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Salute, farmaci, vaccini

La partita globale su farmaci e vaccini contro il Covid è incerta e piena di incognite, legata ai rapporti di forza tra mercato e sfera pubblica. L’agenda di un “dopo” per la sanità deve essere parte di un processo di ritorno ai diritti e di lotta alle disuguaglianze.

1.

Dal 18 al 20 maggio scorso, in piena emergenza Covid-19, si è svolta l’Assemblea Generale 2020 della Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS). Che la pandemia dovesse essere al centro dell’attenzione era ovvio. Ma il confronto dell’assemblea si è polarizzato, anche mediaticamente, su tre temi, di cui, ferma la “serietà”, è difficile riconoscere la pertinenza per una discussione sulle priorità di salute delle popolazioni del mondo.

Ciò che è andato in scena, infatti, è stato: a) il conflitto, reale e di immagine, tra USA e Cina su origini e responsabilità della pandemia e la costituzione di una Commissione internazionale di inchiesta al riguardo; b) la configurazione del vaccino come oggetto di ricerca e di produzione industriale, sottoposto ai vincoli relativi alla “patentabilità” e ai costi di mercato, o come “eccezione” (non meglio definita) alle regole del mercato, eventualmente con interventi di individui/gruppi di filantropi per facilitarne l’accesso; c) il grado di autonomia della stessa OMS, non tanto nelle sue politiche di salute pubblica quanto in rapporto alla Cina, che si è offerta come finanziatore principale in risposta al congelamento del finanziamento annunciato dagli USA.

Sullo sfondo, molto attivi e presenti, vari movimenti e gruppi della società civile, con azioni di lobbying a favore di un esplicito riconoscimento come beni sanitari essenziali di farmaci e vaccini per Covid-19. Macroscopica l’assenza di discussioni-progetti che, a partire dalle carenze e dai bisogni generali emersi con la pandemia (in quanto modello di “crisi di sistema”) guardassero a un’agenda per l’oggi, il domani e… il dopo.

Ecco tre esempi di domande rimaste senza risposte: a) perché manca la capacità e/o la volontà di una assunzione di responsabilità da parte di una comunità scientifica che si pronunci collegialmente, con ruolo e modalità indipendenti e con informazioni comprensibili e compatibili con l’inviolabilità dei diritti?; b) come fare, monitorare, sostenere “raccomandazioni” tragicamente inapplicabili alla maggioranza dei paesi/popoli più “periferici”, e perciò offensive dei diritti dei più deboli (che, per il Covid-19, prevedono case abitabili, igiene, cibo… e, per il Covid e tante altre cronicità, un accesso a farmaci, presidi, strategie di cura intensive economicamente sostenibili)?; c) a quando è rinviata una congrua preparazione o preparedness (mantra di epidemiologi travestiti da protezione civile e viceversa) per le pandemie per assenza di cibo, acqua, igiene, casa, perfettamente note e quantificate, tracciabili senza bisogno di App e, invece, tenute nascoste (stile Bolsonaro e non solo)?

Nessuna sorpresa dunque (o molta, per chi si immaginava almeno uno sguardo al “dopo Covid-19”) di fronte a un rapporto finale pieno di buone intenzioni ma che registra la permanenza di troppe domande senza risposta. La prima conclusione sembra essere che il “dopo” Covid-19” è tutto da costruire e con tempi indefiniti.

2.

Spostiamo, ora, l’attenzione a livello locale, per fare, in prima battuta, il punto su ciò che si sa e che si ha: al fine di verificare se una chiarificazione al riguardo può fornire basi di partenza, o almeno d’appoggio a livello conoscitivo e operativo, e se ci sono spazi e modi, in attesa di strategie sovranazionali, per decisioni utili a livello di singoli Stati.

