Il pericolo di un sistema in cui il basso costo del lavoro compensa i ritardi nell’innovazione e sviluppo. Un’alternativa: il tasso programmato di produttività
Su molti aspetti dell’accordo del 22 gennaio sulla riforma della contrattazione è prudente sospendere il giudizio perché contengono molte ambiguità che saranno risolte soltanto dalle “intese fra le parti”, cui l’accordo stesso fa espliciti e frequenti rinvii. Paradossalmente, tra queste “parti” rientrano anche quelle (di rilievo non trascurabile in termini di rappresentanza) che non hanno sottoscritto l’accordo e che quindi potrebbero ritenersi non vincolate dai contenuti dello stesso.
Tralasciando quindi per il momento le molte considerazioni di carattere generale che potrebbero essere svolte sull’accordo, mi sembra però necessario segnalare un rischio (che finora non mi sembra sia stato avvertito) implicito nell’ipotizzato collegamento tra dinamiche salariali e dinamiche della produttività. Tale rischio richiede che si pensi a qualche misura per neutralizzarlo.
Assumiamo, per semplicità, che la contrattazione di secondo livello subisca un significativo incremento di diffusione. In realtà questo potrebbe facilmente non aver luogo. Infatti, non essendo la contrattazione di secondo livello obbligatoria, la compressione salariale del primo livello e l’incentivo fiscale a favore della componente retributiva del secondo livello potrebbero non essere sufficienti ad indurre le imprese a farvi ricorso. Due fattori, in realtà, potrebbero contrastarne la diffusione; il primo è dato dalla possibilità che gli “obiettivi e vincoli di finanza pubblica” (cui la riduzione della pressione fiscale sul lavoro e sulle imprese viene esplicitamente subordinata nell’accordo) rendano impossibile destinare risorse sufficienti per “incentivare, in termini di riduzione di tasse e contributi, la contrattazione di secondo livello”; il secondo è dato dal fatto che, ove tali riduzioni fossero disponibili, queste potrebbero indurre una fittizia contrattazione di secondo livello, consistente in una mera imputazione di voci retributive al secondo livello al solo scopo di godere dei vantaggi fiscali. A ciò si aggiunga che nel caso in cui la retribuzione connessa ai cosiddetti “elementi economici di garanzia”, fosse inferiore a quella derivante dal legame con la produttività, molte imprese potrebbero non resistere alla tentazione di dar via libera alla prima astenendosi dalla più complessa e onerosa contrattazione di secondo livello. La prevalenza di imprese di piccole dimensioni e la scarsa presenza in esse di rappresentanza sindacale completano il quadro.
Ma supponiamo, invece, che tutto vada bene e che effettivamente si diffonda “la contrattazione di secondo livello che collega incentivi economici al raggiungimento di obiettivi di produttività, redditività, qualità, efficienza, efficacia”….etc.
A proposito di tale collegamento vanno separati due distinti problemi. Il primo è quello della distribuzione dei guadagni degli incrementi di produttività; il secondo è quello dei suoi effetti sulla crescita della produttività. Lasciando per il momento da parte il primo, vorrei fare qualche riflessione sul secondo.
Dal collegamento ipotizzato deriva che se un’impresa non consegue aumenti di produttività non dà luogo ad aumenti retributivi, i quali invece avrebbero luogo se la produttività dell’impresa aumentasse. Questo suona perfettamente ragionevole da un punto di vista microeconomico e di breve periodo. Infatti l’impresa la cui produttività non cresce terrebbe in tal modo sotto controllo il costo del lavoro per unità di prodotto e potrebbe mantenere la sua competitività rispetto alle imprese dove invece la produttività e con essa i salari crescono.
Ma risulta chiaro che nel primo caso il costo del lavoro per unità di prodotto è controllato attraverso il costo del lavoro per unità di lavoro, mentre nel secondo caso è controllato attraverso la dinamica della produttività. Ne segue che in un mercato concorrenziale le imprese con più bassi livelli di produttività possono sopravvivere grazie a corrispondenti più bassi livelli salariali.
