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Ripensare la teoria economica ai tempi del Covid

L’epidemia di coronavirus ha assestato un altro duro colpo a quel “nuovo consenso” in macroeconomia già messo in discussione dalla crisi finanziaria del 2007/2008. E nel nostro paese nasce la Rete Italiana Post-Keynesiana.

“Devising new ways of getting back to full employment
is once again the top priority for economists.”
The Economist, luglio 2020

Qualche anno fa – era il 2015 – il Financial Times pubblicava un pezzo a firma di John Key sul complicato rapporto fra teoria economica ed evidenza empirica. Nel mezzo dell’articolo veniva disinvoltamente lasciato cadere un riferimento alla celebre controversia sul capitale delle “due Cambridge”, che fra gli anni Sessanta e Settanta del Novecento ha visto contrapporsi la scuola keynesiana dell’Università di Cambridge (nel Regno Unito) agli economisti “neoclassici” guidati da Robert Solow e Paul Samuelson di stanza al MIT, nella Cambridge statunitense (Massachusetts): “un dibattito”, secondo Key, “che Solow vinse facilmente grazie alla cura con cui specificò sia i suoi modelli teorici sia i rilevanti dati empirici”.

I termini di quella questione possono risultare ostici: il cuore della controversia – volendo sintetizzare un po’ brutalmente – rimanda alla possibilità che il “comportamento” di una funzione di produzione neoclassica, così come emerge in modelli a un solo bene, possa essere generalizzato in modelli a più beni. Arrovellarsi su un tecnicismo simile può sembrare a prima vista un esercizio un po’ futile, almeno agli occhi dei meno appassionati alla materia. Ma le sue implicazioni pratiche sono estremamente rilevanti. Senza la possibilità di quella generalizzazione saltano molti meccanismi che assicurano il buon funzionamento degli ingranaggi della teoria economica tradizionale. Primo fra tutti la tendenziale convergenza delle moderne economie di mercato a riassorbire la disoccupazione: la presenza di lavoratori disoccupati crea pressione al ribasso sui salari reali e – se tutto funziona come dovrebbe – tale pressione promuove l’utilizzo di tecniche produttive a più alta intensità di lavoro. Ecco che i lavoratori prima disoccupati trovano un impiego e il sistema ricomincia a girare con pieno utilizzo delle risorse.

Questo riassunto abborracciato e un po’ maldestro non renderà forse piena ragione degli argomenti dei protagonisti di quell’affascinante dibattitto. Ma il modo con cui Key lo ha fotografato appare – a circa mezzo secolo da quella vicenda – abbastanza sorprendente.

Chissà cosa ne avrebbe pensato, leggendolo, lo stesso Samuelson, il quale a suo tempo formulò un bilancio assai meno trionfalistico di quel confronto: “Se tutto ciò crea mal di testa ai nostalgici delle parabole contenute negli scritti neoclassici, dobbiamo ricordare a noi stessi che gli studiosi non sono nati per avere una vita semplice. Dobbiamo rispettare e farci una ragione dei fatti della vita”[1].

C’è tuttavia un motivo per il quale giudizi inaccurati come quello di Key possono circolare. Nel lungo termine, infatti, è stata la Cambridge americana, ovvero la sintesi neoclassica di cui Samuelson e Solow erano due fra più autorevole esponenti, a imporsi. Per altro, la lettura che di Keynes è stata proposta dai manuali di economia di tutto il mondo[2] è in ultima analisi una traduzione in termini warlasiani (cioè di equilibrio economico generale) di alcune intuizioni – a volte nemmeno le più feconde – presenti nell’opera originale.

In un libro intitolato Keynes e i Keynesiani di Cambridge (Laterza, 2010) Luigi Pasinetti, un membro della “componente italiana” di quella scuola, ha tentato di interrogarsi sulle ragioni di un bilancio storico così modesto sul piano della capacità di influenzare le generazioni successive di economisti. Perché una impresa intellettuale di quella portata, che si avvaleva del contributo di personalità eccezionali come quelle di Joan Robinson, Richard Kahn, Piero Sraffa, Nicholas Kaldor, ha inciso così poco nella teoria economica prevalente? Pasinetti ha provato ad avanzare più di una ipotesi o spiegazione. Alcune sono di carattere squisitamente teorico. Altre sovrappongono in qualche modo un piano teorico ad uno quasi ideologico-politico, come ad esempio il rimprovero di non aver attribuito “alcun peso o valore a ciò che avrebbe significato il mantenere viva un’alternativa veramente keynesiana (vale a dire non-marxista) alla prevalente corrente di pensiero economica ortodossa” (occorre ricordare che quello era ancora un mondo diviso in due blocchi, schiacciato dalla contrapposizione fra occidente capitalista e paesi comunisti).

Di tipo completamente diverso, e assai originali, sono invece le ragioni che Pasinetti riconduce ad una “componente di temperamento” di alcune di quelle illustri personalità: non solo certi atteggiamenti rischiavano di sembrare “arroganti” o “dottrinari” a chi non simpatizzava con le loro idee, ma contribuirono al fallimento “nel coinvolgere, in un processo di fruttuosa discussione, i molti talenti (non pregiudizialmente ostili)” che si affacciavano su quel mondo ed erano presenti nella stessa università di Cambridge.