Alcuni spunti:

  1. le conoscenze scientifiche di base sul virus sono enormemente aumentate dall’inizio della pandemia. Si è tuttavia ancora a previsioni molto frammentarie su quando sarà possibile trasferirle a livello clinico ed epidemiologico. Basta pensare alla perdurante ignoranza (prima e al di là dei problemi di disponibilità e di accessibilità a tamponi e ad altri esami) sull’evoluzione immunitaria dell’infezione, in termini di intensità, durata, protezione;
  2. quando le conoscenze di base sono in rapida crescita, la credibilità e normatività della scienza devono essere “discutibili” pubblicamente (e non ci riferiamo certo a talk-show o simili). Soprattutto quando si toccano prodotti, interessi e attori di mercato (farmaci, vaccini, fondi globali…), la competizione dei tanti stakeholder (pubblici e/ privati: la loro distinzione è sempre più illusoria) deve essere seguita con un occhio alle novità scientifiche e l’altro ‒ molto più vigile ‒ all’andamento delle borse in rapporto alle news diffuse senza interruzione: con provenienze polarizzate (al di là di tante collaborazioni) attorno a pochi raggruppamenti finanziari, joint venture con potere decisionale sbilanciato a favore di fondi privati;
  3. non si ha a tutt’oggi nessun trattamento (preventivo, sintomatico, curativo) su cui ci siano certezze di efficacia-sicurezza. La credibilità dell’una o dell’altra proposta (valga per tutte quella dell’idrossiclorochina) è affidata ai media, ai social, ai politici (con Trump come caso esemplare e grottesco, ma con tanti altri imitatori) più che a dati prodotti con ricerche affidabili per metodologia e indipendenza;
  4. il farmaco approvato con urgenza dalla Food and Drug Administration (FDA) americana, un antivirale riciclato per un settore promettente da un punto di vista del mercato (Remdesivir), ha a suo sostegno un solo studio “controllato” (per di più lungi dall’essere perfetto). Ma c’era bisogno di dare alle persone colpite dal virus e al mercato la convinzione che qualcosa si muoveva. Promesso, mentre se ne attendeva l’approvazione, come farmaco da rendere disponibile, per motivi di salute pubblica, a costi irrilevanti, esso è divenuto ora oggetto dei classici giochi di mercato, sia in USA sia nei Paesi che ne hanno seguito l’esempio. Tutti sono certi che non ci sono grandi novità: ma nel frattempo ci si può guadagnare;
  5. le previsioni sul/sui vaccini (a livello scientifico, di inquadramento normativo e di sostenibilità economica) hanno come quadro di riferimento i già ricordati scenari competitivi, complottistici ed economici. Il/i vaccini arriveranno. Quando, da chi, per chi, con che profili di uso e a che costi sono interrogativi considerati più importanti e determinanti degli aspetti scientifico-sanitari. Anche se molti vorrebbero un salto nel passato, al tempo della scoperta del vaccino per la polio, tutti gli indicatori dicono che i tempi (non tanto dello sviluppo, ma) della disponibilità del vaccino sono una variabile dipendente da ragioni di mercato (che paga anche la ricerca) e da politiche di sviluppo industriale assai più che di salute pubblica. In questa corsa l’Europa è, come in tutto, incerta. Chiederle coraggio e capacità di iniziativa è parte obbligata degli auspici e delle raccomandazioni, ma è difficile vedere barlumi in questa direzione;
  6. e l’Italia? È parte dello scenario. Con singoli ricercatori molto qualificati. Con capacità di produzione ma non di sviluppo. Senza una politica industriale, né privata né pubblica. Con attività di ricerca, al di fuori del vaccino, molto frammentate. L’esempio della terapia con plasma iperimmune da pazienti guariti è esemplare. Il metodo è antico e, in linea di principio, riconosciuto come valido; è stato presentato come originalità italiana, con dati suggestivi ma frammentati e difficili da generalizzare e tradotto con ritardo in protocolli di ricerca e/o assicurazioni di efficacia. Ora, sul “dopo”, c’è un potenziale di sviluppo industriale, con la produzione di immunoglobuline “mirate”… Ma chi fa che cosa? Quando? Ora o alla prossima “ondata”? E quali sono i diritti della comunità ad essere informata, senza dipenderne, sulla incertezza e sulla speranza?

3.

Che fare, dunque?

