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Quel cielo lombardo senza respiro

Intervista a Vittorio Agnoletto, medico, docente e attivista, su ciò che è successo e sta succedendo in Lombardia relativamente al Covid-19 a partire dal suo libro-inchiesta “Senza Respiro”, appena pubblicato per le edizioni Altreconomia.

“Se la Lombardia fosse una nazione, come qualcuno chiedeva fino a qualche anno fa, oggi sarebbe la prima al mondo per decessi da Covid-19 in rapporto agli abitanti”. Parte da questa constatazione il libro-inchiesta sul modello di sanità lombardo, fresco di stampa, di Vittorio Agnoletto. Il titolo è “Senza respiro” e la prefazione dell’ex presidente brasiliano Luiz Inacio Lula da Silva (edizione Altreconomia, pp 240,12 euro). Un libro che, attraverso l’analisi di dati e testimonianze, raccolte in collaborazione con l’Osservatorio Coronavirus di Medicina Democratica e grazie alle segnalazioni arrivate alla trasmissione “37e2” che l’autore conduce ai microfoni di Radio Popolare ogni giovedì mattina, ricostruisce i meccanismi con cui è stata gestita l’epidemia nella regione dove per prima il virus ha preso piede. Tanto che, presentandolo, lo stesso Agnoletto, medico e docente universitario a Milano, ha dichiarato di essere “a disposizione della magistratura che sta indagando”.

Agnoletto, la Lombardia è stata prima nella classifica negativa dei contagi e dei decessi fin da subito, nella prima fase dell’epidemia e anche ora, nella seconda ondata, è tornata stabilmente a primeggiare in decessi e contagi. Ci puoi spiegare sinteticamente il perché?

“Il perché oggi la Lombardia sia di nuovo in testa alle classifiche negative è conseguenza del disastro che si è verificato nella prima fase, quando il virus è stato lasciato circolare più che in qualsiasi altra regione. La ricerca epidemiologica di sieroprevalenza condotta a giugno da Istituto Superiore di Sanità, ministero della Salute e Croce Rossa indicava che in Italia il 2,4% dei cittadini era già venuto in contatto con il virus, mentre in Lombardia la percentuale saliva al 7,5% e già allora i dati erano sicuramente sottostimati. 

La seconda ragione, del triste record lombardo, sta nel fatto che da allora non è cambiato nulla, non è stato fatto nulla, né in ambito sanitario né, per fare uno dei tanti esempi possibili, per quanto riguarda i mezzi di trasporto nelle ore di punta. Nel libro abbiamo cercato di capire, andando all’indietro, i nodi e le tappe di questo disastro. 

Intanto bisogna dire che la Lombardia è stata la prima ad essere coinvolta perché è la zona più esposta agli scambi con la Cina, specialmente per alcune lavorazioni localizzate proprio nella provincia di Bergamo. A questo dato oggettivo vanno sommate però alcune caratteristiche della sanità lombarda, nella quale la presenza del privato è fortissima e in alcuni settori assorbe addirittura il 40% delle risorse. Si tratta di un privato in gran parte convenzionato con il Servizio sanitario nazionale che però sceglie i settori più remunerativi per le convenzioni, come l’alta chirurgia, la cardiologia e le terapie oncologiche, lasciando scoperti pronti soccorsi, reparti d’emergenza e naturalmente tutta la medicina preventiva e territoriale. L’altro elemento caratteristico è che anche il servizio sanitario pubblico in Lombardia segue le stesse logiche della sanità privata, il che da un punto di vista logico è assolutamente un controsenso. Infatti, se per il privato più malati significa più guadagni, per il Ssn meno malati e meno malattie significano maggiori risparmi. Quindi il Ssn in Lombardia dovrebbe seguire una logica opposta rispetto alle strutture private, invece nelle priorità ha fatto suo tutto il pacchetto di valori e scelte del privato, lasciando il servizio territoriale completamente abbandonato. Si pensi alla vertenza in corso a Milano contro la chiusura di due grandi ospedali come il San Carlo e il San Paolo per costruire un solo nuovo ospedale con 200 posti letto in meno, oltre che con un solo pronto soccorso anziché due”.

Si parla di riaprire il nuovo ospedale Covid alla Fiera, inaugurato da Bertolaso ma finora rimasto sostanzialmente chiuso. Potrebbe rivelarsi utile in questa nuova fase acuta?

