Non esistono vincoli oggettivi nella definizione delle politiche economiche al tempo della crisi. Chi si oppone all’austerità non è necessariamente anti-europeo, e far passare le misure di austerità come una necessità oggettiva di buona politica è la vittoria di un blocco egemonico. Un volume apre il dibattito
«Poiché le politiche alternative hanno conseguenze diverse su gruppi diversi, sta al processo politico – e non ai burocrati internazionali – valutare le diverse possibilità e compiere le scelte più giuste».
Questa frase lapidaria di Joseph Stiglitz (La globalizzazione e i suoi oppositori) offre, nella sua sintetica semplicità, non solo una prima indicazione circa le ragioni dell’iniziativa Politiche nella crisi, ma soprattutto una serie di spunti attorno ai quali articolare le riflessioni che qui ci proponiamo di condurre. Il primo e fondamentale riferimento è alla pluralità di politiche, alla pluralità delle scelte dell’attore di governo […] che, da protagonista, prende decisioni a partire da uno spettro di alternative possibili. Di fronte a vincoli presentati come oggettivi – e tanto più apparentemente stringenti quanto più la lunga crisi del mondo occidentale si approfondisce – nel dibattito pubblico si ha così spesso l’impressione che la strada da percorrere sia obbligata, non ci siano alternative. […] Il governo nazionale appare imbrigliato da forze oggettive incontrollabili, immodificabili, in una parola sovrane, che sembrano impedirne qualsiasi autonomia di scelta: così quando non è ‘il debito pubblico’ a imporre l’agenda politica, entrano in gioco ‘i mercati’; a volte «è l’Europa che ce lo chiede»; se poi ci si rende conto che l’Europa in realtà siamo anche noi, e con un ruolo tutt’altro che secondario, che margine di scelta può rimanere, tuttavia, di fronte alla ‘globalizzazione’? Certamente nessuno, così si dice. A noi invece così non sembra, e così non sembrava quando abbiamo iniziato a pensare alla realizzazione del Convegno. […]Se rompere, o comunque allargare i vincoli, consente quindi di far spazio ad alternative, conduce d’altra parte a sciogliere i legami che sembrerebbero imbrigliare i policy makers: questi si rivelano attori attivi, soggetti dotati di volontà propria, e tra essi spiccano certo gli attori pubblici, di governo. Così già è emerso un altro degli spunti offerti dalla frase citata in principio. Ed è uno spunto che si ritrova anche nelle tesi (o ‘tweet’) 15 e 20 di Bellofiore: dimentichiamoci il laissez-faire e rendiamoci conto che l’attore pubblico sceglie politiche, attua politiche, è attivo e protagonista. E le differenti politiche, riprendendo Stiglitz, «hanno conseguenze diverse su gruppi diversi». Quindi in primo luogo hanno un potere effettivo,colgono nel segno, incidono sugli elementi dello spazio politico di riferimento e sullo spazio stesso, sull’ambiente e sui dati strutturali di questo. E come incidono? Con conseguenze diverse sugli interessi diversi dei vari gruppi che compongono la società. […] Una volta riconosciuto questo elemento, della pluralità delle alternative con effetti diversi su classi sociali diverse, quasi di necessità arriva il corollario della centralità del processo politico. Il processo politico è per definizione l’arena dove si confrontano interessi contrapposti, finché, per mezzo di mediazione, di imposizione, ecc., in generale, attraverso un procedimento dialettico, non emerge l’indirizzo della collettività, che necessariamente avrà effetti più o meno favorevoli per i vari interessi in gioco. E se semplificare all’eccesso i termini dell’agone, facendo leva sulla – famosa – ‘pancia’ dell’uomo, che si trova a essere poi cittadino ed elettore, con finalità di assonanza quantomeno dubbia con le facili promesse offerte, si riassume in un pericoloso atteggiamento demagogico, altrettanto deleteria per il funzionamento di istituzioni che vorrebbero essere democratiche è la sistematica sottrazione di temi e di processi decisionali al processo politico, con il conseguente affidamento a organi non responsabili democraticamente. E, si potrebbe aggiungere, altrettanto volgare e