Quattro fatti: il successo del M5S, la tenuta di Berlusconi, la battuta d’arresto del centro sinistra e l’incapacità dei movimenti di intercettare la protesta. Tre soluzioni: riscoprire che succede nel paese, concordare le politiche del cambiamento, fare un governo con l’accordo tra Pd, Sel e M5S
Le elezioni del 24-25 febbraio ci consegnano un’Italia che fino a dieci giorni fa pensavamo diversa. Ci sono quattro fatti con cui fare i conti. Il primo, evidente, è l’affermazione del M5S, insieme a un’astensione salita al 25%. Il secondo, più trascurato, è la tenuta del blocco sociale che unisce Berlusconi e la Lega. Il terzo è la battuta d’arresto del centro sinistra. Il quarto è la difficoltà per i movimenti e le organizzazioni sociali di intercettare la protesta presente nel paese, un problema che ha contribuito al limitato risultato di Sel e alla sconfitta della Lista Ingroia.
Quattro fatti che ci parlano di un paese che ormai conosciamo poco. Politologi, sondaggisti e sociologi hanno perso il contatto con le trasformazioni della società e dei comportamenti politici. I partiti sono sempre più comitati elettorali, senza un radicamento sul territorio. I movimenti frequentano troppo se stessi per capire cosa gli succede intorno. I giornali si fermano alla banale superficie degli eventi.
La prima novità è il successo del M5S, che ha molte radici. La più forte è la spinta demolitrice di un sistema politico delegittimato. Accanto a questa, il rifiuto delle politiche di austerità seguite nell’ultimo anno e mezzo, con i loro effetti devastanti su lavoro e redditi. Infine, l’onda lunga di un paese che declina da vent’anni, in cui “nove su dieci” stanno peggio di prima, crescono povertà e frustrazioni, riparte l’emigrazione.
Tuttavia, questa confusa spinta al cambiamento convive – ed è il secondo fatto da spiegare – con un 29% dell’elettorato che resta fedele a Berlusconi e alla Lega, immobile nella difesa dei propri interessi, indifferente a scandali e condanne della magistratura, che in Lombardia riesce a mantenere maggioranza e controllo della Regione, e in Sicilia al Senato ottiene tre volte i seggi del centro sinistra. Si tratta di uno zoccolo duro ancorato a destra, alimentato dal potere mediatico di Berlusconi, che ha come bandiera la cultura dell’individualismo, l’uso privato della politica, la tutela dei privilegi. Un blocco che non è stato insidiato nemmeno dall’apparire sulla scena del progetto liberista “classico” di Mario Monti, fermo all’11%.
Il terzo fatto è l’insuccesso del centro sinistra – e in particolare del Pd – sceso al 30% dei voti. Appesantito dall’appoggio al governo Monti, insidiato dallo scandalo Monte Paschi, Bersani non ha offerto alcuna proposta concreta di cambiamento: come redistribuire reddito, come creare lavoro, come riformare la politica. Il Pd ha inseguito la campagna di Berlusconi e ha occupato le pagine dei giornali a discutere della possibilità di collaborare o meno con Monti dopo il voto. Si è mostrato così parte del vecchio sistema, incapace di recepire le esigenze di cambiamento, ha provocato l’emorragia di voti verso Beppe Grillo: un voto su tre ricevuto dal M5S è di ex elettori del centro sinistra.
