Se non vogliamo che tutte le decisioni in merito ai livelli e alle condizioni di lavoro, alle retribuzioni, a che cosa si produce e a quali prezzi, ai prodotti che entrano nelle case e strutturano la vita delle persone, siano prese altrove, il diritto al lavoro e quello al reddito dovrebbero andare di pari passo
Questa apparente dicotomia trova eco nelle parole del governo che giudica il reddito minimo come uno strumento meramente assistenzialista, quindi negativo, perché fonte di sprechi e di disincentivo al lavoro. In Italia, bisogna creare lavoro (sic!) non assistenzialismo, dice. Peccato però che l’attuale sistema di welfare italiano sia già, senza reddito minimo, caratterizzato da forte assistenzialismo, familismo e da una marcata dose di corporativismo, proprio perché fondato non tanto sui diritti, intesi come declinazione formale dei bisogni materiali degli individui, quanto sull’appartenenza a un determinato gruppo (come nel caso dell’assegno di disoccupazione per lavoratori dipendenti e non per i precari autonomi, come le partite iva).
Questo tipo di argomentazione, alquanto diffusa, sembra far prevalere un’idea di fondo: il sistema Italiano è irriformabile e, di conseguenza, ogni tentativo di migliorare il rapporto tra Stato e cittadini sarebbe controproducente. Allo stesso tempo però, difendendo l’attuale sistema si stravolgono quotidianamente i concetti di welfare e lavoro: il lavoro diventa welfare, il volontariato lavoro che dà accesso al welfare. In particolare, quando i cittadini sono chiamati a prestare lavoro agli enti locali, perché beneficiari di sussidi, allora è possibile corrispondere loro un minimo vitale e non invece un salario vero e proprio, sotto le mentite spoglie del volontariato. E’ questa l’idea sottostante il nuovo protocollo firmato, ormai da mesi, dal Ministero del Lavoro di concerto con Anci e Terzo Settore. Altrettanto infondate, quando non conseguenti e prive di visione, sono le critiche legate al condizionamento del sussidio a una politica attiva di inserimento al lavoro.
Da un’altra prospettiva, invece, le critiche al reddito minimo muovono dall’idea che la principale fonte di reddito deve necessariamente essere il lavoro. E’ quindi il lavoro il mezzo che dà diritto al reddito e non di per sé i bisogni materiali dei cittadini. Il reddito minimo è considerato, a priori, come uno strumento caritatevole, che avalla l’impoverimento del lavoro, dovuto alla liberalizzazione del mercato del lavoro e una politica di bassi salari, in vigore ormai da oltre vent’anni. Un’obiezione giustificabile, senza dubbio sul piano teorico, ma che non affronta pienamente né l’attualità né le trasformazioni già in essere e quelle che potrebbero intervenire nella società, nei processi produttivi e distributivi a seconda delle scelte di politica economica e industriale.
E’ bene partire dai fatti. Nel 2014, in Italia, ci sono oltre sei milioni di individui che vivono in condizioni di povertà assoluta, più di dieci milioni quelli in povertà relativa. Nel 2013, l’incidenza della povertà relativa tra le persone in cerca di occupazione sale al 28%. Nel 2014, il 38% dei lavoratori con contratti precari e il 12,3% dei lavoratori standard vivono al di sotto della soglia di povertà relativa. Appare quindi evidente che esiste un’emergenza povertà, da affrontare immediatamente. In questo senso, il reddito minimo è lo strumento più facile da adottare: un trasferimento monetario darebbe l’opportunità a singoli e famiglie di soddisfare quanto meno alcuni tra i bisogni di base, primo tra tutti il diritto alla casa (affitto o rata del mutuo), la rata del riscaldamento, il prezzo per il trasporto pubblico, l’istruzione e così via. Di fronte a un’enorme crisi di domanda interna, il reddito minimo stimolerebbe i consumi, contrariamente a quanto invece avvenuto per il programma degli 80€, proprio perché rivolto alle fasce di popolazione la cui propensione al consumo è più alta. Ciò non vuol dire che il reddito minimo come trasferimento monetario sia sufficiente a risolvere la povertà, né tanto meno le sue cause, ma sicuramente non è da considerare come provvedimento controproducente, soprattutto al sesto anno di crisi della domanda interna.