“La vicenda dell’ospedale in Fiera grida vendetta. La giunta regionale ne ha fatto una questione di principio. In verità non solo per ora non è necessario riaprirlo, ma può rivelarsi controproducente, perché l’ospedale in Fiera non ha una sua pianta organica e per riaprirlo è necessario trasferire là una dotazione di medici e infermieri togliendoli da ospedali che sono già sottorganico e in forte difficoltà operativa. Attualmente, 30 ottobre,  i posti di terapia intensiva occupati in Regione sono meno del 50% di quelli disponibili, mentre chi sta soffrendo sono i pronto soccorsi e i reparti d’emergenza. Primari e direttori sanitari sono furiosi, ma lo dicono solo in conversazioni private perché le nomine dipendono comunque dalla Regione. L’ospedale in Fiera si presenta come una operazione di facciata finalizzata a mandare un messaggio alla magistratura, in relazione all’inchiesta aperta sull’uso dei fondi raccolti per attivarlo, piuttosto che come una decisione dettata da reali esigenze sanitarie”.

Poi c’è la circolare del 26 ottobre firmata dalla direzione generale Welfare della Regione Lombardia che dispone per tutto il personale sanitario venuto a contatto con una persona infetta di continuare a prestare servizio normalmente. Però di ritenersi in quarantena fuori dal lavoro. Non si capisce la ratio.

“La circolare è una assoluta follia. Sostiene che l’operatore sanitario che ha avuto un contatto con una persona positiva in ambito extralavorativo, quindi non durante la sua attività professionale in ospedale, anziché andare in quarantena precauzionale come tutti, debba continuare a lavorare, a meno che non insorgano sintomi, e nel frattempo verrà sottoposto a tre tamponi a distanza di cinque giorni l’uno dall’altro. Mentre nella vita relazionale fuori dal lavoro lo stesso soggetto deve ritenersi in quarantena. In questo modo è chiaro che l’operatore asintomatico rischia di diffondere il contagio nell’ambiente lavorativo; mentre una delle priorità dovrebbe proprio essere quella di tutelare al massimo il personale sanitario per evitare di riaccendere focolai negli ospedali e tornare così alla situazione di aprile. 

Si dà il caso che soltanto una settimana fa abbia ricevuto segnalazioni di colleghi risultati positivi e ospedali che si rifiutavano di riconoscere a costoro l’infortunio sul luogo di lavoro e li consigliavano di rivolgersi al medico curante, derubricando l’infezione come extra lavorativa. E qui si inserisce ciò che abbiamo scritto nel capitolo del libro che riguarda lo smantellamento della medicina del lavoro. È infatti il medico del lavoro che deve verificare se le disposizioni sulle misure di precauzione sono state rispettate o no. Anche un ospedale è un luogo di lavoro. La magistratura poi può aprire un’inchiesta per l’infortunio, per verificare eventuali responsabilità. 

Ma i servizi di medicina del lavoro in Lombardia sono stati ridotti ai minimi termini, dispongono di un numero limitatissimo di operatori che spesso non sono nemmeno messi in condizione di svolgere un’azione di vigilanza.”.

Ma se si continua a tracciare solo i sintomatici, come si può, come dice Crisanti,  arrestare il propagarsi dei contagi? Non è questo il nodo?

“È l’ABC del mio corso universitario, il primo atto di fronte ad una epidemia è tracciare gli asintomatici. Non farlo è stato l’errore iniziale; in Lombardia si è preferito trincerarsi negli ospedali e aspettare che arrivassero le persone già sintomatiche. Nel frattempo, sono state sospese le visite per tutte le altre patologie, chi poteva si è rivolto alle strutture private che hanno così aumentato clienti e introiti. Un business pazzesco. Invece di fare come è stato fatto in Irlanda dove le cliniche e gli ospedali privati sono stati chiamati a collaborare aprendo anche loro reparti Covid, e chi si è rifiutato è stato obbligato a farlo.”

Perché nel Lazio e a Roma l’incidenza del coronavirus è stato meno devastante? Perché sono stati fatti più tamponi?

“La Regione Lazio ha rivendicato di fronte al Tar e al Consiglio di Stato il ruolo centrale del sistema diagnostico pubblico e il Consiglio di Stato ha stabilito che il tracciamento dei contagi attraverso i tamponi spetta al servizio pubblico. In Lombardia invece la possibilità di fare un tampone con il Servizio Sanitario Nazionale implica spesso attese di settimane, mentre il campo è stato lasciato totalmente in mano alle strutture private che eseguono i tamponi in tempi molto più brevi, ma con costi estremamente elevati per il cittadino.

