Politiche industriali e innovazione: l’Italia ai margini per colpa della specializzazione. Una lettura dei dati sulla produttività dell’Istat e di quelli dell’Ocse
Se il vertice di Copenhagen non si è chiuso con i risultati attesi, i problemi tecnologici e di specializzazione produttiva per affrontare i temi che attengono l’ambiente e l’energia rimangono dirimenti. Per quanto assurdo possa apparire, in qualche modo alcune aree economiche sembrano più avanti della politica. Ciò non dovrebbe sorprendere. Il prezzo delle materie prime, appena si declinerà una via di uscita dalla crisi, inevitabilmente tenderà a salire e condizionerà qualsiasi Paese: la Cina, la Germania, tutta l’Europa tutta al netto dell’Italia, è particolarmente sensibile. Infatti, la crescita dei brevetti “ambientali” è il doppia rispetto a quelli non ambientali, rispettivamente 20% e 10%. Questi brevetti “rappresentano” la potenziale produzione futura che dovrebbe soddisfare la domanda attesa, anche quella di risparmiare sui costi. Infatti, più di tanto il costo del lavoro non può essere contenuto, mentre quello delle materie prime ha maggiori spazi di agibilità. Ciò spiega perché molte società iniziano a brevettare ciò che sarà prodotto per il mercato. Il problema vero è il posizionamento dell’Italia (vedi scoreboard 2009 Ocse). L’Italia si trova molto al di sotto dei paesi con cui dovremmo competere. Per esempio, la Cina ci supera in brevetti per l’energia rinnovabile. Per non parlare dell’Europa che ha fatto realmente scelte strategiche sul tema, tanto da rappresentare il 40% della brevettazione in campo dell’energia rinnovabile.
Ma le implicazioni “industriali” del vertice di Copenhagen, soprattutto per l’Italia, sono significative. Mario Pianta in un articolo su questo sito descrive con accuratezza i vincoli di produttività e di tecnologia dell’Italia. Occorre partire da queste riflessioni per delineare un progetto.
Riprendiamo nel dettaglio gli studi analizzati da Pianta: la produttività del lavoro dell’Italia dal 1985 ai nostri giorni (Istat), lo scoreboard 2009 dell’Ocse (Science, technology and industry). Molte delle informazioni contenute nei due rapporti confermano molte delle tesi interpretative del tessuto produttivo italiano, ma all’interno troviamo dei dati che dovrebbero far riflettere i policy makers.
Il rapporto Ocse informa che solo il 40% della ricerca e sviluppo è finanziato dalle imprese italiane, contro una media del 53% dei paesi di area ocse. Inoltre, il livello dei venture capital (capitali di rischio) è tra i più bassi a livello ocse. In qualche modo la dimensione della spesa in ricerca e sviluppo delle imprese italiane è coerente con la propria specializzazione produttiva. Se produci cravatte non hai bisogno di laboratori di ricerca. Non deve quindi sorprendere che tra il 2005-2007 l’Italia ha avuto il numero più basso di brevetti per abitante (13 brevetti per milione di abitanti). Nonostante questa evidente distanza dai paesi Ocse, gli aiuti dello stato per le attività di ricerca e sviluppo delle aziende sono superiori alla media di questi paesi. Da un lato abbiamo un tessuto produttivo marginale rispetto al consesso internazionale, dall’altro si affida proprio a queste imprese lo sviluppo della ricerca. Una contraddizione che prima o poi deve trovare una soluzione. Magari rafforzando la ricerca pubblica.
L’analisi dell’Istat, invece, misura la produttività delle imprese nazionali. Si conferma la differente produttività del sistema economico nazionale rispetto all’area euro, ovvero meno 7 punti percentuali e meno 20 punti rispetto agli Stati Uniti. Ma l’informazione più delicata è legata alla tempistica della caduta della produttività nazionale. Infatti, tra il 1985 e il 1995 la produttività dell’Italia è allineata alla media dei paesi di area Ocse: tra il 1985 e il 1995 la produttività è pari a 2,2% medio, riconducibile alla dinamica positiva del valore aggiunto (2% annuo) e alla riduzione delle ore lavorate (-0,2%); dal 1995 al 2008, invece, si acuisce la distanza dai paesi ocse perché aumentano le ore lavorate dell’1%, mentre cresce di poco il valore aggiunto medio (1,4% medio), con una produttività che fatica raggiunge lo 0,4%, che diventa 0,2% se prendiamo in esame il periodo 2005-8. Inoltre, il contributo del capitale alla produttività, nonostante l’alta propensione agli investimenti fissi lordi, in linea con tutti gli euro paesi, è diventato modesto e persino negativo per il settore ICT.
In effetti il 1995 segna l’inizio di un nuovo paradigma tecnologico, confermato dal fatto che la quota di prodotti ad alta tecnologia sul commercio internazionale passa dal 15% al 35% di questi ultimi anni. Sostanzialmente nel 1995 si ristruttura il sistema produttivo internazionale a tutto vantaggio dei settori emergenti ad alto valore aggiunto e di conoscenza, mentre l’Italia ristruttura solo dal lato dei costi. Un errore strategico che inibisce molte politiche industriali diverse da quelle dell’intervento pubblico diretto nella produzione. Una scelta di struttura che occorre intraprendere.