Sulla produttività che non cresce – e sulle politiche necessarie – occorre chiarire molti equivoci, ripartendo dai concetti di base dell’economia e dalle analisi di Paolo Sylos Labini
Nel dibattito pre-elettorale si parla molto di produttività e della necessità di aumentarla per uscire dalla crisi e innescare la crescita. Non credo però che a tutti sia chiaro quali siano le condizioni e i meccanismi della crescita della produttività e dei suo effetti sul sistema economico. In queste brevi note riprendo in estrema sintesi alcune idee sviluppate da Paolo Sylos Labini e che mi sembra riescano ancora in grado di affrontare, sia teoricamente che empiricamente, meglio e in modo più efficace questi temi.
Innanzitutto si deve premettere che si parla di produttività del lavoro: infatti i concetti di produttività del capitale o produttività totale, anche se ancora utilizzati, non hanno nessun senso teorico. Parliamo quindi del rapporto omogeneo fra produzione e input di lavoro. Inoltre va specificato che si parla di produttività dal punto di vista puramente tecnologico, senza cioè prendere in considerazione che cosa si produce e quali effetti esterni, sociali ed ecologici abbia il processo produttivo. Infatti in tal caso si dovrebbe parlare di produttività sociale e non semplicemente di produttività del lavoro.
La produttività del lavoro, come ricordato, è un rapporto e in quanto tale le sue variazioni nel tempo sono legate al confronto fra la dinamica del numeratore (la produzione) e il denominatore (l’input di lavoro). Avere come obiettivo l’aumento della dinamica della produttività significa ipotizzare quando e come le variazioni della produzione siano superiori a quelle dell’input di lavoro. Va quindi scartata l’idea che si possa modificare la dinamica della produttività attraverso interventi una tantum sull’utilizzo del lavoro (aumento orario, turni, diminuzione pause, ecc.). Quello che si ottiene da tali modifiche, in caso di successo, è quello di spostare in alto il livello della produttività, senza aumentarne la dinamica temporale, ma anzi in molti casi diminuirla addirittura.
Negli scritti di Sylos Labini si affronta questo problema rifacendosi agli economisti classici Adam Smith, David Ricardo e (aggiunto da me) Karl Marx. Si parte da Smith che analizza le cause dell’enorme aumento di produttività avvenuto nella produzione industriale dell’epoca da lui analizzata. Per Smith la base di tale aumento è nella possibilità di divisione del lavoro possibile attraverso l’allargamento e concentrazione del processo produttivo. Questo fenomeno che è noto come “economia di scala”, può essere applicato alla moderna situazione produttiva? Secondo Sylos Labini in due modi, nel breve periodo semplicemente attraverso l’aumento di produzione: ogni aumento di produzione all’interno di un processo produttivo porta a un aumento di produttività sia perché all’interno di ogni processo produttivo c’è una parte, spesso consistente, di input di lavoro fisso, cioè comunque necessario indipendentemente dal livello di produzione, sia perché una produzione più ampia permette una migliore organizzazione del lavoro, un maggiore utilizzo dei macchinari; nel lungo periodo con investimenti che permettano il passaggio a sistemi tecnologici e organizzativi più efficienti. Questo fenomeno è in modo chiarissimo messo in luce dalla dinamica pro-ciclica della produttività che aumenta quando aumenta la produzione (la crescita) e diminuisce se avviene il contrario. Già queste considerazione mettono in luce come è la crescita che sicuramente fa aumentare la produttività, mentre il fatto che sia l’aumento della produttività a favorire la crescita implica ipotesi molto più complesse e difficilmente realizzate.
Passiamo a Ricardo, vivendo in un periodo nel quale i grossi processi di concentrazione erano già avvenuti, la sua attenzione si concentra di più sul cambiamento tecnologico del processo produttivo, causato sia dalla stessa nuova organizzazione del lavoro (la divisione del lavoro necessita di macchinari adeguati) sia dalla stessa concentrazione dei processi produttivi. Il meccanismo di introduzione di macchinari viene descritto essenzialmente con la convenienza di usare macchinari che, a parità di input di lavoro, producano di più. Questo naturalmente ha un immediato effetto di aumento della produttività, che però avviene soltanto se questo cambiamento comporta un abbassamento del costo per unità di prodotto, quindi è essenzialmente un calcolo di convenienza nell’uso di lavoratori o di macchinari. Per Sylos Labini questo processo può essere empiricamente catturato attraverso il confronto fra dinamica salariale e prezzo dei macchinari.
Infine Marx. Per introdurre le argomentazioni di Marx va premesso che i capitalisti, gli imprenditori, i manager ecc. sono quantomeno molto prudenti nell’innovare il processo produttivo. Infatti ogni innovazione è vista come mutamento con effetti sconosciuti, con costi iniziali sicuri e profitti incerti. Soltanto ex-post si potrà verificare se l’innovazione ha provocato gli effetti desiderati. E allora perché innovare? È molto semplice, si innova quando l’incertezza degli effetti dell’innovazione è inferiore alla previsione dei danni che si pensa si abbiano nel non innovare. Cioè si innova quando si è costretti, quando l’aspettativa dei ricavi attesi sia superiore ai costi sicuri.
