Le visioni divergenti sulle riforme del mercato del lavoro di Tiziano Treu e Pasquale Tridico, a pochi mesi dall’appuntamento con le urne, in un dibattito organizzato a Firenze dalla Classe di scienze politico-sociali della Scuola Normale Superiore.
Un’occasione utile per costringere il legislatore a intervenire o uno strumento rischioso, che in caso di mancato quorum potrebbe far finire i diritti dei lavoratori nel dimenticatoio? Sono diverse le visioni sui referendum dell’8 e 9 giungo di due protagonisti delle politiche del lavoro del nostro Paese: l’ex ministro ed ex presidente del Cnel Tiziano Treu e l’ex presidente dell’Inps ed europarlamentare Pasquale Tridico. A pochi mesi dall’appuntamento con le urne, il dibattito “Le regole per il mercato del lavoro”, organizzato il 16 aprile scorso a Firenze dalla Classe di scienze politico-sociali della Scuola Normale Superiore, non ha potuto ignorare l’appuntamento referendario.
Sono così emerse le diverse aspettative che i due economisti intervenuti a Firenze ripongono nella consultazione popolare. Per Treu, la ripresa della discussione sul lavoro può essere utile, ma va tenuto in conto il rischio molto concreto che, se non sarà raggiunto il quorum, sia il tema del lavoro che quello della cittadinanza finiscano nel dimenticatoio. “Sul merito ho una posizione articolata: il referendum sulla cittadinanza è cruciale”, spiega. In materia di licenziamento Treu sostiene che sebbene il quesito venga presentato come un referendum contro la precarietà, l’articolato sul quale interviene è già stato parzialmente modificato dalla Corte costituzionale.
Il punto di vista di Tridico è invece favorevole: lo strumento servirebbe a costringere il legislatore a intervenire, a occuparsi di temi che sono centrali. Tridico parla del referendum sugli appalti usando l’esempio della tragedia alla Esselunga, costata la vita cinque operai. “Su quel cantiere lavoravano 62 imprese. Certo, c’è un tema di eventuali abusi giuridici, ma nel momento in cui hai 62 imprese che lavorano nello stesso luogo, i controlli da parte della ditta che vince l’appalto sono impossibili. C’è anche un tema di circolazione delle informazioni tra imprese che lavorano nello stesso luogo”.
Comunque la si pensi, i referendum dell’8 e 9 giugno saranno, nel bene o nel male, uno snodo decisivo per lavoratrici e lavoratori, così come per gli stranieri che aspirano alla cittadinanza italiana. Lo strumento referendario ha sì perso efficacia nel corso degli anni, ma ha pur sempre il merito di riportare al centro dell’agenda temi, come i diritti dei lavoratori, che vengono spesso nascosti sotto il tappeto da una classe dirigente che negli ultimi 30 anni non è stata capace di offrire vere soluzioni. Per quanto i tentativi e le misure innovative non siano certo mancati.
Proprio agli effetti delle numerose riforme del mercato del lavoro che si sono susseguite in Italia a partire dagli anni ’90 era dedicata la discussione organizzata dalla Classe di scienze politico-sociali della Scuola Normale Superiore, moderata dal preside Guglielmo Meardi. A fare da sfondo un mercato del lavoro che, nonostante le molte riforme, non ha conosciuto rivoluzioni in termini quantitativi: negli ultimi anni è aumentato il numero di occupati ma è diminuito il monte ore lavorato. Non solo: i dati sulla cresciuta partecipazione (il numero di persone attive sul mercato del lavoro), ha segnalato Meardi, è anche figlio dell’inverno demografico: meno persone in assoluto sono in età da lavoro. Degli oltre 18 milioni di lavoratori dipendenti, un terzo, circa sei milioni, sono a tempo determinato o part-time, giovani e donne sono i più penalizzati. Un mercato incapace di valorizzare le competenze acquisite e che non favorisce la permanenza dei giovani in Italia.
Treu e Tridico si sono confrontati su tre assi: flessibilità, sicurezza e salario. L’idea degli anni ‘90, ripresa dal modello di flexicurity dei Paesi scandinavi, mirata a creare un mercato flessibile accompagnato dalla certezza del reddito e da politiche attive del lavoro, non ha funzionato. Anche per via di un problema, sul quale i due economisti concordano: lo strabismo istituzionale per cui la politica economica e monetaria sono in larga parte o del tutto di competenza europea, mentre il welfare e le politiche del lavoro rimangono di competenza nazionale.
La discussione ha affrontato in profondità molte questioni, tra cui i salari, che in Italia segnano il passo. Oggi i divari, anche all’interno dello stesso mercato del lavoro nazionale, sono molto grandi. Per questa ragione, secondo Treu, il salario minimo pur non essendo la soluzione, “potrebbe servire almeno in parte a garantire una qualità minima a quelle fasce povere del lavoro. Che faccia male alla struttura produttiva è una sciocchezza”. A parere di Tridico i salari non sono cresciuti perché l’aumento della flessibilità ha fatto crescere la precarietà e indebolito i sindacati, togliendo loro potere contrattuale. Anche Tridico si dice favorevole (con più convinzione del suo interlocutore) al salario minimo. In questo quadro non certo roseo, si inseriscono dunque i referendum di giugno che, com’è detto all’inizio e come ormai abitudine, avranno nella tagliola del quorum il primo e più grande ostacolo.