spudorata, altrettanto riconducibile al quadro di una deriva autoritaria, come puntualizza Gallino nel suo intervento raccolto nel presente volume, nel quale propone un capitolo del suo libro che proprio nei giorni del Convegno stava arrivando nelle librerie con l’eloquente titolo di Il colpo di Stato di banche e governi: l’attacco alla democrazia in Europa. […] Lì si parla di «colpo di Stato a rate» operato dalle istituzioni europee con il beneplacito dei governi nazionali attraverso il sistematico ricorso all’autoritarismo emergenziale. Quest’ultimo è un concetto – oltre che una prassi ormai saldamente consolidata – che colpisce per la sua appropriatezza nell’interpretazione della storia recente degli ultimi anni di integrazione europea e di gestione della crisi scoppiata nel 2007. Ma vi si nasconde qualcosa di ben più preoccupante. […] In breve l’autoritarismo emergenziale non è un accidente, bensì naturalmente conseguente dalla sottrazione ‘costituzionale’ […], istituzionale, della dialettica politica dal processo di integrazione europea: in particolare dal Trattato di Maastricht in avanti, l’attività di governo sempre di più viene accentrata per trattato in organi tecnici, amministrativi, ‘indipendenti’ (Commissione, BCE, ecc.), privi di controllo democratico. […] Il politico e politicamente naturale confronto-scontro tra interessi divergenti, contrapposti, conflittuali, a volte mutualmente escludenti, viene neutralizzato, escluso dalla ‘democrazia’ europea per ‘costituzione’, neutralizzato, spento perché gestito ‘tecnicamente’ da organi suppostamente super partes. Ma i conflitti per questo non spariscono! Gli interessi rimangono divergenti, i ‘gruppi diversi’ di Stiglitz continuano a esserci, le politiche seguono a essere alternative tra loro, e ad avere conseguenze diverse. La questione è che la scelta di tali politiche sfugge al processo politico e viene affidata – per continuare con Stiglitz, in un’espressione che non ci piace particolarmente, ma sicuramente evocativa – a ‘burocrati internazionali’. Amministratori, tecnici dunque, che devono applicare nel modo migliore le politiche migliori, quelle giuste; è in sé evidente quali siano le politiche giuste, troppi sono i vincoli oggettivi che impediscono qualsivoglia margine di scelta. Inoltre, come se non bastasse, la matematica, il formalismo del modello sono lì a certificare: questo è giusto, si può fare, rispetta gli assunti del modello; questo è sbagliato, non si può fare, va contro le premesse imposte al modello, sostanzialmente non esiste, è più che irrealistico, quasi irreale. E in un attimo l’economia da scienza storico-sociale è trasformata in scienza esatta, le politiche economiche come risultato di equazioni, caratterizzate quindi da validità unica e inconfutabile. Alla radice dell’iniziativa Politiche nella crisi stava proprio un ‘malessere’ riguardo a questa serie di conclusioni aprioristiche, purtroppo ormai e sempre di più alla base anche dell’insegnamento universitario delle facoltà di economia nostrane. […] Gli studiosi intervenuti quindi, per quanto appartenenti – seguendo Bellofiore – a eterodossie differenti, si ritrovano accomunati da simili presupposti di metodo, presupposti che inducono ognuno di loro a sottolineare il momento della scelta. Collettivamente ci hanno dimostrato – ed è in fondo quello che andavamo cercando – come impiegare metodi diversi da quello imperversante nelle istituzioni e nell’accademia europee innanzi tutto è possibile e fruttuoso; conduce inoltre a evidenziare come ci siano possibilità varie, come le politiche vengano scelte, non siano imposte da vincoli oggettivi, in una parola: si sarebbe potuto e si potrebbe agire diversamente, non per – si badi bene – mettere in atto politiche più giuste o più buone, ma politiche che avrebbero tutelato interessi diversi, avrebbero, insomma, avuto conseguenze diverse su gruppi diversi. […] Al proposito è innegabile che il sentimento prevalente tra gli uditori fosse la frustrazione di fronte al senso di impotenza caratteristico di chi vorrebbe promuovere politiche alternative rispetto a quelle che hanno governato