Se consideriamo questo problema dal punto di vista macroeconomico e di medio-lungo periodo osserviamo però che un sistema produttivo del genere subisce un freno all’introduzione di innovazioni e alla crescita della produttività, perché la moderazione salariale funge da compensazione per il ritardo di produttività e può quindi far risparmiare sulla spesa per investimenti in ricerca, sviluppo e innovazione. Il sistema produttivo italiano (che, come è noto, registra una bassissima dinamica della produttività rispetto agli altri paesi) è piuttosto avvezzo a trovare modi di recuperare competitività pur senza competere in produttività. La storia ci ricorda l’epoca della modifica delle parità valutarie utilizzata a fini di recupero della competitività, e la storia del Mezzogiorno è piena di erogazioni di “incentivi” concepiti per compensare i differenziali di produttività con le altre aree del paese dimenticando che forse era meglio spendere per ridurli anziché per compensarli. Nel lungo periodo l’Italia sta accumulando, rispetto agli altri paesi industrializzati, crescenti ritardi di produttività e crescenti differenziali (negativi) nei livelli di salari e stipendi. Tale meccanismo rischia di alimentare un approfondimento di questo “gap” e Dio sa quanto questo sia disastroso quando con la ripresa economica la sfida della competitività morderà ancora più severamente.
Dobbiamo allora forse orientarci a considerare il salario come una variabile indipendente dalla produttività? Assolutamente no. Bisogna contemporaneamente evitare sia il rischio di una moderazione salariale in funzione protezionistica dell’inefficienza, sia quello di una dinamica salariale indipendente dalla produttività e quindi carica di potenziale inflazionistico.
Andrebbe pertanto studiata una soluzione appropriata; e l’idea che suggerisco è quella di agganciare la dinamica salariale a una qualche forma di tasso di crescita programmato della produttività, secondo una formula del tipo: Dw = e (IPCA) + l (p*), dove l è un coefficiente che riflette le quote distributive degli incrementi di produttività e p* è il tasso programmato di crescita della produttività.
In tal modo le imprese la cui produttività cresce al di sotto del tasso programmato vedranno crescere il costo del lavoro per unità di prodotto e quindi o dovranno accettare una contrazione dei loro margini di profitto o saranno costrette ad uscire dal mercato dando luogo a quel processo schumpeteriano di distruzione creativa che espelle le imprese meno efficienti e seleziona quelle più efficienti. Per evitare ciò le imprese dovranno impegnarsi ad introdurre tutte quelle innovazioni tecnologiche, organizzative e gestionali necessarie per raggiungere almeno il tasso programmato di crescita della produttività. D’altro canto, le imprese la cui produttività cresce più del tasso programmato saranno premiate e godranno di tutti i vantaggi della riduzione del costo del lavoro per unità di prodotto.
Naturalmente, il problema cruciale sta nella determinazione del tasso programmato di crescita della produttività, a proposito del quale si presentano molti aspetti tecnici che vanno studiati e risolti con molta attenzione. Innanzitutto deve essere individuato un soggetto “terzo” cui affidare la determinazione del tasso programmato. In secondo luogo vanno individuati i parametri e i meccanismi appropriati per la stima del tasso programmato. Si potrebbe far riferimento al tasso medio di crescita della produttività del settore, magari ponderato con la classe dimensionale dell’impresa; oppure si potrebbe introdurre l’elemento territoriale, oppure ancora considerare la filiera produttiva o le reti di imprese, tenendo conto della loro eventuale collocazione nelle catene di valore internazionale; oppure ancora prendere in considerazione l’andamento della produttività in altri paesi, oppure ancora far ricorso a metodi parametrici o non parametrici di valutazione dell’efficienza. Ancora: di quale nozione di “produttività” stiamo parlando? Si tratta della “produttività grezza” del lavoro, della “total factor productivity” o di che? Infine, tale approccio richiede di ridefinire e rimodulare la dimensione del “secondo livello”: è evidente che se il tasso programmato fosse determinato meramente a livello di settore non resterebbe da definire a livello decentrato se non il coefficiente l; ma la considerazione di elementi quali la classe di ampiezza delle imprese e i fattori territoriali (per tener conto dei fattori di produttività che non dipendono dalle imprese) può introdurre appropriati margini di libertà per il livello decentrato.
Sicuramente c’è un groviglio di problemi da risolvere (basti pensare ai problemi per certi versi simili che si presentano in sede di applicazione del “price cap” per la regolazione delle tariffe dei monopoli amministrativi o naturali); ma a mio parere vale la pena compiere lo sforzo di affrontarli piuttosto che lasciar marcire i problemi di un meccanismo che per garantire la stabilità microeconomica della singola impresa rischia di nuocere gravemente alla stabilità e alla crescita dell’intero sistema.