Inoltre, è bene tener presente che esistono motivi oggettivi ed esogeni per cui non tutta la popolazione è attiva sul mercato del lavoro né può esserlo per periodi più o meno lunghi. Si dirà, un trasferimento di reddito diretto, però, può non essere un intervento ottimale, contrariamente ai trasferimenti indiretti: case, scuole, asili, accesso gratuito ai mezzi di trasporto e così via, come già accade in molti altri paesi europei, e l’obiettivo è assicurare alla popolazione il soddisfacimento dei bisogni di base. In questo caso però l’azione non potrebbe essere contingente, perché in molti casi richiederebbe un intervento strutturale da parte del settore pubblico, quindi tempo, nonostante questi provvedimenti siano inevitabili e quanto mai urgenti. Occuparsi del reddito è necessario ma non sufficiente. Serve, infatti, avviare fin da subito un piano per l’occupazione (e per la sua redistribuzione), l’istituzione del salario minimo anche per i precari, strumento che insieme al reddito minimo può scongiurare il ricatto del lavoro gratuito e delle retribuzioni da fame. Allo Stato spetta, inoltre, definire un programma di investimenti pubblici, che guardino tanto alle piccole quanto alle grandi opere, accompagnati da una definitiva riforma dell’amministrazione pubblica.
In sintesi, è necessaria una visione, un’idea, di politica industriale che sappia invertire la tendenza decennale alla de-industrializzazione e alla predilezione per la privatizzazione e acquisizione da parte di imprese straniere dell’industria italiana.
Senza un’inversione, infatti, “tutte le decisioni in merito ai livelli di occupazione, alle condizioni di lavoro, alle retribuzioni, a che cosa si produce e a quali prezzi, ai prodotti che entrano nelle case e strutturano la vita delle persone, saranno prese altrove”, come spiega Luciano Gallino. In un contesto del genere, il reddito minimo rappresenterebbe nient’altro che una forma di ricompensa piuttosto caritatevole nei confronti dei beneficiari, lasciando le imprese libere di svalutare a proprio piacimento il lavoro.
Esistono altre ragioni, collegate a quelle di cui sopra, per cui bisogna insistere sul legame tra reddito e lavoro. Se accettiamo il diritto al reddito senza rivendicare anche il diritto al lavoro, allora stiamo affermando che può esistere una netta separazione tra produzione e consumo, tra chi decide sulla produzione e chi consuma, dove l’oggetto del consumo sarà, soprattutto in assenza di una vera politica industriale, deciso dai primi, gli stessi che determineranno i bisogni dei secondi (i cittadini-consumatori), o almeno quali tra questi potranno essere soddisfatti. Tuttavia, anche le imprese avranno bisogno che qualcuno corrisponda quel reddito, che loro stesse hanno negato, in modo da assorbire tramite i consumi la produzione.
Non meno importante però, il diritto al lavoro è espressione del principio democratico per cui a ogni cittadino è data la possibilità di intervenire nei processi di produzione e quindi di strutturazione della società stessa.
È lecito comunque chiedersi se il lavoro sarà sufficiente nel futuro, ferma restando l’idea di fondo che sia anche, se non soprattutto, lo Stato il soggetto principale per la creazione di lavoro, in periodi di crisi, come “datore di lavoro di ultima istanza”, e in quelli di espansione, agendo appunto sulla politica industriale. Se il lavoro scarseggerà, sarà perché l’utilizzo di automazione, quindi di tecnologie avanzate, è entrato nei processi produttivi. Ciò implica non solo produrle (o importarle), ma investire per acquistarle e investire in capitale umano affinché possano essere utilizzate da chi dovrà controllarle. L’Italia sembra ben lontana al momento da questa traiettoria e ciò rappresenta effettivamente un limite almeno su due aspetti dirimenti. Il primo riguarda la creazione di lavoro in sé, che non può ridursi a settori che vivono in un contesto di competizione internazionale e/o che, più frequentemente di altri, sono esposti a periodi più o meno lunghi di crisi, quindi disoccupazione e calo della domanda: se così fosse, come pare avvenire in Italia da qualche decennio, anche precedente alla crisi, allora, inevitabilmente i salari saranno bassi e quindi il reddito minimo, nel caso dei working poor, si configurerebbe come indennizzo, un ripiego. Settori a basso valore aggiunto e strutturalmente non espansivi precludono la possibilità di creare nel tempo altro lavoro e nuova ricchezza.
Se ciò fosse vero, lo Stato (qualora fosse in grado di agire sul valore aggiunto) non avrebbe comunque a disposizione ricchezza tale da poter essere redistribuita a una fetta della popolazione in aumento sia attraverso il reddito minimo, sia attraverso la creazione di lavori (non volontariato) a bassa produttività mantenendo salari adeguati e non caritatevoli.