Il campo dei farmaci, all’incrocio tra profili di diritto e di mercato della salute-sanità, è un indicatore obbligato di quello che si potrebbe (o meno) fare in tempi di incertezze conoscitive e di chiari segni che business as usual è il vero orizzonte del “dopo Covid-19” in campo sanitario. Con una domanda più di fondo e che sorge immediata: è possibile ritornare a pensare alla salute come indicatore-battistrada di un processo di democrazia in cui i diritti di vita delle persone prevalgono su quelli delle merci? Il Servizio Sanitario Nazionale del mitico 1978 (che estendeva a tutte/i, declinandolo in positivo, il messaggio della legge 180 secondo cui «la istituzione che dice di curare è la malattia») può essere rilanciato dopo tempi lunghissimi in cui la sanità è stata confinata a capitolo, molto ghiotto, dell’economia, privo di identità e di autonomia?

Nel campo dei farmaci-vaccini le risposte sono, in linea di principio, possibili: si riconoscano come diritti universali, intanto che si applicano in modo “creativo” misure di eccezione che valgono globalmente. La “clausola di Doha” (dal nome della città in cui è stata adottata nel 2000) e altri strumenti, come la licenza obbligatoria da parte di Stati singoli o in associazione, permettono di fare eccezione, per «ragioni di salute pubblica», ai vincoli di proprietà intellettuale e di fissazione dei prezzi (peraltro con una domanda di fondo: chi ha il potere, politico ed economico prima ancora che giuridico, di risolvere e rendere esecutive le tante ambivalenze interpretative delle eccezioni previste?).

La Cina lo ha detto: il mio vaccino sarà di tutti e libero, dichiarando così che le regole della Organizzazione Mondiale del Commercio (OMC) non possono essere superiori a quelle della Dichiarazione Universale dei Diritti dell’uomo e delle Costituzioni. In attesa di questo “regalo promesso”, è possibile accettare che una domanda riguardante (non una merce ma) un modo di interpretare la democrazia rappresenti una “eccezione” al mercato? Il 1978 sanitario era il prodotto di una lunga stagione di lotte che avevano riguardato tutti i diritti: e la salute era stato l’ultimo ad arrivare al traguardo (e allora la sanità pesava infinitamente meno in termini di competitività e di mercato, ma anche di politica e sostenibilità economica).

È possibile immaginare una conversione del mercato dei farmaci non come “eccezione” una tantum in un periodo di guerra, ma come un passaggio “esemplare” di un cambio di paradigma che riguarda globalmente tutti i beni comuni di cui sono fatti non solo la sanità ma anche l’educazione, l’informatica, l’agricoltura, il lavoro etc.?

Una prima risposta certa c’è: in sede di sanità-salute, i farmaci non rappresentano un contributo determinante (e autonomo) della quantità e qualità della vita. Lo si sa da sempre. Il farmaco è un indicatore inclusivo (o escludente) in un percorso che riguarda la capacità della società di farsi carico di marginalità e bisogni. I malati sono un’espressione di questo universo, con la loro vita infinitamente diversificata e complessa. Le malattie sono un pezzo, importante, della marginalità e dei bisogni.

Guardare il dito del farmaco, e delle tecnologie che promettono vita, più che la luna delle disuguaglianze nel diritto alla vita è fuorviante. Come sono state, e sono, ridicolmente (e drammaticamente) fuorvianti le vicende delle mascherine, dei tamponi, delle App, delle misure, degli anticorpi: tante dita che nascondono l’incapacità (o la non volontà) di credere sul serio all’importanza della luna.

L’agenda di un “dopo” per la sanità è necessaria, ma non può essere separata. Essa è parte integrante di un processo di ritorno ai diritti concreti soprattutto dei meno uguali. Il loro rischio di contagio è sempre, e più a fondo, superiore a 1. E non lo si supera chiudendo in casa in modo indiscriminato e non assistito. Questo è il problema da affrontare. Nell’attesa, tanto fiduciosa quanto disincantata, che la ricerca-guerra per il vaccino e/o i farmaci produca quel pezzo di risposta che può contribuire ad arginare – non a risolvere – il rischio di una delle pandemie con cui conviviamo.

 * L’articolo è frutto della collaborazione tra Sbilanciamoci! e Volere la Luna (sul cui sito è stato pubblicato il 27 maggio 2020).