Rivalutare le quote delle banche private, così come previsto dal decreto Bankitalia, significa sottrarre al Tesoro parte di questi introiti di natura pubblica. Siamo in presenza di un processo di privatizzazione del signoraggio che, a danno della collettività, avvantaggia alcuni privati
In un lucido fondo su Affari&Finanza di lunedì 3 febbraio, Massimo Giannini elenca i punti che i “grillini” hanno frainteso (veramente parla di “falsificazione”) nella loro opposizione al “decreto Bankitalia”. Per dimostrare che non vi è stato “un altro regalo alle banche” (in linea con quanto affermato dal Ministero del Tesoro e commentato su questo sito da Andrea Baranes http://www.sbilanciamoci.info/Sezioni/capitali/Bankitalia-una-toppa-peggiore-del-buco-22000) Giannini sostiene che la Banca d’Italia è, e rimane, un istituto di diritto pubblico e che non potrà mai essere privatizzata; che le quote di capitale possono appartenere solo a banche nazionali; che l’aumento di capitale (da 156.000 euro a 7,5 miliardi) è una semplice rivalutazione delle quote già esistenti nel bilancio di (alcune) banche nazionali: “nessuno sborsa un euro, né Via Nazionale, né il Tesoro” ed è quindi solo un “vantaggio virtuale”. Ma questo è vero? Non manca ancora un tassello alle considerazioni fin qui ineccepibili del vicedirettore de La Repubblica?
Perché le quote di capitale (nelle mani delle banche) abbiano un valore reale, tanto da poter essere alienate come previsto se superano la quota del 3%, esse devono fornire un rendimento. È proprio su questo rendimento atteso che Giannini si dimentica di renderci edotti. Senza farla troppo lunga, rivalutare il valore delle quote di partecipazione delle banche in Bankitalia significa anche rivalutare il loro reddito in occasione della distribuzione annuale degli utili. Se, nel 2012, le banche partecipanti hanno ricevuto tra dividenti e loro integrazione, poco più di 15.000 euro, sostanzialmente il 10% del valore capitale delle loro quote, quali saranno gli utili che verranno stornati alle banche partecipanti quando il valore delle loro quote è stato rivalutato a 7 miliardi e mezzo di euro? Se si assume un tasso del 4%, le banche private otterranno d’ora in poi 400 milioni di euro all’anno. Si può considerare questo un “vantaggio (solo) virtuale”?
Ma per giustificare una tale decisione occorre farsi alcune domande. Ad esempio, quale apporto hanno dato le banche private al capitale della banca centrale per garantirsi una rendita sicura vita natural durante? Direi nulla; come giustamente precisa Giannini: si tratta di una semplice colpo di penna, una rivalutazione che si dice inevitabile per aggiornare dati storici ormai altamente svalutati ma non si dice che la rivalutazione contabile di quote di capitale relative a una realtà bancaria storica priva di alcun legame con la situazione odierna, non ha alcun fondamento economico: è la brutale concessione di una ingiustificata situazione di rendita per quelle banche. Non mi si risponda che quelle banche saranno in prospettiva costrette a vendere parte di queste quote (che eccedano il 3%) poiché, da un lato, i ricavi che così otterrebbero non ci sarebbero in assenza di questa posizione di rendita e, dall’altro lato, sempreché il settore pubblico non sia costretto a riacquistare parte di queste quote (indebitandosi per riavere ciò che era suo), le quote che rimangono in mani private saranno comunque remunerate a carico degli utili della Banca d’Italia.
E questo solleva un’ulteriore perplessità. Da dove provengono gli utili della Banca d’Italia? In estrema sintesi, essi rappresentano il “signoraggio” dovuto all’emissione della moneta cartacea. Il signoraggio, come noto, esprime il valore del conio apposto dal Signore sulla moneta circolante che eccede il valore intrinseco della moneta-merce e che costituiva un’entrata per le finanze pubbliche. In presenza di moneta-carta, il signoraggio è la differenza tra il costo della moneta-carta (quasi-nullo) e il rendimento degli investimenti finanziari (in genere titoli di stato e valuta estera) che forniscono un reddito alla banca centrale. Il reddito dovuto all’emissione monetaria è, comunque la si metta, un reddito della collettività tanto che, nei fatti, gli utili realizzati dalla banca centrale vengono retrocessi al Tesoro (un miliardo e mezzo di euro nel 2012). La rivalutazione pretestuosa delle quote capitale delle banche private in Bankitalia significa sottrarre al Tesoro parte di questo signoraggio: siamo in presenza di un processo di privatizzazione del signoraggio che, di pertinenza collettiva, avvantaggia (alcuni) privati.
Se le mie considerazioni sono corrette, con questa operazione il Tesoro rinuncia per tutto l’avvenire a parte di questi introiti di natura pubblica e, temo, sia difficile giustificare la correttezza di una tale decisione. Si può certamente dire che l’attuale situazione delle banche è così grave da rendere necessario un intervento straordinario per evitare il dissesto dell’intero sistema. Non vi è dubbio che la situazione appare pesante, ma di fronte a questi pericoli aver accettato questa soluzione solleva almeno due questioni. La prima; se la questione era il salvataggio del sistema bancario (o di alcune delle banche principali), l’operazione avrebbe dovuto essere più trasparente definendo esplicitamente l’apporto, ma anche gli obblighi cui le banche beneficiarie avrebbero dovuto sottostare per garantire una più adeguata gestione dei fondi (penso al credito alle attività produttive). La seconda; se l’operazione aveva il senso di affrontare un problema “congiunturale”, ovvero le difficoltà di (alcune) banche, non ha alcuna logica adottare un intervento che avvantaggia tali banche in un orizzonte indefinito, molto oltre alla data entro la quale si auspica il risanamento dalla situazione creata dalla crisi finanziaria. Sono queste discrepanze tra il problema da affrontare e lo strumento adottato che rende perplessi sulle affermazioni che “non è stato fatto alcun regalo alle banche” o che l’operazione ha creato solo dei “vantaggi virtuali” per le (poche) banche private interessate.