è più importante.