In Italia 22 milioni di persone sono intrappolate in liste d’attesa infinite dopo decenni di regionalismo sanitario. E l’autonomia differenziata del disegno di legge Calderoli peggiorerebbe la situazione. Non sarebbero i LEA o i LEP né il regionalismo fiscale a garantire l’universalismo dei servizi ovunque.
Nel Servizio Sanitario Nazionale, 22 milioni di persone, cioè una su tre in tutto il Paese, sono intrappolate in liste d’attesa senza fine. Questo dato, più che una rivelazione, è un’ovvia verità. Le storie di chi aspetta mesi, e persino anni, per un controllo sono note a molti, sia per esperienza personale che per procura. C’è chi non può permettersi di aspettare e preferisce rivolgersi al privato, pagando di tasca propria. Altri, circa quattro milioni di persone, non solo non possono attendere, ma non hanno neanche la possibilità economica di considerare alternative. Questo dato è ancor più inquietante se si pensa che sono proprio coloro che vivono in condizioni di povertà ad avere più bisogno di una sanità accessibile.
Il problema delle liste d’attesa c’è da almeno vent’anni ed è una questione legata alle regioni, ha fatto sapere Orazio Schillaci. Sebbene sia lodevole che il ministro della Salute abbia individuato le mancanze del sistema sanitario nei confronti dei suoi utenti, preoccupa il fatto che il governo di cui fa parte continui imperterrito sulla strada dell’autonomia differenziata, che apporterà nuove ma simili problematiche.
L’autonomia differenziata trae spunto dall’esperienza italiana del regionalismo sanitario, un pilastro tutt’altro che solido. Per avere un assaggio di ciò che ci attende, basta guardare alla progressiva erosione e allo smantellamento del SSN dopo decenni di regionalismo – tra l’altro, causa principale delle lunghe liste d’attesa.
Sia il regionalismo sanitario che l’autonomia differenziata fanno parte di una serie di riforme di decentralizzazione, un insieme variegato di politiche volte al trasferimento di poteri amministrativi, politici e/o economici dai governi centrali alle autorità regionali. La decentralizzazione è un processo in sé complesso: può essere portato avanti in molti modi e ottenere effetti molto diversi fra loro. Per questo il vero dilemma – seppur trascurato – non è se decentralizzare o meno, ma quali funzioni decentralizzare e come.
Per l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) un sistema sanitario universalistico ed equo dovrebbe avere un’organizzazione decentralizzata dell’assistenza e un finanziamento centralizzato ed equo. Questo perché deve non solo soddisfare le specifiche esigenze delle comunità locali, ma anche distribuire equamente il rischio finanziario tra la popolazione, evitando che ciascun individuo affronti da solo l’onere delle spese sanitarie in caso di necessità.
In questa prospettiva, la decentralizzazione è un elemento cruciale per qualsiasi riforma volta a rafforzare i sistemi di assistenza e a renderli più reattivi ai bisogni sanitari e di salute delle comunità locali. Fu proprio su tali presupposti che si fondò il Servizio Sanitario Nazionale alla sua nascita, nel 1978.
Tuttavia, sia il regionalismo sanitario che l’autonomia differenziata si basano sull’approccio opposto: l’organizzazione centralizzata di quanto e cosa erogare – tramite Livelli Essenziali di Assistenza (LEA, esclusivamente per la sanità) e Livelli Essenziali di Prestazioni (LEP, per gli altri settori) – e l’autonomia fiscale, ottenuta tramite l’aziendalizzazione degli enti pubblici e la regionalizzazione delle finanze.
L’enfasi sull’autonomia fiscale è più che mai fondamentale per comprendere i rischi dell’autonomia differenziata. Il termine tecnico è “fiscal decentralization” – decentralizzazione fiscale – e si riferisce alla presa in carico delle regioni della responsabilità di reperire, distribuire e utilizzare le risorse fiscali per un certo servizio pubblico. Questa pratica – sempre più diffusa a livello internazionale – costituisce una minaccia per i servizi di assistenza e per le fasce di popolazione che dovrebbero beneficiarne.
Guardando ancora una volta alla sanità, la decentralizzazione fiscale è arrivata nel SSN con la riforma del Titolo V, attraverso l’introduzione dei LEA e dei meccanismi locali necessari al loro finanziamento: due tasse regionali specifiche per la sanità (IRAP e addizionale IRPEF), ticket imposti a livello regionale, e ricavi delle strutture sanitarie aziendalizzate e dell’attività intramoenia (pratica perversa che incentiva il personale sanitario pubblico ad esercitare attività privata nelle strutture pubbliche, una concausa delle liste d’attesa senza fine).
