Il gruppo torinese controllerà circa il 20% dell’azionariato del gruppo Rizzoli – Corriere della sera. Un modo per fare digerire meglio il futuro disimpegno nel settore dell’automobile?
Forse non è un caso che parallelamente all’annuncio dell’intenzione, da parte di Generali e Mediobanca, di ritirarsi dai patti di sindacato cui essi aderiscono e relativi ad altrettanti importanti gruppi italiani, si svolga l’ultimo atto, almeno per ora, relativo all’assetto di controllo del gruppo Rizzoli Corriere della Sera.
La Fiat dovrebbe subentrare nella gestione prendendo le redini dell’azionariato con circa il 20% del capitale complessivo. Forse Elkann ha temuto di perdere altrimenti in prospettiva il controllo che esercitava insieme a diversi altri azionisti eccellenti sulle fortune (si fa per dire) in quello che è forse ancora il principale quotidiano italiano. Può darsi che la minaccia che esso cadesse nelle mani di Diego Della Valle sia stata sufficiente a convincere i torinesi ad impegnarsi; del resto, il costo complessivo dell’operazione è stato piuttosto modesto, circa 90 milioni di euro in tutto, più o meno quello che la Fiat auto perde in Europa ogni mese.
Ma forse ha pesato anche la necessità di prendere in mano gran parte dei quotidiani più importanti del paese, dal Corriere della Sera, al Corriere dello Sport, alla Stampa, per far digerire meglio all’opinione pubblica il futuro disimpegno del gruppo dell’auto nel nostro paese. Consideriamo d’altro canto che sia Il Sole 24 Ore che la Repubblica non hanno mai disturbato il manovratore e non sembrano certo averne ora l’intenzione. Nei prossimi mesi si dovrebbe in effetti plausibilmente arrivare alla chiusura di gran parte degli uffici direzionali di Torino, con il licenziamento di qualche migliaia di persone, per continuare poi nei prossimi anni con quella di un paio di stabilimenti. Altro che passione del giovane Elkann per l’editoria!
Il Corriere della Sera ha un peso che va ovviamente al di là del numero delle copie vendute; esso è l’organo ufficioso della classe dirigente nazionale ed influenza in misura rilevante le sue decisioni. I risultati si vedono bene oggi che stiamo in effetti assistendo alla quasi bancarotta del giornale contemporaneamente a quella del paese.
Ricordiamo un po’ di storia. Quello del passaggio del Corriere dalle mani di Angelo Rizzoli a Fiat e Mediobanca negli anni ottanta rimane uno degli episodi più oscuri e contorti della storia economica repubblicana, nel quale si sono esercitate proficuamente le migliori menti dell’establishment italiano. Confluiscono nell’episodio le trame P2, episodi di corruzione, storie di letto, insieme alle azioni di imprenditori e di finanzieri senza scrupoli.
Si forma un sindacato di controllo con la Fiat e Montedison in posizione dominante. Dall’acquisizione nasce un gigante editoriale che controlla la Stampa, il Corriere della Sera, il Corriere dello Sport, il Messaggero. Successivamente il gruppo Fiat lascerà spazio ad una cordata di imprenditori, che comprenderà, per così dire, il meglio dell’economia italiana; si va da dal gruppo torinese a Mediobanca, a Pesenti, a Rovelli, alla Pirelli, a Banca Intesa, a Ligresti, Benetton, ecc.
Ed arriviamo ad oggi. La perdita di copie in edicola e il calo degli introiti pubblicitari, come è ampiamente noto, derivano sia dal crescente e devastante sviluppo del mercato digitale, che dall’approfondirsi della crisi. Testate anche più illustri del Corriere sono soggette allo stesso fenomeno; così, in questi giorni, apprendiamo con orrore che il Financial Times potrebbe passare sotto le grinfie di Murdoch, di cui si parla anche come possibile protagonista futuro della nostra vicenda nazionale.
Le imprese editoriali cercano di spingere sui prodotti digitali e sulla relativa pubblicità, ma per il momento in generale il gioco appare molto incerto come risultati di bilancio. A parte la crisi e la rivoluzione digitale, le difficoltà di RCS sono forse anche dovute alla non grande lungimiranza dei padroni, occupati in altre faccende, tra cui quella di contribuire fattivamente ai disastri del paese.
Comunque, le cifre di bilancio parlano chiaro: il gruppo RCS registrava nel 2011 un fatturato pari a 2.075 milioni di euro con una perdita di 322 milioni. Nel 2012 il fatturato era sceso a 1.598 milioni, sia per le cessioni della francese Flammarion – acquisto incauto di qualche anno prima e spia della incapacità a reggere il necessario sviluppo internazionale dell’impresa –, sia per il calo delle vendite in Italia ed in Spagna, i due presidi principali del gruppo; nel frattempo la perdita era salita a 509 milioni di euro. Così il capitale netto, che era ancora pari a 703 milioni di euro alla fine del 2011, era sceso, per effetto delle perdite dell’esercizio 2012, ad appena 179 miliardi.
L’azienda, in relazione anche a tali risultati, ha preparato un piano triennale che, basandosi su assunzioni almeno in parte ottimistiche, prevede interventi sui costi – ovviamente si cercherà di mandare via quanta più gente è possibile, in Italia ed in Spagna, con un risparmio previsto di 80 milioni di euro nel solo 2013 –, si venderanno le attività non core, si punterà di più verso l’offerta digitale.
Si spera così in una stabilizzazione dei ricavi più o meno ai livelli attuali ed invece in un miglioramento netto della redditività. Ma i piani sulla carta appaiono sempre positivi e probabilmente Della Valle ha ragione nel chiedere che esso venga rifatto perché inconsistente.
Sul fronte finanziario, è stato appena varato un aumento di capitale di 400 milioni di euro, mentre si pensa di accrescerlo ancora in futuro sino all’importo di 200 milioni. Inoltre, è stato sottoscritto un accordo con le solite banche amiche per la ristrutturazione di un debito attualmente in essere per 800 milioni di euro, con la concessione di nuove linee per 575 milioni.
Così gli istituti di credito non mancano di portare ancora ossigeno alle manovre dei potenti, mentre trascurano sempre più il sostegno alle imprese. Per altro verso, penso che sentiremo ancora parlare della questione RCS nei prossimi mesi.