Ci sono in Marx parti particolarmente interessanti di analisi su come ciò che più ha portato i cambiamenti tecnologici siano state le lotte operaie salariali e normative, ad esempio come la normativa contro il lavoro minorile all’interno delle miniere, avversata e considerata come una tragedia dalle società minerarie, abbia portato all’uso della trazione a vapore. Questo processo, per Marx, è connaturato al funzionamento del sistema capitalistico, anzi ne rappresenta la forza: quella di doversi e sapersi adattare ai crescenti conflitti fra lavoro e capitale. È questo il vero meccanismo di concorrenza, che invece, se fatta esclusivamente sui prezzi, porterebbe probabilmente a fenomeni di collusione e quindi di stasi. Sono le diverse condizioni dei conflitti tra capitale e lavoro all’interno delle imprese, dei settori e dei paesi quelle che maggiormente spingono le imprese a innovare, pena la scarsa crescita, la diminuzione o azzeramento del profitto o pena la stessa sopravvivenza dell’impresa del settore e, in casi estremi, del paese. Quindi le dinamiche salariali, oltre a rappresentare un aumento di domanda, sono anche una spinta a innovare per contenerne l’effetto di aumento dei costi.
Sylos Labini ha cercato con successo di individuare variabili osservabili e misurabili e così di verificare empiricamente le sue ipotesi teoriche. Per chi fosse interessato, le stime della funzione della variazione di produttività ideata da Sylos Labini sono qui pubblicate:
Guarini, G. (2007), La funzione di produttività di Sylos Labini tra mercato e territorio: un’analisi econometrica per le regioni italiane, in Moneta e credito n. 238
L’apertura dei mercati e la liberalizzazione del movimento di capitali negli ultimi tempi ha introdotto, da una parte uno stimolo a innovare costituito dalla concorrenza internazionale, dall’altra l’opzione della delocalizzazione in aree o paesi nei quali sia possibile mantenere basso il costo di produzione senza innovare.
Dal punto di vista dell’analisi della produttività, l’apertura dei mercati può essere analizzata da due punti di vista: il primo, quello alla base delle politiche correnti nel nostro paese, vede la possibilità di aumento di domanda e quindi di produzione, rendendo le nostre merci più appetibili attraverso l’abbassamento del costo del lavoro tramite una moderazione salariale e normativa e solo in subordine tramite investimenti in tecnologie più avanzate. Ho forti dubbi che di per sé questa impostazione di politica economica possa avere effetti importanti sull’allargamento della domanda e sull’aumento della produttività. Veniamo quindi al secondo aspetto: come detto precedentemente, la moderazione salariale e l’aumento di produttività attraverso l’intensificazione del lavoro ha possibilità molto limitate di avere effetti di lungo periodo sull’efficienza del processo produttivo. Quindi il problema della concorrenza internazionale è che bisogna avere ritmi elevati di aumento di produttività, ritmi che si possono ottenere solo facendo investimenti innovativi, ricadendo quindi nei meccanismi delle decisioni di investimento delle imprese. Dal punto di vista della dinamica della produttività, la concorrenza internazionale costituisce senza dubbio uno stimolo a innovare, che si combina con quello principale proveniente dalle rivendicazioni salariali e normative.
Diverso è il problema della possibilità di delocalizzare il processo produttivo. Di questo problema sono convinto che ben poco si possa fare per arginarlo: ci saranno sempre luoghi e paesi nei quali le relazioni salariali e normative sono meno costose rispetto all’Italia. Unico strumento, complesso ma determinante, è quello del miglioramento delle situazioni di economie esterne alla fabbrica, il che comporta interventi sull’organizzazione delle burocrazia, della giustizia, dei servizi alle imprese e alle persone, ecc. Cioè un miglioramento della produttività aziendale attraverso un miglioramento della produttività sociale, solamente in questo campo si può avere la possibilità di essere competitivi nei confronti dei paesi a bassi costi di produzione. Comunque dal punto di vista della produttività, i processi di delocalizzazione hanno probabilmente un effetto di aumento della produttività media in Italia nella probabile ipotesi che siano le imprese meno efficienti e competitive a preferire la delocalizzazione (credo che la Fiat ne rappresenti un esempio).
Alla luce di queste considerazioni penso che la discussione corrente sul tema del calo di produttività in Italia sia teoricamente limitata e debba essere modificata completamente, anche riprendendo gli studi di Sylos Labini.
In conclusione, mi sembra che gli aspetti più rilevanti di questa impostazione siano:
1) La crescita della produttività è un effetto della crescita, difficilmente e soltanto in misura molto minore, attraverso l’aumento di competitività estera, ne può essere la causa. Ne consegue che uno stimolo della domanda, anche attraverso politiche di spesa pubblica, è una condizione necessaria per una crescita della produttività.
2) I conflitti di fabbrica, salariali e normativi, spingono e costringono nel lungo periodo a introdurre mutamenti nell’organizzazione del lavoro e nella tecnologia che aumentano la produttività.
3) Le interpretazioni che vedono nell’aumento dell’intensità del lavoro, delle ore lavorate e di normative meno garantiste la possibilità di aumento della produttività sono quantomeno limitate se non drasticamente sbagliate.
4) Una interpretazione attendibile vede una delle cause della scarsa dinamica della produttività in Italia, nella moderazione salariale e di conflittualità sindacale degli ultimi decenni, cioè esattamente il contrario di quello che correntemente si legge.
5) L’ipotesi di eliminare la contrattazione centralizzata e legare la dinamica salariale ad accordi aziendali, legando tendenzialmente la dinamica salariale a quella della produttività interna, avrebbe un effetto immediato di abbassamento del costo del lavoro nelle imprese meno efficienti, ma un effetto depressivo, di “impigrimento” delle aziende, nella spinta a innovare e quindi sui ritmi di aumento della produttività attraverso innovazione e nuovi investimenti.