In questo assetto, il sistema sanitario è finanziato regionalmente: le entrate vengono raccolte e utilizzate solo all’interno della stessa regione, non più distribuite su tutto il paese. Ciò comporta che le risorse necessarie per l’assistenza dipendono dalla capacità fiscale specifica di ogni territorio, non più dalle effettive esigenze sanitarie e di salute della popolazione. Quello che viene a mancare è un vero e proprio meccanismo di solidarietà, uno strumento per mitigare, ridurre e prevenire gli effetti della povertà e delle disuguaglianze sulla salute delle persone.
Sebbene lo Stato contribuisca al finanziamento dei LEA con un fondo integrativo, questo è ben lontano dall’essere un valido meccanismo per l’abbattimento delle disuguaglianze: non solo perché si basa su criteri che non tengono adeguatamente conto dei bisogni territoriali, ma anche perché le risorse provengono principalmente dall’IVA, una tassa notoriamente ingiusta e regressiva.
Senza meccanismo veramente solidale (per definizione, centralizzato), le risorse pubbliche per i LEA (ovvero le entrate regionali e le integrazioni dello stato) sono inversamente proporzionali e insufficienti a soddisfare i bisogni di salute differenziali della popolazione. Dati alla mano, nel 2021 il finanziamento per il Mezzogiorno è risultato inferiore del 7% rispetto alla media del Centro-Nord (elaborazione su dati del CIPESS, Delibera 70/2021), mentre il tasso di famiglie in povertà e di persone in cattiva salute è aumentato, specie nel Centro-Sud.
Ecco che se il gettito regionale non basta a garantire i servizi per la popolazione, il sistema si sovraccarica e le liste di attesa si allungano. Studi recenti suggeriscono che l’autonomia fiscale ha accentuato le disuguaglianze tra regioni ricche e povere, per esempio riducendo significativamente il personale e i posti letto pubblici e permettendo al settore privato di colmare queste lacune. La diminuzione dei servizi pubblici ha spinto molti pazienti verso strutture private. Le zone economicamente svantaggiate sono le più colpite da questi tagli, mentre le regioni più ricche hanno comunque investito soldi pubblici nel settore privato a scapito di quello pubblico.
In un contesto così frammentato, le regioni sono spinte a competere per attirare investimenti pubblici e privati, sovvenzioni governative e forza lavoro al fine di aumentare la loro capacità fiscale e acquietare gli animi dei loro bacini elettorali. Le regioni più ricche hanno un vantaggio evidente rispetto alle loro controparti e non fanno mistero di voler mantenere questa posizione di potere. Lo dicono apertamente le amministrazioni di Veneto, Emilia Romagna e Lombardia negli accordi preliminari per l’autonomia differenziata.
Non sorprende, quindi, che gli esperti del settore considerino la decentralizzazione (o autonomia) fiscale come una misura regressiva, atta a proteggere gli interessi del mercato. Per il governo centrale, l’autonomia è lo stratagemma perfetto per ridurre il flusso di denaro pubblico verso settori non redditizi, promuovere l’espansione del settore privato a macchia di leopardo e introdurre meccanismi di controllo della spesa, esternalizzando alle regioni la colpa di aver eroso il sistema di welfare, privatizzato i servizi pubblici e attuato politiche di austerità neoliberiste.
Per i rappresentanti di una certa fascia di popolazione però, ottenere l’autonomia significa riappropriarsi delle proprie ricchezze e liberarsi da qualsiasi vincolo regolatorio nella raccolta e redistribuzione delle risorse. Come afferma Calderoli nell’introduzione al suo Disegno di Legge (DDL) per l’autonomia differenziata, si vuole evitare “che il rallentamento di talune realtà colpisca quelle che potrebbero avere un ruolo da traino”. Considerato che solo il 23% delle entrate del paese proviene dalle regioni del Mezzogiorno (elaborazione su dati del Ministero per la coesione territoriale, 2021), questo vuol dire legittimare finanziamenti da fame al Centro-Sud in nome dell’accumulazione del profitto al Centro-Nord.
Date le evidenti criticità del modello sanitario, non sorprende che le modalità di finanziamento per l’autonomia differenziata siano la parte più cruciale ma anche la più vaga e oscura del testo del DDL a firma Calderoli. Ciò che è chiaro è che i LEP, proprio come i LEA, non saranno definiti in base alle necessità delle comunità locali, ma secondo criteri di bilancio. Saranno finanziati mediante la regionalizzazione di altre imposte dirette o con un meccanismo simile a quello di distribuzione dell’IVA, già in uso per la sanità.
In questo scenario, cosa sarà del SSN e dei nuovi servizi da regionalizzare? Il primo, già spolpato dal regionalismo, si troverà a competere con gli altri settori per un pugno di IVA in più. Gli altri, non importa se indeboliti da anni di austerità, rischiano di rimanere circoscritti nel recinto dei loro LEP, senza possibilità di espandersi o di adattarsi se non nei contesti più ricchi e sotto l’influenza (in)visibile del mercato.
*Docente e ricercatrice in politiche dei sistemi sanitari al Dipartimento di Sustainable Health dell’università di Groningen