la crisi mondiale, europea e italiana. […] La fine dell’UnioneSovietica sembra decretare il definitivo trionfo liberale: se finisce la storia, come vorrebbero gli araldi del nuovo corso, finisce la dialettica. Così arriva Maastricht, parto del nuovo corso, che non a caso sembra puntare a sottrarre il governo della cosa pubblica alla dialettica politica per delegarlo a organi ‘tecnici’ e ‘indipendenti’ non responsabili democraticamente; gli anni ’90 sono perciò anni di privatizzazioni, di ritiro dello Stato, di fine della politica industriale. Nel decennio successivo si intensifica lo smantellamento del welfare state e la lotta di classe dopo la lotta di classe […] sembra decretare un vincitore, che vince anche per abbandono dell’avversario: è una lotta condotta infatti, come evidenzia Gallino, ormai esclusivamente dall’alto verso il basso. Di fronte a tutto ciò […] parlare di crisi economica è estremamente riduttivo, ci troviamo a riconoscere al termine dei seminari. Molteplici sono infatti le sfere coinvolte, e quando accenniamo a un complesso movimento ideologico intendiamo proprio questo: si tratta di qualcosa di profondamente culturale, insito nei rapporti sociali e capace di ridefinire le categorie di pensiero individuali. Solo in un tale contesto poteva prendere corpo un sistema produttivo che Fumagalli ha presentato al Convegno, con una interpretazione tanto interessante e originale quanto controversa e foriera di stimolanti spunti di discussione, come invasivo della dimensione più personale dell’individuo: la vita determinata – assorbita – dalle esigenze della produzione secondo i dettami del bio-capitalismo cognitivo. Ma in questa introduzione non scenderemo più a fondo. […]In uno dei testi studiati nel corso dei seminari si legge […]: «la verità è che Marchionne non è né buono né cattivo: egli è solo un’equazione, è una mera funzione del meccanismo di riproduzione del capitale. Finché a un manager viene concesso, questi minaccerà sempre di effettuare investimenti lì dove le opportunità di sfruttamento del lavoro e i relativi profitti sono maggiori». (Brancaccio, Passarella 2012, p. 109) Persino il titolo dell’opera da cui la citazione è tratta fornisce alcune indicazioni con le quali ci pare opportuno concludere questa introduzione: L’austerità è di destra – E sta distruggendo l’Europa. L’austerità era in effetti «l’elefante nella stanza», lo spettro che si aggirava in queste righe, e che ha accompagnato l’iniziativa di Politiche nella crisi fin dal suo stadio embrionale e di riflessione preliminare. […] L’austerità non è né una politica giusta (o sbagliata, ça va sans dire), né un male necessario, che a pensarci bene sono due facce della stessa medaglia. È una politica che senza timore possiamo definire di destra, se con questo si intende una politica, scelta tra un ventaglio di alternative, che intende tutelare gli interessi di alcuni gruppi sociali a discapito di altri, essendo tali gruppi quelli tradizionalmente difesi dalla destra. E, aggiungiamo, non è una politica europea e europeista; chi si oppone all’austerità non è necessariamente anti-europeo, bensì critico nei confronti dell’attuale blocco politico-culturale e socio-economico che è in grado di determinare le politiche pubbliche dell’Unione Europea, critica che può essere mossa da posizioni sinceramente europeiste. Proprio far passare le misure di austerità come una necessità oggettiva di buona politica per un generico bene dell’Europa è un’altra vittoria di tale blocco egemonico. Ma, ci mettono in guardia Brancaccio e Passarella nel sottotitolo, considerando gli effetti che queste stanno avendo, e la conseguente insofferenza popolare, la stretta identificazione tra bene dell’Europa e austerità potrebbe rivelarsi una vittoria di Pirro, capace in ultima analisi di condurre alla distruzione dell’Unione Europea stessa.
Il testo pubblicato costituisce l’introduzione al volume collettivo Politiche nella crisi. Interpretazione della crisi e prassi politica. Atti del Convegno (Pavia, 14-15 novembre 2013) a cura di Andrea Califano, Giulia Pinotti, Pavia University Press, 2014