Il rilancio della scuola deve passare dalla sua trasformazione. Il neoministro Patrizio Bianchi, economista emiliano, porta in dote la sua esperienza e l’impostazione verso una comunità educante che vuole accorciare le diseguaglianze. Sperando che riesca a fare una operazione di grande portata.
Patrizio Bianchi, ministro dell’Istruzione del governo Draghi, è un economista. Non di quelli che per dimostrare perché c’è bisogno di una spesa maggiore in educazione ti dicono quanto vale in punti di PIL il 10 per cento in più di laureati. Le dichiarazioni di questi giorni e ciò che scrive nel saggio Lo specchio della scuola (Il Mulino 2020) esprimono la sana idea che non tutto quello che conta si può contare. Se l’istruzione è “il pilastro dello sviluppo”, non è solo perché nel lavoro che c’è e che ci sarà il sapere avrà un peso sempre maggiore, né solo perché oggi tante aziende tecnologicamente avanzate non trovano i giusti profili professionali. Uno sviluppo che faccia crescere il benessere sociale e accorci le diseguaglianze postula una conoscenza “diffusa e partecipata”. Solo una scuola diversa da quella che abbiamo può assicurare la base per una crescita che coinvolga l’intero Paese. Il “rilancio” non si può fare con i troppi ragazzi che il sistema di istruzione perde per strada, con tanta parte di popolazione giovane e adulta con formazione non solo tecnologica ma culturale e civile troppo debole per esserne parte attiva. E’ il triangolo d’oro tra educazione, democrazia, sviluppo che anni di politiche scolastiche avare e miopi (ce ne sono state in verità anche di non avare, ma non per questo meno miopi) hanno messo nell’angolo. Un buon punto di partenza.
Il professor Bianchi è anche un accademico – ordinario di Economia applicata, titolare della cattedra Unesco in Educazione, crescita, eguaglianza nell’Università di Ferrara di cui è stato rettore, con studi e ricerche anche internazionali – ma tutt’altro che distante dalla passione politica e dal pragmatismo che occorrono per metter mano a risolvere i problemi concreti. Lo ha fatto, con vulcanico e versatile impegno, nei dieci anni di assessore a Scuola, università, ricerca, formazione e lavoro in Emilia-Romagna. Una regione molto più facile di altre, storicamente attenta ai temi dell’educazione (fin dai famosi asili nido di Reggio Emilia ) ed esperta tessitrice di buone relazioni tra contesto economico- produttivo e mondi dell’istruzione e della formazione. Ma anche sfidata, nel terremoto del 2012, da un’emergenza che mise a serissimo rischio edifici scolastici e continuità educativa, e con essi la sopravvivenza e l’identità stessa delle comunità colpite. E’ dall’esperienza della ricostruzione e dei mille fili che legano – che dovrebbero sempre legare – le scuole alle comunità, che viene la convinzione che la scuola non si rigenera da sé o solo in forza di nuove norme, ma con la risorsa fondamentale dei coinvolgimenti e delle alleanze. Non solo le famiglie ma gli attori sociali, economici, associativi, culturali del territorio. Un approccio prezioso quando si entri da ministro in quel tempio di centralismo statalista esposto ai mille spifferi del corporativismo che è viale Trastevere. La scuola non è dello Stato, ma della Repubblica, non è del suo personale ma dei cittadini, e la qualità dell’offerta e delle pratiche educative passa anche dalla consapevolezza che alle comunità non c’è solo da chiedere ma anche da restituire: in spazi e tempi di socialità, in servizi e opportunità di crescita culturale, in rapporti e collaborazioni tra il fuori e il dentro. La scuola, dunque, anche come civic center con tutto quello che ne deriva per un’edilizia scolastica di nuova concezione, soprattutto nelle aree interne, nelle periferie urbane, dove c’è più solitudine e povertà. Un approccio non scontato, nonostante l’autonomia scolastica. Perché se ci sono istituti dove l’autonomia si traduce in generosa e intelligente capacità di apertura e di scambi, ce ne sono altri che invece la interpretano come competizione e concorrenza. E’ allarmante, anche nel primo ciclo, l’aggravarsi dei processi di “polarizzazione”, cioè di scuole connotate, anche all’interno di stessi ambiti territoriali, da popolazioni diverse per condizioni economico-sociali, provenienze, carriere scolastiche. Di qua l’addensarsi di uno svantaggio che prefigura ulteriori insuccessi, di là la ricerca, variamente assecondata da dirigenti e insegnanti, di ambienti educativi il più possibile indenni dai “casi difficili”. E’ la “fuga bianca” rilevata nella città di Milano dal noto studio del Politecnico: sono le famiglie del ceto medio che scappano dagli istituti dove sono di più gli studenti con background migratorio, i figli delle famiglie più povere e marginali, i ragazzi con difficoltà anche personali. Sebbene la segregazione formativa – è tutta la letteratura scientifica a dirlo – non aiuti l’efficacia didattica né nelle scuole considerate“migliori” né in quelle considerate “peggiori”. Le due proposte del neoministro, quella dei “Patti educativi territoriali“, e quella di una “riapertura dei cantieri dell’autonomia”, possono, se intrecciate e generatrici di nuovi indirizzi, aprire la strada a una scuola più coerente col suo profilo universalistico e inclusivo.
