A distanza di quasi 90 anni dalla grande depressione, il dibattito economico non sembra abbia fatto grandi passi in avanti. Riflessioni a partire dai libri di Piketty e Rifkin
Dall’inizio dell’800, quando in Inghilterra il sistema capitalistico si era già consolidato e veniva mostrato agli altri paese la strada che avrebbero seguito (De te fabula narratur – come scriverà più tardi Marx), ogni crisi economica che si è presentata ha sollevato movimenti di protesta che mettevano in discussione il paradigma economica dominate, basato sulla proprietà privata dei mezzi di produzione.
Sino al 1989, l’anno della caduta del muro di Berlino, la maggioranza di questi movimenti è raggruppabile sotto la bandiera del Socialismo, sistema fondamentalmente basato sulla proprietà pubblica dei mezzi di produzione.
Da quella data però il paradigma della proprietà pubblica ne è uscito talmente screditato che nelle crisi successive, in particolare quella drammatica scoppiata nel 2007, nessuno si è fatto portavoce di soluzioni socialistiche, se non movimenti marginali.
Ciò non significa che in alcuni casi non ci sia stato un richiamo alla necessità di processi di nazionalizzazione, come per esempio per il sistema bancario o, nel caso italiano, della produzione dell’acciaio.
La cosa davvero strana e paradossale è come di fronte a questa gravissima crisi si stiano scontrando due paradigmi economici che la storia ha già in qualche modo considerati inefficienti, il paradigma neo-classico e il paradigma keynesiano.
La visione neo-classica aveva già mostrato i propri limiti con la crisi del 1929, ma, a partire dagli anni ’80 scorsi, è diventata il pensiero dominante. Questa incredibile ascesa è avvenuta con un investimento culturale di proporzioni inaudite, come documentato da Susan Strange (L’America in pugno – 2008 Feltrinelli).
La teoria neo-classica dimostra che solo l’economia perfettamente concorrenziale è in grado di coniugare la piena occupazione delle risorse con la capacità di auto controllarsi. Le funzioni dello stato sono ridotte al minimo e riguardano fondamentalmente garantire l’ordine e la giustizia interna e la difesa dei confini nazionali. Ora se l’economia reale conosce una crisi, deve essere per forza intervenuto un elemento estraneo a rompere quest’armonia. Chi meglio dello Stato, somma dell’inefficienza burocratica e dell’inefficienza politica, può finire sul banco degli imputati?
Gli economisti neo-classici sono soliti illustrare le loro tesi facendo sfoggio di un linguaggio matematico, per dimostrare il grado di scientificità del loro pensiero. Metodo decisamente contradditorio, perché per potere rappresentare matematicamente i comportamenti umani occorre introdurre delle enormi semplificazioni. Allora nel mondo neo-classico qualunque persona di fronte allo stesso problema assume le medesime decisioni perché il grado d’informazione e le preferenze sono gli stessi. Il mondo neo-classico è decisamente popolato da persone noiose!
I principali oppositori del paradigma neo-classico sono gli economisti keynesiani che si vantano di avere salvato il sistema capitalistico già una volta nel 1929 e, finita la seconda guerra mondiale, di avere avuto la capacità di smontare lo stato bellico con il welfare state, avviando quel ‘glorioso trentennio’ di massima crescita ed eguaglianza economica che la storia umana abbia mai conosciuto.
Se Keynes aveva dimostrato l’importanza del ruolo dello Stato nello stabilizzare la domanda aggregata, un altro grande liberale, Lord Beveridge, aveva dimostrato la possibilità di creare lo stato assistenziale. Tanto Keynes che Beveridge oggi sono idoli della sinistra democratica.
Quello che gli economisti neo-keynesiani fanno finta di dimenticare è come questo regime alla fine degli anni ’70 fosse imploso, chiuso nella morsa della stagnazione e dell’inflazione (stagflation), lasciando il campo libero al ritorno delle ricette neo-classiche, allora rappresentate da R. Reagan e M. Thatcher.
A distanza di quasi 90 anni dalla grande depressione, il dibattito economico non sembra abbia fatto grandi passi in avanti!. Recentemente sono stati pubblicati due libri molto interessanti che hanno riscosso un successo internazionale. In entrambi i casi, anche se in modo blando, viene supposto un nuovo paradigma economico teso a superare la dicotomia proprietà privata vs proprietà pubblica, avanzando l’idea di una terza forma di proprietà, quella collettiva o cooperativa.
Nel suo monumentale libro, Il Capitale nel XXI Secolo (2014 Bompiani), T. Piketty analizza, attraverso un formidabile apparato statistico, il fenomeno della disuguaglianza (di reddito e di proprietà) sia fra paesi che all’interno di ogni paese. Questo secondo aspetto è quello che qui maggiormente ci interessa. Piketty dimostra gli effetti negativi (crisi) della crescente disparità economica che finisce per bloccare la crescita. Questo fenomeno è oggettivo e dipende dalle contraddizioni interne della produzione capitalistica (considerazioni che ci riportano a Marx), sintetizzabili nell’espressione r > g, secondo cui il tasso di remunerazione del capitale (r) è sempre maggiore del tasso di crescita dell’economia (g).
