I governanti della costruzione europea hanno sbagliato molto, quasi tutto. Ma qui siamo, e senza Europa e senza euro non andiamo da nessuna parte. E da qui possiamo ripartire, guardando in faccia l’economia più che gli economisti
L’Unione europea, nelle intenzioni di quelli che per primi l’hanno sostenuta, dal Manifesto di Ventotene in poi, non è solo un espediente per armonizzare le politiche fiscali e ridurre le differenze di Pil pro capite, che non si sono ridotte. La Comunità europea del carbone e dell’acciaio non è stata una intrapresa economica. È stata il controllo congiunto degli Stati membri sulle basi materiali della guerra. L’Unione europea è la pace in Europa; e, in prospettiva, tra l’Europa e il mondo. Per la regione che, da vari secoli, da quando ha attraversato gli oceani, è stata all’origine, oltre che delle due guerre mondiali, della maggior parte delle guerre, intestine e di conquista, imperialistiche e commerciali; dei genocidi; delle generazioni perdute, questa è la cosa fondamentale. Settant’anni fa Giaime Pintor scriveva Sangue d’Europa. Anche se siamo vissuti, anche noi nati negli anni trenta, per la maggior parte della vita, nel più lungo periodo di pace della storia di questo continente, inclusa la belle èpoque, non dovremmo dimenticarlo. Proprio perché abbiamo un ragionevole timore che possa finire.
Quando hanno aperto le frontiere, ho passato qualche giorno ad attraversare quella franco-tedesca, forse la più insanguinata dopo le bloodlands, ai confini orientali, in macchina, da est a ovest e da ovest a est, senza meta, sui campi di battaglia dai nomi famosi, ripuliti dalle ossa per sistemarle nei grandi cimiteri sotto la luna, come scriveva Bernanos. Esattamente come sono andato avanti e indietro, a piedi, attraverso le prime brecce del muro, a Berlino; e come, qualche mese dopo, ho attraversato in macchina, in autostrada, senza rallentare, ridendo, la terra di nessuno che ha separato per poco meno di mezzo secolo le due Germanie.
Forse non ammazziamo e non ci facciamo ammazzare più molto perché ci hanno tolto i denti; forse ammazziamo ancora troppo mandando in giro soldati e aerei per missioni qualche volte assai dubbie; ma se i nazionalismi, anche estremi, che stanno risorgendo, prevalessero, torneremmo ad ammazzarci e ad ammazzare alla grande, come una volta, magari al servizio e con le armi di una potenza straniera, come è avvenuto, secolo dopo secolo, in passato.
Un continente ricco e pacifico, la maggiore concentrazione di ricchezza al mondo, ha bisogno di una moneta propria, sufficientemente forte e garantita da non metterci in balìa della prima grande finanziaria che voglia fare soldi alle nostre spalle, senza produrre nulla, senza neppure sfruttare direttamente il nostro lavoro. Non sta scritto né nella Natura né nella Bibbia che debba essere il mercato a contenere gli Stati, come avviene, come hanno scritto sociologi autorevoli e come ci ha ricordato Giulio Tremonti in La fiera delle tasse, pubblicato 20 anni fa, quando era ancora solo un professore e un commercialista molto importante. Una Unione politica, anche se imperfetta, di mezzo miliardo di cittadini, che è quello che siamo, se vuole, se riesce a esprimere un partito politico che lo voglia e vinca le elezioni, può regolare, contribuire a regolare, qualsiasi mercato. Non può riuscirci l’Italia; non ci riusciranno i nazionalismi e regionalismi aggressivi che stanno rinascendo.
Pensare all’uscita dall’euro di singoli paesi, come se si trattasse di ordinaria amministrazione, come se le inflazioni, gli azzeramenti di risparmi e di prospettive di vita, fossero solo un ridurre lacci e lacciuoli e rimetterci in corsa, una normale scelta di politica economica, vuol dire davvero aver dimenticato le camice brune, quelle nere, quelle azzurre, e anche quelle verdi, e che cosa succede quando molti perdono tutto e tutti si spaventano davvero. Non c’era l’euro in Germania negli anni trenta. I tedeschi che se lo ricordano rimpiangono il marco pensando a un supereuro, solo per loro, dimenticando che sono troppo piccoli per farcela. Ma noi, o la Grecia… Non scherziamo!
Cosa hanno sbagliato
Hanno sbagliato qualcosa i governanti, le figure di riferimento, i grandi e i piccoli d’Europa, nel cercare di costruirla e nel realizzare la moneta unica, dopo la morte o l’uscita di scena dei padri fondatori, quelli che avevano esperienza diretta della tragedia da cui venivamo?