Una partita comunque non facile considerato il mix di forze conservative e corporative che ha finora contrastato, a viale Trastevere ma anche nei luoghi della politica e del sindacato, lo sviluppo di un’autonomia scolastica dotata, come previsto dalle norme istitutive, della strumentazione organizzativa e professionale e delle flessibilità operative necessarie ad attuarla. Uno sgradevole assaggio di queste contrarietà Patrizio Bianchi lo ha già avuto l’estate scorsa quando, avendo coordinato per incarico della ministra Azzolina il Comitato di studio per la ripartenza delle scuole dopo il lockdown, si è visto archiviare senza alcun riconoscimento pubblico del lavoro fatto il Rapporto finale, che conteneva un insieme di sensate proposte in sintonia con le idee di collaborazione solidale tra scuole e comunità, di flessibilizzazione e articolazione dei tempi e degli spazi delle attività, di combinazione tra più tipologie di apprendimento, poi riorganizzate e argomentate come strategie non solo di emergenza nel suo ultimo libro. Una censura, come altro definirla? Resa ancora più squallida dal riemergere sul sito del ministero del testo secretato, ma sette mesi più tardi e solo quando è capitato che il coordinatore silenziato diventasse ministro. Dentro e fuori le stanze di viale Trastevere il ministro Bianchi avrà bisogno di capaci e leali collaboratori, essendo il conformismo degli allineamenti per convenienza spesso più temibile delle contrarietà esplicitate.
Il punto di programma politicamente più rilevante del ministro Bianchi, anche perché assunto direttamente dal presidente del Consiglio Draghi, riguarda però un tema che implica non solo nuovi indirizzi o investimenti, ma un ampio e deciso intervento riformatore. Si tratta della costruzione di una filiera formativa dedicata all’istruzione e formazione tecnico-professionale capace di ridurre drasticamente gli abbandoni precoci e di moltiplicare il numero di qualificati, diplomati, specializzati (fino al livello terziario) nei vari campi del sapere tecnologico attraverso una formazione incardinata sull’apprendimento in contesti operativi. In Europa si chiama VET-Vocational Education and Training, e i paesi che l’hanno sviluppata presentano, per riduzione degli abbandoni e per efficiente inserimento dei giovani nel lavoro, una situazione molto migliore della nostra. La necessità di introdurla anche in Italia, e di collegarla allo sviluppo di un apprendistato formativo finalizzato al conseguimento di titoli formali, dalle qualifiche alle lauree (che, pur previsto per legge, da noi è rimasto sempre sulla carta anche per contrarietà delle imprese), non è affatto un inedito. I primi passi concreti, con l’istituzione degli Istituti Tecnici Superiori di livello terziario non accademico (sul cui sviluppo la bozza di dicembre del PNRR investe 1,5 miliardi), portano la firma del secondo governo Prodi. Ma ai primi passi non sono mai seguiti coerenti sviluppi, per resistenze provenienti da più parti, comprese le università, che da parte loro hanno diffusamente vanificato il valore professionalizzante che dovevano avere le lauree triennali. Il risultato è un sistema sbilanciato su un comparto liceale bulimico e in continua crescita, mentre l’istruzione tecnica resta al palo (30% della scolarità) e quella professionale, dimezzatasi negli ultimi dieci anni, continua a perdere iscritti (13%). Il tutto aggravato da enormi divari territoriali (con tutto il Mezzogiorno connotato da tassi altissimi di istruzione liceale) e da un accesso all’università ridottissimo dei diplomati degli istituti professionali (2,3% ), e assai modesto anche dei diplomati dei istituti tecnici (20% ). L’ascensore sociale non può funzionare in un comparto che attrae in ingresso soprattutto i ragazzi considerati a torto o a ragione più deboli, e i ragazzi che per necessità o propensione scelgono un indirizzo professionalizzante non sono affatto motivati da una didattica che si svolge in aula ben più che in laboratorio e, se ci sono, in laboratori ben diversi dai reali contesti operativi. Quanto ai percorsi triennali di istruzione e formazione professionale a titolarità regionale (anch’essi regolamentati ai tempi del secondo governo Prodi), si tratta di un’offerta qualificata e aperta ad ulteriori sviluppi formativi solo in otto Regioni, tutte del Centro-Nord, dunque non dove la dispersione fa più danni e dove la disoccupazione giovanile è più alta. In questa situazione il proposito di riorganizzare le diverse offerte formative in una nuova filiera VET è assolutamente indispensabile, ma anche molto complicato. Se non altro perché richiede, oltre a significativi investimenti, una piena condivisione di tutte le Regioni, a partire da quelle finora irresponsabilmente inadempienti, mentre il comparto statale dell’istruzione professionale teme di venire definitivamente liquidato o trasferito alle competenze regionali, processi già in corso nelle Province Autonome. Ci sono poi le contrarietà di tipo ideologico che vengono da quanti conservano l’idea secondo cui l’istruzione non dovrebbe, per essere davvero egualitaria, guardare al lavoro e alle competenze professionali prima del conseguimento di un diploma. O da chi sostiene che dall’incertezza sul futuro di mestieri e professioni non ci si può difendere se non con un’istruzione generalista, un argomento che alimenta la corsa alla licealizzazione. Un contesto, dunque, piuttosto impervio. Ma non impraticabile perché contrarietà e aperture al modello VET attraversano trasversalmente quasi tutte le aree politiche e l’insieme degli attori istituzionali e sociali in campo, dal mondo delle imprese e delle parti sociali a quello degli enti formativi. Sbloccare una così duratura situazione di stallo di una riforma essenziale, sarebbe comunque un’operazione di grande portata. C’è da augurarsi che il buon senso emiliano del ministro Bianchi riesca a metterla al più presto possibile sui binari giusti. Ma è indispensabile saper parlare ai ragazzi, e alle loro famiglie: sono loro i protagonisti.