Per rompere questa disuguaglianza la prima misura da prendere sarebbe l’istituzione di una forte imposta mondiale sul capitale, cioè una robusta e continua imposta patrimoniale, il cui fine principale “… non è quello di finanziare lo Stato sociale, quanto di regolare il capitalismo” (pag. 818), accompagnata da un altissimo grado di trasparenza finanziaria internazionale.
In alcuni passaggi però l’autore accenna ad un’altra possibile soluzione, tesa a portarci fuori dall’economia capitalista. “Più in generale, mi pare importante insistere, per concludere, sul fatto che uno dei più grandi obiettivi del futuro è sicuramente lo sviluppo di nuove forme di proprietà e di controllo democratico del capitale. Il confine fra capitale pubblico e capitale privato è tutt’altro che netto: non così netto come si è stati inclini a pensare dopo la caduta del Muro. Come abbiamo notato, esistono già ora molti settori di attività – istruzione, sanità, cultura, media – in cui le forme prevalenti di organizzazione di proprietà non hanno nulla a che vedere con i due paradigmi antitetici, del capitale puramente privato (con il modello della società per azioni, interamente nelle mani degli azionisti) o del capitale puramente pubblico (con una logica ugualmente top/down, secondo la quale l’amministrazione deciderebbe in piena sovranità l’investimento da realizzare)” (pag. 914).
Lo stesso autore pone le basi di forme proprietarie alternative sin dalle prime pagine del libro quando scrive: “D’altra parte, se la proprietà del capitale fosse ripartita in modo rigorosamente ugualitario e se ciascun salariato ricevesse una quota pari ai profitti e complementare al salario, la questione della divisione profitti/salari non interesserebbe (quasi) più nessuno” (pag. 69).
Ma con questi riferimenti (sporadici) Piketty non apre forse l strada alla ripresa del progetto cooperativo?
Il secondo libro è La società a costo marginale zero di J. Rifkin (2014 Mondadori).
Rifkin è decisamente un autore più fantasioso di Piketty (confesso che a volte mi viene da pensare ad un Charles Fourier informatizzato) e la sua base di partenza più che la divisioni in classi è rappresentata dalle trasformazioni che il progresso tecnologico finisce per imporre a tutti. La caratteristica di questo processo è che i costi fissi di produzione saranno sempre più bassi e una volta coperti, la produzione potrà avvenire a costo marginale zero che rappresenta la condizione dove i profitti si annullano. Oggi certi tipi di produzione, per esempio un libro, una canzone o un filmato, possono essere divulgati tramite internet gratuitamente. Sono beni a costo marginale zero. Ma domani potrebbe succedere per altri genere di produzioni, grazie alle stampanti 3D, sino ad ipotizzare la costruzione di un casa!
Un sistema a costo marginale zero, che annulla il profitto, non è compatibile con la proprietà capitalistica. Secondo Rifkin il sistema dominate sarà quello dei ‘Commons collaborativi’. Nel declinare questo nuovo genere di proprietà, Rifkin fa più espliciti riferimenti di Piketty, alla proprietà cooperativa, inserendoli nel XII capitolo non a caso intitolato “La lotta per definire e controllare l’infrastruttura intelligente”. Rifkin si basa sull’esperienza del New Deal degli anni trenta interessandosi della Tenesse Valley Authority, con cui il governo Roosvelt, rivoluzionò il sistema della produzione e della distribuzione di energia elettrica. La TVA è stata oggetto d’innumerevoli studi, ma pochi hanno messo in luce, come Rifkin, che il sistema di distribuzione elettrico si basò sulla costruzione di Cooperative elettriche che ‘avrebbero funzionato come Commons autogestiti’, arrivando a definire questo sistema come il più grande successo del New Deal!
Proprio partendo da questa esperienza Rifkin rilancia il progetto cooperativo “eppure – scrive – gran parte dell’umanità ha già strutturato almeno alcune parti della propria vita economica in associazioni cooperative che operano in Commons. Solo che non ne sentiamo mai parlare.” (pag. 298).
L’art. 42 della nostra costituzione recita: “La proprietà è pubblica o privata”. In sede di discussione, da più parti, si voleva introdurre il concetto di ‘proprietà cooperativa’, ma il relatore Ghedini respinse ogni emendamento osservando che “non si può ancora dire che la cooperazione rappresenti un tertium genus nel campo dei diritti di proprietà”. Ora che autori di grande successo come T. Piketty e J. Rifkin introducono ragionamenti di queste genere, non sono forse indice della necessità di approfondire questo aspetto del nostro futuro e di superare questa assurda forma di conventio ad excludendum?
Fra non molto la principale organizzazione cooperativa italiana, Legacoop, terrà il proprio congresso, chissà che non siano gli stessi cooperatori a battere il primo colpo in questa direzione!