Da Rai Way ad Ansaldo è ripartita la corsa alle privatizzazioni. E c’è da sperare che i guasti al nostro sistema industriale siano inferiori a quelli dell’ondata di privatizzazioni precedenti
Due tra le principali cause all’origine della lunga crisi economica italiana fanno riferimento ad alcune decisioni portate avanti dai governi di centro-sinistra negli anni novanta. Da allora in poi, in buona parte, sia pure con qualche oscillazione, è andato male l’andamento del pil, degli investimenti, della produttività, delle spese in ricerca e sviluppo.
Tra queste decisioni ricordiamo, da una parte, il nuovo approccio ai temi del lavoro, prima con gli accordi di “concertazione” governo-imprese-sindacati, poi con la legge Treu del 1997, che inaugura la stagione del lavoro flessibile; dall’altra, l’avvio dei processi di privatizzazione.
Il primo tipo di provvedimenti ha portato ad un aumento rilevante dei profitti delle imprese, che non sono però stati usati, come era necessario, per ammodernare l’apparato industriale del paese, ma invece per gonfiare gli impieghi speculativo-finanziari e alimentare il trasporto del denaro, almeno in parte, al di là delle Alpi. Si è aperta parallelamente la via al precariato.
Per quanto riguarda il secondo tipo di decisioni, va ricordato che le imprese pubbliche, con tutti i loro difetti, facevano investimenti, garantivano di frequente un’occupazione qualificata, spendevano in ricerca e sviluppo, contribuendo a sostenere il paese. Una volta privatizzate tutto questo è venuto sostanzialmente e in larga misura a cessare.
Le liquidità rilevanti ottenute dalla vendita delle imprese sono quasi immediatamente scomparse nelle voragini della spesa pubblica improduttiva dei governi che si sono succeduti al comando, a partire da quelli Berlusconi-Tremonti. Inoltre le cessioni hanno in alcuni casi contribuito a creare degli oligopoli privati – si pensi alle autostrade, che dal momento della privatizzazione in poi hanno visto aumentare a dismisura i pedaggi –, in altri hanno dato luogo ad operazioni politiche distruttive – si ricordi il caso Alitalia – ed in altri ancora, come nell’esempio di Telecom Italia, ad un affossamento delle prospettive di sviluppo aziendale.
Mentre per il lavoro da allora in poi è stata tutta una sequenza ulteriore di provvedimenti – con il job-act ultimo e decisivo passo in materia –, che hanno contribuito ad affossare le prospettive dell’occupazione, per le privatizzazioni si era ad un certo punto smesso di pensarci ulteriormente.
Ma ecco che si ricomincia.
Dopo la cessione, qualche mese fa, di una quota rilevante di Rai Way e quella più recente di Ansaldo Energia e di Ansaldo Trasporti a società asiatiche varie, la notizia di ieri è che si è data mano alla privatizzazione di una quota del 5,7% dell’Enel, mentre sono in pista, a vari stadi di avanzamento, quella del 40% delle Poste e delle Ferrovie.
Per quanto riguarda l’Enel, il Tesoro possedeva il 31,2% della società, mentre adesso, incassando 2,2 miliardi, scenderà al 25,5%. In teoria il governo potrebbe mantenere il controllo del gruppo anche con tale percentuale, anche perché lo statuto dell’azienda prevede che nessun privato possa detenere più del 3%. Ma tale clausola potrebbe essere cambiata, o, comunque, alcuni gruppi di imprenditori si potrebbero coalizzare per cercare di prendere il comando.
Intanto si sta lavorando alacremente sulle Poste, società che dovrebbe essere quotata in borsa fra qualche mese e di cui dovrebbe essere ceduto per il momento “solo” il 40% del capitale.
La vendita di una quota di capitale di entità percentuale simile per le Ferrovie è invece per l’anno prossimo.
In complesso, il nostro amabile governo si è impegnato a vendere con l’obiettivo di incassare 10 miliardi all’anno tra oggi e il 2017. Naturalmente il traguardo non sarà interamente raggiunto, ma speriamo comunque che i guasti che si faranno al nostro sistema industriale e finanziario siano inferiori a quelli dell’ondata di privatizzazioni precedenti. Sul fronte finanziario i proventi Enel magari serviranno a fare la guerra alla Libia, azione di cui tutti sentiamo il bisogno, o magari a comprare gli indispensabili F-35. Chissà. Che servano invece, come ufficialmente dichiarato, a ridurre il debito pubblico, pari oggi a più di 2100 miliardi di euro, appare in ogni caso poco plausibile.