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Riforma delle banche in lista d’attesa

Le ricette in ballo: ridimensionare il settore finanziario, con una pluralità di strumenti coordinati. La questione fondamentale: quanto capitale devono avere le banche?

“…nel 1360 un banchiere di Barcellona fu giustiziato in pubblico nella piazza dove si trovava la sede della sua banca appena fallita, presumibilmente per scoraggiare le generazioni future di banchieri dal prendersi rischi eccessivi. Ma l’esempio non ha avuto molto successo…” (G. Alessandri, A. G. Haldane)

“…il modello corretto, moderno di regolazione (della finanza) non consiste solamente nel regolare con una mano leggera, ma anche in misura limitata…” (Gordon Brown, 2005)

“…secondo le norme in vigore, una banca come la Goldman Sachs mette soltanto 1 dollaro di mezzi propri per ogni 13 dollari di attività. Chi si prende i rischi? Il contribuente; …questo è un sistema sempre più pericoloso. E’ solo una questione di tempo prima che esso crolli di nuovo…” (P. Boone, S. Johnson)

premessa

Sono passati più di due anni e mezzo da quando si sono manifestati i primi concreti segnali della crisi, con lo scoppio della questione dei mutui subprime; per quanto riguarda una possibile riforma del sistema finanziario, in Europa come negli Stati Uniti, si continua da allora a discuterne molto, ma non sono stati ancora approvati, contrariamente a quanto si poteva immaginare, dei provvedimenti di qualche peso al riguardo.

Ostano al varo di norme più severe la feroce ed efficace attività di lobbying esercitata dalle banche, molte remore ideologiche, l’incompetenza, la complicità e la scarsa voglia di andare avanti di molti politici, distratti da tante questioni e da tanti affari, la stessa complessità e i molti dubbi relativamente alle mosse che bisognerebbe intraprendere.

In ogni caso, dei possibili provvedimenti avanzano, sia pure lentamente. Negli Stati Uniti, il governo Obama, dopo la vittoria sul fronte della sanità, spinge ora su quello della finanza e quasi tutti sono ottimisti relativamente all’ipotesi che una legge sarà approvata entro qualche mese dai due rami del parlamento. Anche in Europa si va più o meno avanti e c’è comunque da scommettere che anche da noi si farà qualcosa.

Nel frattempo il comitato di Basilea ha varato delle nuove proposte che, dopo il relativo dibattito, dovrebbero costituire il corpus di quelle che saranno le normative di Basilea III.

Ci si può chiedere come si potrà valutare la bontà delle riforme che saranno eventualmente approvate. Negli Stati Uniti come in Europa sarà sufficiente guardare ad un indicatore inequivocabile, quello costituito dalla reazione del mondo bancario; meno forte esso strillerà, meno adeguate saranno le nuove norme. E noi temiamo purtroppo che, alla fine, i grandi istituti faranno soltanto finta di emettere qualche gridolino di convenienza.

Si possono, peraltro, individuare anche degli altri indici per valutare l’ adeguatezza delle nuove misure e ne vogliamo ricordare ancora tre: il primo sarà costituito da quanto si riuscirà a ridimensionare effettivamente il settore finanziario, mentre il secondo dovrebbe fare considerare su quanti fronti diversi si riuscirà effettivamente ad intervenire. Un aspetto evidente della questione è, in effetti, rappresentato dal fatto che per risanare la finanza bisogna incidere contemporaneamente su moltissimi aspetti del problema e che non esistono una o due al massimo misure salvifiche che potrebbero sistemare tutto. C’è poi una terza pista da analizzare e che riguarda quanto si riuscirà a muoversi più o meno nella stessa direzione in tutti i principali paesi sviluppati, per evitare che le banche possano avere la possibilità di spostarsi da una capitale all’altra, alla ricerca della legislazione più blanda.

Cosa bisognerebbe cambiare in generale

Ricordiamo allora, in estrema sintesi, quali sono i molti temi sui quali si dovrebbe avanzare, secondo anche quanto è stato messo in evidenza nel dibattito in corso ormai da tanto tempo.