Figuriamoci! Secondo me quasi tutto. Si sono sentiti, spesso se non sempre, molti se non tutti, sulla cresta dell’onda; inaffondabili, senza problemi se non il primato nel caso dei forti e la conquista dei fondi e dei sussidi nel caso dei deboli. Timorosi di restare fuori dalla grande abbuffata finanziaria, hanno consentito se non promosso la rincorsa neoliberista agli Stati uniti e alla Gran Bretagna, contro la tradizione dei maggiori paesi continentali e del nord socialdemocratico. Hanno lasciato che le grandi banche tedesche e francesi collaborassero alla grande truffa greca – guadagnandoci, s’intende. Ora tirano i freni, esattamente quando e dove non dovrebbero. Autori importanti come Marcello De Cecco, da Moneta e impero in poi, ci hanno dato la storia, la interpretazione e il commento della tempesta che si preparava. Non sono mancate figure esemplari, anche in Italia – a me viene in mente Padoa Schioppa, forse perché è morto – ma nessuno è riuscito a realizzare politicamente ciò che avrebbe voluto. Basti pensare al disastro fiscale – evasioni, furti – al trasferimento di ricchezza a svantaggio del lavoro al momento del cambio di moneta, avvenuto, nel commercio, nella vita quotidiana, a un tasso doppio di quello formale.
Basti pensare anche al fallimento del tentativo di scrivere una Costituzione europea, diventata una sorta di enciclopedia delle idee predilette degli autori, una summa delle ideologie europee, non una legge fondamentale. Nel nostro piccolo, anche la carta dei valori, modello da proporre agli immigrati, che sono la gioventù dell’Europa, quando ministro dell’Interno era Giuliano Amato, in bilico tra falso storico e proposta egemonica, non è stata lungimirante. E basti pensare all’importanza che rappresentanti al Parlamento europeo annettono al loro alto incarico: poco più che un sussidio, una pausa di riflessione nel loro cursus honorum.
Non comincio a fare l’elenco degli arretramenti, dopo la carta di Nizza, degli allargamenti successivi, avvenuti sempre per necessità od opportunismo, senza una luce politica, perché sono eventi noti e non bisogna abusare della pazienza di chi legge. Le regole di attribuzione per rotazione delle cariche comunitarie sono diventate sempre più macchinose e insensate. Come aggiungere epicicli al vecchio modello, senza che nessun Copernico provasse a restituire un po’ di democrazia, a introdurre qualche idea generale. Hanno, o abbiamo, sbagliato tutto.
Ma qui siamo. Senza Europa e senza euro – la cui scomparsa segnerebbe l’inizio delle svalutazioni competitive, degli attacchi speculativi, dei dazi mascherati – non andiamo da nessuna parte. Da qui bisogna partire.
Il labirinto delle istituzioni europee
È il titolo di un libro di Pier Paolo Portinaro che illustra ciò che promette sull’arco di molti secoli. Neanche il quadro tracciato da Pietro Costa, nei volumi di Civitas, della nascita e dei mutamenti del concetto di cittadinanza nell’arco di più di due millenni in Europa è un quadro semplice. Abbiamo seri dubbi sulla tenuta democratica di molti degli Stati che costituiscono l’Unione europea, incluso il nostro. Chiedere democrazia in Europa è più esprimere un desiderio, formulare un progetto, che descrivere una realtà o chiedere qualche piccolo aggiustamento.
Viene voglia di liberarsi da questo labirinto, di tagliare questo nodo istituzionale, di tornare al piccolo, al semplice, al diretto; o di cambiare tutto, uniformare tutto, approdare rapidamente all’universalistico e al generale, costituire un vero Stato. La prima cosa, il ritorno al piccolo e al diretto, non si può fare fuori e contro l’Europa. La seconda cosa, il vero Stato, la rappresentanza generale uniforme, forse non si può fare; forse, per quel che mi riguarda, non lo desidererei neppure.
Possono esserci, ci sono stati in passato, ci sono tuttora, idee generali condivise, di eguaglianza, libertà, solidarietà, rispetto reciproco, rispetto e accoglienza dello straniero, rispetto delle compatibilità ambientali e quindi frugalità, valore del lavoro, rispetto della vita e accettazione della morte, che possono esprimersi, e confrontarsi con altre, anche se restano le divisioni amministrative, le giurisdizioni, le lingue, le mescolanze e le differenze di aspetto e culturali. Non si tratta di spazzare via il labirinto ma di mutarne la natura, di renderlo comprensibile, compatibile, funzionale. C’è più di quanto non sembri di già costruito proprio sul terreno giuridico e giurisdizionale, anche per merito di giuristi italiani. I movimenti ecologisti, ambientalisti, attenti alla scarsità sono in crescita in Europa. Su singoli temi o al livello municipale le maggioranze si sono trovate anche in Italia. L’ostacolo non sembra essere nei confini tra gli Stati, perché i movimenti – e le persone – scavalcano facilmente le frontiere, con la rete, ma anche alla vecchia maniera. Caso mai sono le strutture politiche, le burocrazie politiche, le persone dei politici, che non sono all’altezza.