È un peccato che le considerazioni di Pasinetti possano essere soppesate solo all’interno di dibattiti relegati ai margini della ricerca accademica “che conta”. Purtroppo, la stessa storia del pensiero economico come disciplina è stata fra le prime vittime del nuovo corso apertosi con la fine dell’egemonia keynesiana. La preparazione e lo spirito critico degli economisti avviati allo studio solo di ciò “che conta” non ne hanno certo tratto giovamento.

Eppure, sarebbe sbagliato discutere di questi temi con lo sguardo esclusivamente rivolto al passato. Già la Grande Recessione del 2007-2008 aveva messo in discussione alcuni dei pilastri teorici del “Nuovo Consenso” emerso in macroeconomia dalla fine degli anni Novanta. Per citare le parole di uno che ha fortemente contribuito a dare forma a quel consenso, Michael Woodford[3], la crisi finanziaria “ha imposto una significativa riconsiderazione della precedente convinzione comune (conventional wisdom) secondo la quale la politica dei tassi di interesse – o, più specificamente, la politica di aggiustamento dei tassi a breve termine condotta dalle banche centrali in risposta alle condizioni economiche congiunturali (…) – fosse sufficiente a mantenere la stabilità macroeconomica”. Detto in altri termini: la crisi ha fatto riscoprire alla teoria economia la politica fiscale.

La pandemia di Covid-19, che sta avendo sulle economie mondiali un impatto simile a quello di un evento bellico, è deflagrata su un terreno teorico già in movimento. Adesso sono gli stessi banchieri centrali a esortare i governi ad intervenire con decisione per limitare i devastanti danni economici del blocco della produzione. Milioni di persone in Europa come negli Stati Uniti vivono del sostegno diretto fornito loro da programmi pubblici il cui costo sarebbe stato giudicato “insostenibile” solo fino a pochi mesi fa. E mentre il debito degli Stati si impenna su livelli mai visti in decenni recenti, i tassi di interesse sui titoli governativi rimangono fermi o addirittura si riducono, grazie all’opera delle banche centrali. Nell’eurozona si sono affacciate politiche che sembravano tabù per l’ortodossia economica tedesca, dagli eurobonds al superamento del criterio del capital key per l’acquisto dei titoli dei paesi membri da parte della BCE. Senza contare le prospettive che si aprono con la fine dell’epoca buia di Donald Trump alla Casa Bianca, epoca buia per motivi che vanno assai oltre le sue – per altro poche e confuse – idee in materia di economia.

A molti dei dibattiti in corso la teoria economica cosiddetta “post-keynesiana” – che vanta una discendenza diretta dalle idee degli economisti della scuola keynesiana di Cambridge – può dare un contributo importante. Ed è per questo che rappresenta un bel segnale la nascita della Rete Italiana Post-Keynesiana (IPKN – Italian Post-Keynesian Network). Il suo primo workshop si terrà online il prossimo 27 novembre (tutte le informazioni si possono trovare qui e sulla pagina Facebook di IPKN). Il network raduna alcuni fra i più brillanti giovani economisti ed economiste italiani che in questi anni si sono cimentati su tematiche variamente collocabili nell’arcipelago teorico Post-Keynesiano: dalla modellistica Stock-Flow Consistent a quella ad agenti eterogenei; dall’approfondimento dell’approccio “classico-keynesiano” (nella tradizione di pensiero ascrivibile a Sraffa e Pierangelo Garegnani) fino alla Modern Monetary Theory, che tanto interesse sta suscitando negli Stati Uniti.

Un poemetto di un anomico funzionario inglese mostrava così le illusioni dell’establishment britannico alla vigilia della conferenza di Brettons Woods (1944): “In Washington Lord Halifax, / once whispered to Lord Keynes, / ‘It’s true that they have the money bags / But we have all the brains”. In quell’occasione Lord Keynes dovette fare ulteriore esperienza di come spesso le buone idee, da sole, non bastano.

Non saremo alla vigilia di una nuova Bretton Woods. Di nuovi Keynes in giro non se ne vedono. E certamente nessuno può vantare alcun monopolio di cervelli. Ma in tempi così incerti, tutti i tentativi di dare gambe, corpo e organizzazione alle buone idee sono importanti e meritano di essere incoraggiati e sostenuti.

Note

[1] La traduzione è mia, e anche in questo caso non sono sicuro di essere riuscito a rendere tutte le sottigliezze dell’elegante espressione inglese usata da Samuelson.

[2] Tranne lodevoli eccezioni – fra cui, ad esempio, l’università di Roma Tre in Italia – la Teoria Generale nella sua versione originale non è parte dei programmi degli insegnamenti universitari quasi da nessuna parte.

[3] Michael Woodford e Yinxi Xie, 2020. “Fiscal and Monetary Stabilization Policy at the Zero Lower Bound: Consequences of Limited Foresight”, Nber Working Paper Series, Working Paper 27521.