Gli economisti discutono se l’allungamento dell’età pensionabile riduca le nuove assunzioni. Ma il punto è se si sceglie come obiettivo la piena occupazione o si accetta un’organizzazione sociale che sconta che ci siano disoccupati
“E’ una società stolta e miope quella che costringe gli anziani a lavorare troppo a lungo e obbliga una intera generazione di giovani a non lavorare quando dovrebbero farlo per loro e per tutti”. Le parole del Papa hanno rilanciato un dibattito che impegna da tempo economisti, politici e sindacalisti. Gli anziani tolgono il lavoro ai giovani? Le due posizioni contrapposte, di chi ne è convinto e di chi lo nega, hanno ancora i loro militanti, specie tra gli economisti con indefettibili convinzioni ideologiche (come il direttore dell’Istituto Bruno Leoni, Alberto Mingardi), ma oggi sembrano tendere a un compromesso, come mostra nella sua ottima rassegna sull’argomento Nicola Salerno (economista che lavora all’Ufficio parlamentare di bilancio).
La posizione a cui il Papa ha dato voce non ha bisogno di spiegazioni. Ma cosa replicano i sostenitori dell’altra tesi? Affermano che il numero dei posti di lavoro non è limitato, e citano a loro sostegno ricerche fatte su lunghissimi periodi (35 anni quella citata da Salerno) che dimostrerebbero l’insussistenza dello “spiazzamento”. In più – aggiungono – mandare in pensione prima i padri significa addossare ai figli la spesa per il loro mantenimento, “perché è la popolazione attiva che paga per chi attivo non lo è più” (Mingardi).
La posizione intermedia emersa di recente si basa su due ricerche fatte dopo l’ultimo innalzamento dell’età pensionabile, quello della “riforma Fornero”. Entrambe concludono che lo spiazzamento c’è stato eccome: “un rinvio di cinque anni-lavoratore (ad esempio un lavoratore bloccato per cinque anni o due lavoratori bloccati per due anni e mezzo, etc.) implicano un giovane assunto in meno”. E dunque, anche se nel lunghissimo periodo non sembrano emergere effetti negativi, nel breve e in determinate condizioni dell’andamento dell’economia questi effetti si possono produrre, e in Italia è accaduto proprio questo. D’altronde, chi avesse seguito le rilevazioni dell’Istat negli ultimi anni ha ben potuto vedere che l’occupazione, quando aumenta, aumenta soprattutto nella classe di età oltre i 55 anni, mentre i dati sulla disoccupazione giovanile continuano ad essere catastrofici. (C’entrano naturalmente anche i fattori demografici, come mostra uno studio di Leonello Tronti e Andrea Spizzichino: ma questo può essere considerato un aspetto specifico del problema generale).
Tutte queste ricerche, però, hanno in comune un presupposto metodologico. Esaminano uno o più paesi, scelgono le variabili da osservare o da neutralizzare, applicano complesse formule matematiche e poi traggono le conclusioni. Del tutto fuori dal campo di ricerca resta la logica che ha generato quelle situazioni. L’organizzazione della società viene assunta come data, gli studi riguardano il modo in cui si muovono le variabili nell’ambito delle varie situazioni esistenti. Ma che succede se si agisce su una variabile dell’organizzazione sociale?
Obiezione scontata: gli economisti studiano quello che c’è, non quello che potrebbe esserci. Eggià. E’ proprio questo il vero problema. Perché una cosa è analizzare una situazione esistente con il proposito di farla funzionare nel miglior modo possibile; cosa del tutto diversa è individuare un obiettivo ed elaborare una strategia adatta a realizzarlo. Ci spostiamo nel campo della filosofia e della politica? No, nessuno “spostamento”: o si assumono esplicitamente degli obiettivi relativi all’organizzazione sociale, oppure si stanno semplicemente accettando quelli impliciti.
Facciamo un esempio. I due studi sugli effetti della Legge Fornero hanno indagato che cosa cambiava con quella decisione, mantenendo implicitamente ferme tutte le altre variabili di regolamentazione del lavoro e di gestione dell’economia. Hanno correttamente concluso che, nella situazione data, ci sono state quelle conseguenze. Ma quella situazione non era l’unica possibile, perché si sarebbero potute fare scelte di politica economica diverse. Per esempio, se insieme alla legge Fornero fosse stata approvata una norma per limitare a casi eccezionali gli straordinari e una che riducesse l’orario di lavoro, probabilmente staremmo raccontando una storia diversa. Ma questo non avrebbe aumentato i costi per le imprese proprio in un periodo di crisi? Sì, ma questa è l’obiezione che si fa da oltre due secoli ogni volta che c’è da prendere una decisione del genere. Non abbiamo notizie in proposito, ma saremmo pronti a scommettere che sia stata fatta anche in Inghilterra nel 1819, quando fu varato il Cotton Mills and Factories Act, che vietava l’assunzione di bambini sotto i nove anni e limitava la durata della giornata lavorativa per i ragazzi dai nove ai sedici anni a “sole” dodici ore.
Da allora molta acqua è passata sotto i ponti, ma i lavoratori hanno sempre dovuto lottare per conquistare condizioni più favorevoli. “Se otto ore vi sembran poche provate voi a lavorar”, cantavano le mondine quando, nel 1906, il deputato socialista Modesto Conoglio presentò la sua proposta di legge. Le otto ore furono approvate, e l’economia non crollò, così come continuò a prosperare anche dopo altri miglioramenti delle condizioni del lavoro. Il XX secolo è stato quello che nella storia ha visto – nei paesi occidentali – le più grandi conquiste dei lavoratori e la più forte espansione dell’economia. Poi però i capitalisti hanno ripreso la lotta di classe (parola del miliardario americano Warren Buffett) e, con la globalizzazione, hanno messo in concorrenza i lavoratori dei paesi avanzati con centinaia di milioni di altri lavoratori che, quanto a diritti e protezioni, erano all’anno zero. Il seguito lo conosciamo.
E dunque, la domanda giovani-anziani è mal posta. In un certo tipo di organizzazione sociale e di politica economica, che non si ponga come obiettivo la piena occupazione e anzi consideri opportuno un dato livello di disoccupazione – ossia, la situazione in cui siamo ora – far lavorare più a lungo gli anziani riduce le occasioni dei giovani, perché la scelta è quella di lasciar fuori qualcuno, e dunque se si tira la coperta da una parte si lascia scoperta l’altra. Se invece l’obiettivo principale è la piena occupazione il problema giovani-anziani ovviamente non si pone. Naturalmente si potrà affermare che quell’obiettivo è irraggiungibile a meno di non danneggiare l’economia. Avranno sicuramente detto la stessa cosa quando si opponevano a limitare a sole dodici ore il lavoro dei bambini.
(pubblicato su Repubblica.it il 1 lug 2017)