Il quarto fenomeno, più profondo, riguarda le modalità con cui il disagio e i conflitti sociali “emergono” nel voto. Non sono stati i movimenti attivi in questi anni – per i diritti del lavoro, contro le spese militari, per l’acqua pubblica e la riconversione ecologica, contro le mafie, etc. – a diventare i veicoli dell’espressione politica della protesta. Le mobilitazioni dal basso non hanno trovato ascolto e rappresentanza nei soggetti politici tradizionali e sono state incapaci di trasformarsi in protagonisti della politica; la ricostruzione dell’esperienza di “Cambiare si può” di Guido Viale sul manifesto del 27 febbraio è significativa di questa difficoltà. Così, alle elezioni il disagio sociale ha preso la strada del M5S, mescolando sfiducia generica nel sistema e alcune proposte specifiche. I temi di cui i movimenti sono portatori hanno trovato ospitalità in un M5S in genere assente nelle mobilitazioni dal basso. Quanti esponenti del M5S hanno partecipato ai sit in e alle manifestazioni contro gli F35? Eppure nella Val Susa della Tav, nella Taranto dell’Ilva e nelle aree di crisi occupazionale più grave il M5S ha ottenuto consensi straordinari. In questo senso, come argomenta l’intervista a Wu Ming sul manifesto del 1 marzo, il successo del M5S è il risultato del fallimento dei movimenti.
Tre cose sono urgenti a questo punto. La prima è affrontare fino in fondo questi quattro fenomeni, tutti insieme. Serve un viaggio collettivo – dei giornali, delle radio, delle organizzazioni sociali, della politica “buona” – alla riscoperta di un paese ferito e disorientato. Si potrebbero convocare cento assemblee, una in ogni provincia, in cui un’alleanza di associazioni, movimenti, media e sindacato dia voce al disagio, lanci inchieste dal basso, si impegni a capire che cosa è successo al voto, che cosa può ricostruire le possibilità di cambiamento.
La seconda urgenza è sui contenuti. Ci sono ormai convergenze importanti sulla riforma della politica e sul rifiuto dell’austerità. Drastico taglio dei costi della politica, riduzione a 500 parlamentari, abolizione del finanziamento pubblico (sostituito dal meccanismo del 5 per mille, come per le onlus, evitando la strada americana di partiti finanziati da grandi imprese e ricchi), democratizzazione del sistema politico (e questo riguarda anche la vita interna del M5S) sono alcuni punti da cui partire. Quanto all’economia, le proposte di Sbilanciamoci! per i primi 100 giorni di governo sono un utile promemoria: meno armi e più scuole; dai soldi sporchi, lavori verdi; un fisco contro le disuguaglianze; il lavoro da tutelare, cancellando le “riforme” Berlusconi-Monti; cittadinanza per chi nasce da noi (www.sbilanciamoci.info/Sezioni/alter/Le-cose-da-fare-nei-primi-cento-giorni-16334). E poi il reddito di cittadinanza, un piano per creare posti di lavoro stabili, allentare i vincoli europei alle politiche economiche, cambiare la qualità dello sviluppo, avviare mille “piccole opere” e la riconversione ecologica. Perché i parlamentari di Pd, Sel e M5S non dovrebbero trovare un accordo su queste proposte?
La terza urgenza, fondamentale, è quella sul governo. Non ci sono alternative a un accordo di sostanza – le forme parlamentari adeguate si potranno trovare – tra centro sinistra e M5S che porti a un governo radicalmente nuovo, con personalità credibili, fuori dalla vecchia politica, un governo capace di realizzare queste misure di emergenza in un contesto istituzionale complicato e in un quadro economico disastroso. E serve un nuovo Presidente della Repubblica che sia il simbolo di una politica che torni a essere vicina ai cittadini.
Senza questo esito, c’è solo un paese che sprofonda nella crisi. La “grande coalizione” Pd-Pdl, una riedizione del governo Monti, o il boicottaggio da parte del M5S delle possibilità di formare un governo avrebbero tutti l’effetto di aggravare la sfiducia nella politica, frammentare la società, allontanare i cittadini. La recessione del 2013 è già con noi, le imprese chiudono, la disoccupazione è senza precedenti, i salari sono a terra, la sofferenza sociale dilaga, la speculazione della finanza potrebbe travolgere l’economia del paese. Per trovare la via d’uscita serve la politica. Una politica che non abbia paura di cambiare.