Per quanto riguarda intanto il sistema della supervisione e controllo, bisognerà che, nell’ambito di controlli forti, esso tocchi non solo le banche ordinarie, ma anche tutti gli altri istituti di tipo finanziario; che esso non riguardi soltanto i singoli istituti, ma affronti anche il rischio sistemico; che venga anche tutelato il consumatore, con il varo di un’agenzia apposita dotata di ampi poteri.

In relazione poi al sistema bancario, bisogna rivedere il meccanismo di remunerazione dei manager e dei trader e i processi di cartolarizzazione dei crediti; aumentare il livello dei mezzi propri e controllare anche la liquidità degli istituti; affrontare il problema delle banche troppo grandi e delle limitazioni al tipo di attività che esse dovrebbero poter svolgere, con la correlata questione della necessità di un forte ridimensionamento dei rischi che esse potrebbero affrontare; risolvere il problema della proprietà degli istituti; trovare un nuovo, più limitato, tipo di assetto, if any, per gli hedge fund e i fondi di private equity; interrogarsi sulle attività dei fondi pensione, nonché sugli obiettivi che le banche centrali devono perseguire.

Venendo infine a delle questioni ulteriori, bisogna mirare ad un miglior controllo delle agenzie di rating, nonché delle operazioni sui derivati; chiudere i tax haven; introdurre delle forme di tassazione innovative sulle attività finanziarie.

Non si può poi dimenticare la dimensione internazionale dei problemi, con la necessità, tra l’altro, che le norme siano coordinate tra i vari Stati e che venga attivata una regolamentazione internazionale delle banche che operano in più paesi.

La teoria della capitalizzazione

Tra tutte le questioni elencate, vogliamo fissare l’attenzione su una di quelle indubbiamente più importanti e relativa alla necessità di una più elevata capitalizzazione del sistema bancario, sottolineando peraltro che tale misura, da sola, non riuscirebbe a raggiungere lo scopo di un adeguato sistema di controllo del settore.

E’ noto come la teoria finanziaria, per quanto riguarda in generale il mondo delle imprese e non soltanto di quelle finanziarie, fosse, a partire dalla fine della seconda guerra mondiale, sostanzialmente diffidente di fronte a importanti livelli di indebitamento. Poi, due economisti, F. Modigliani e M. H. Miller, a partire dalla fine degli anni cinquanta, cominciano a mettere in dubbio la rilevanza di tale preoccupazione che, peraltro, è rimasta abbastanza salda nella pratica del business, almeno nel mondo anglosassone e almeno per qualche decennio ancora. Un colpo ulteriore alle idee tradizionali viene poi inferto, nella seconda metà degli anni settanta, dalla teoria dell’agenzia, che si spinge ad affermare che un alto livello di debiti ottiene il risultato di conciliare gli interessi di management e proprietà dell’impresa e a spingere in direzione della massimizzazione del valore dell’impresa stessa. L’opera di trasformazione teorica viene poi completata nei primi anni novanta dalla cosiddetta scuola del valore; essa tende a sottolineare, con accenti persino lirici, i moltissimi aspetti positivi di un alto livello di debiti.

Per quanto riguarda in specifico le imprese finanziarie, si occupa di approfondire la questione nel 1995 R. Merton, premio Nobel per l’economia e che peraltro sarà coinvolto direttamente nel fallimento, nel 1998, della società finanziaria da lui creata insieme anche ad altri premi Nobel, la Long-Term Capital Management. Tale fallimento contiene già in sé molti dei germi della crisi in atto.

Merton, partendo dalla considerazione che un rilevante livello di mezzi propri era tradizionalmente richiesto per coprire gli elevati rischi di vario tipo cui le imprese bancarie andavano incontro nelle loro operazioni, affermava che le tecniche moderne di gestione dei rischi, in particolare la disponibilità di strategie sofisticate di copertura dagli stessi che erano ormai disponibili da tempo, comportavano la logica conseguenza che una parte crescente delle attività delle banche era ormai priva di rischi significativi e che perciò non erano più richiesti elevati livelli di mezzi propri, in genere previsti proprio per far fronte agli stessi (Boone, Johnson, 2009). Naturalmente, la realtà ha mostrato che Merton si sbagliava.

(1- continua)