C’è un altro e differente aspetto che vorrei far notare. In Lombardia il servizio di sorveglianza non ha funzionato. Quando i medici di famiglia, fin da dicembre 2019, hanno iniziato a notare un aumento anomalo di polmoniti interstiziali e le hanno segnalate all’ATS e quindi in Regione, non è stata attivata nessuna indagine per capire cosa stava accadendo. Una normale attività di sorveglianza sanitaria avrebbe potuto individuare la circolazione del virus in Lombardia probabilmente anche un mese prima del 20 febbraio quando è stato segalato il primo caso all’ospedale di Codogno.    

Un altro aspetto, tra i tanti che affronto nel libro, è che alcuni progressi sulla conoscenza del virus, la sua diffusione e sui primi approcci terapeutici sono stati possibili solo grazie ad atti di disobbedienza civile di medici e operatori sanitari: dalla dottoressa di Codogno che ha sottoposto a tampone Mattia, il primo paziente risultato positivo, anche se le indicazioni ministeriali non l’avrebbero autorizzata ad eseguire tale esame, fino ai medici di Bergamo  che hanno fatto delle autopsie a chi era deceduto per Coronavirus, autopsie vietate da una circolare ministeriale, ed in tal modo hanno acquisito informazioni importanti sulle terapie necessarie.”.

Si arriverà presto ad un lockdown totale a Milano?

“Se i dati continuano così, è molto probabile. La confusione regna sovrana, solo per fare un esempio hanno di nuovo dovuto rivedere il sistema di sorveglianza sanitaria nelle scuole, quello precedente si era dimostrato inutilizzabile. La verità è che il sistema di tracciamento, di individuazione dei contatti delle persone positive, a Milano è totalmente saltato. Rinunciare a tracciare i contagi è come alzare bandiera bianca di fronte all’avanzata del virus.”.

Per limitare il congestionamento degli ospedali sono però state inaugurate le Usca, le Unità speciali di continuità assistenziale, come a Piacenza. Potrebbero essere lo strumento risolutivo?

“Non è stato fatto granché durante il lockdown per rafforzare la medicina territoriale. Le Usca dovrebbero essere una ogni 50 mila abitanti. In Lombardia dovrebbero essere almeno 200. Sono invece meno di un terzo; sarebbero fondamentali, nessun sistema ospedaliero può reggere l’impatto del riacutizzarsi dell’epidemia senza una rete di medicina territoriale. È quello che ha fatto il Portogallo con le Unidad de Saude Familiar o Case della Salute, descritte nel libro”.

Quali sono le azioni importanti che dovrebbero essere realizzate ora per ridurre la diffusione del virus. Ce le sintetizzi?

“Mi limito a fare un veloce elenco. Soltanto i malati gravi devono essere ricoverati in ospedale. In ogni territorio, anche dove l’ospedale principale viene trasformato in un hub per il Covid, deve comunque essere garantita la presenza di strutture sanitarie dedicate alla cura delle altre patologie. Vanno potenziati i mezzi pubblici, anche eventualmente con requisizioni di mezzi privati. Deve essere garantita e potenziata la sorveglianza sui luoghi di lavoro e come ho già detto, deve essere potenziata la medicina territoriale e aumentato il numero delle Usca. Inoltre, si deve raccomandare una diminuzione dei contatti tra le diverse generazioni e prestare la massima attenzione verso le persone più a rischio e verso i malati cronici; non dimentichiamo infatti che le persone che evolvono verso le fasi più complicate della patologia e che arrivano al decesso, sono in grande maggioranza cittadini anziani e persone con pregresse patologie. Aggiungo che è necessario che sia rinnovato il decreto sui lavoratori fragili che in questo momento sono lasciati senza alcuna tutela. 

Quando avremo superato la pandemia sarà necessario avviare una riflessione complessiva a 360° su quale tipo di medicina oggi, nel terzo millennio, possa essere utile e credo che i cambiamenti dovranno essere molto profondi. Per questo nella seconda parte del libro, oltre a raccontare quello che è accaduto e a cercare di individuare delle precise responsabilità, avanzo delle proposte concrete per costruire un nuovo Servizio Sanitario Nazionale universale e gratuito perché sostenuto dalla fiscalità generale”.