Ed è proprio in campo economico e finanziario, oltre che in campo militare e nella politica estera, che ci sono le difficoltà maggiori. Mi sono abituato a pensare che l’indipendenza dei banchieri centrali sia una risorsa, come lo è l’indipendenza della magistratura. È una risorsa in quanto magistratura finanziaria, che governa la moneta e il credito nel rispetto delle decisioni della maggioranza, dei diritti e delle leggi. Il potere assoluto dei banchieri, nel vuoto politico, è un incubo. È l’incubo che stiamo vivendo.
Le idee e i mezzi
È facile essere d’accordo su principi generici. Più difficile, ma indispensabile, esserlo sulle priorità. Sono quasi sempre d’accordo con ciò che scrive Guido Viale. Sono d’accordo con la compatibilità, la frugalità, il recupero. Sono d’accordo anche con ciò che ha scritto sul manifesto dell’8 settembre, cioè sulla necessità di guardare oltre le compatibilità finanziarie, anche di guardare in faccia la possibilità del fallimento degli Stati, di questo Stato.
Ma, quando la guardo in faccia questa possibilità, mi succede quel che succedeva a chi guardava la faccia di Medusa. Bisogna guardare al di là di ciò che ci dicono gli economisti, o almeno gli economisti conformisti. Possiamo, dobbiamo, guardare oltre le follie dei costruttori di titoli derivati e di previsioni fatte estrapolando le storie passate. Non possiamo però guardare oltre l’economia in senso lato, perché l’uomo è fatto in modo che mangi, e che abbia bisogno di vestirsi e di ripararsi, e che non sia in grado di produrre da solo quel che gli serve. Qualcosa dobbiamo fare da noi, qualcosa bisogna dare agli altri perché ci diano ciò che non siamo capaci di fare per conto nostro; qualcosa che gli serva davvero. Avrei paura anche se noi italiani fossimo, come siamo stati, una società di lavoratori, di operai e contadini, capaci di cavarsela da soli dovunque li mettano, capaci di rimboccarsi le maniche e di produrre più di ciò che consumano sotto qualsiasi cielo – come si proponeva di fare il finto albanese e vero contadino di Lamerica. Lo eravamo nel ’22, e non è bastato. Ma siamo una società di vecchi pensionati, di rentier poveri (e, più di rado, ricchi), di giovani mantenuti dai vecchi, a loro volta badati da straniere, una società manifatturiera, vissuta esportando, ma fondata troppo spesso sui bassi salari. Se venissero giù l’Inps e il Ssn, che, con tutti i suoi guai, è uno dei migliori al mondo, il grasso accumulato che ci garantisce la sopravvivenza durerebbe poco, anche perché il tentativo di trasformarlo in risorse lo brucerebbe in un istante. Provate a vendere la casa di vostro padre quando tutti vogliono venderla e nessuno ha i soldi per comprarla.
Qualche idea finanziaria – la patrimoniale di Modiano e Mucchetti, la spending review, gli accordi con la Svizzera – bisogna averla. La macchina va riparata in moto. Non possiamo permettere che si sfasci. Se poi si sfascerà lo stesso, dovremo far fronte. Il conflitto tra chi ha e chi non ha, tra chi è in grado di lavorare e chi no, tra cittadini e stranieri, mascherato dalla illusione contemporanea di essere tutti classe agiata, diventerà esplosivo. Speriamo di cavarcela. Le società si riequilibrano sempre, magari con meno persone, anche dopo la guerra dei cent’anni e la peste nera. Ma non chiedetemi di augurarmelo o di progettarlo. Io, e molti altri, dopo, non ci saremo.
Ma, bene o male che vada, in un momento di mutamento inevitabile, forse grave, più che mai bisogna avere principi e rispettarli. La efficienza della scuola pubblica, la formazione alla cittadinanza e al lavoro, la sostenibilità, non possono essere solo affermate.
Può darsi che il terrorismo sulla finanza sia in parte un bluff, come lo era e lo è la pubblicità dei consumi e la crescita infinita, che, lo capiscono tutti, può essere solo finanziaria, perché crescite materiali infinite non si danno in natura. Ma un rimedio al peccato degli anni ’80 bisognerà trovarlo – contro quelli che lo hanno prodotto, a loro vantaggio, allora.