Lo spread di valore aggiunto per addetto sottolinea che l’industria italiana diverge dal target della produzione richiesto dal mercato. Perciò l’Italia non aggancia la ripresa
La minore crescita del Pil nazionale rispetto alla media europea suggerirebbe molta cautela nelle previsioni economiche. È da più di 20 anni che l’Italia non aggancia la “crescita” internazionale. Tutti gli istituti di ricerca concordano sul fatto che il deprezzamento dell’euro e del prezzo del petrolio favoriranno la crescita economica, assieme al quantitative easing (QE) della BCE. Nonostante la vistosa perdita del potenziale produttivo, i margini di capacità inutilizzata sono ancora elevati per cui liberare risorse è una condizione necessaria ma non sufficiente affinché si attivino dei nuovi investimenti. Ciononostante, queste aspettative ottimistiche hanno determinato un cambiamento nelle stime di crescita del Pil europeo del 2015 per molti istituti di ricerca. Tuttavia, tra le previsioni di autunno e quelle invernali della Commissione Europea il Pil per il 2015 passa da 1,1% a solo 1,3%. Nel caso italiano le previsioni autunnali e quelle invernali fanno registrate una minore crescita nel 2014 (da -0,4% a -0,5%), mentre nel 2015 la previsione rimane ferma a +0,6%, facendo crescere lo spread di crescita con l’area euro. Troppi opinion makers nazionali assegnano un peso spropositato al deprezzamento dell’euro e del petrolio, e al QE. Gli effetti di queste misure sono direttamente proporzionali alla capacità di agganciare la domanda aggiuntiva che questi cambiamenti possono determinare. Il fatto che la Commissione Europea non contempli nessuna variazione del Pil nazionale per il 2015 tra autunno e febbraio, è un segnale da non trascurare. Per cogliere la profondità della crisi italiana si può guardare alla divergenza di crescita del Pil italiano rispetto all’area euro a partire dal 1996: si registra una minore crescita sull’intero periodo di 18,7 punti percentuali. Inoltre, anno dopo anno, crisi dopo crisi (1991-92; 2000-01; 2007-2009; 2010-2012), il gap si è ampliato: se a cavallo degli anni 2000 la minore crescita si aggirava attorno allo 0,5%, oggi (2010-14) siamo prossimi all’1,5% medio.
Analizziamo la dinamica della struttura economica del Paese concentrandoci sulla produzione industriale. I dati dell’OCSE sulla produzione industriale, di beni di investimento e intermedi offrono uno scenario sconfortante. La produzione industriale dell’Italia cresce dal 1990 al 2008 del 5%, mentre quella tedesca aumenta del 30% e quella dell’area euro del 23%. Le cose non vanno meglio con la crisi: nel 2009-2013, tutti i Paesi hanno contratto la propria produzione industriale, ma in Italia si registrano valori peggiori alla media (-23%). La Germania è rimasta ferma (+0,1%), anche grazie al controllo che essa sta esercitando sulle filiere produttive di molti Paesi europei, tra cui il nostro.
Un indicatore estremamente importante è la produzione di beni capitali. Essere presenti nel settore significa partecipare alla trasformazione del mercato, perché si domina la filiera della produzione. È proprio qui che troviamo la (migliore) ricerca e sviluppo. Tra il 1990 e il 2013 la Germania aumenta la produzione di beni capitali del 39,6%, mentre per l’area euro la stessa cresce del 23,6%. L’Italia depauperizza proprio la parte nobile della produzione industriale. Tra il 1990 e il 2013 perde quasi il 20% della produzione di beni capitali. Non è tutto. Durante la crisi recente (2009-2013) perde il 26,7%: più di un quarto della produzione ad alto valore aggiunto (nobile) del Paese è stata persa per sempre. Le analisi condotte da Nomisma (Scenari, 11 febbraio 2015), a partire da dati diversi, pervengono alle nostre stesse conclusioni.
Il sole 24 ore del 4 febbraio presenta l’analisi Edison sull’ottima performance del sistema manifatturiero italiano, del Nord Italia in particolare. Sostenere che la manifattura italiana non è inferiore a quella tedesca in termini di valore aggiunto non aiuta a comprendere il problema che ha l’industria italiana. Guardiamo al valore aggiunto per addetto delle principali province europee specializzate nell’industria distinto per soglie (oltre 100.000, tra 80.000 e 100.000, minore di 80.000 euro): le province italiane sopra i 100.000 e tra gli 80.000 e 100.000 euro sono assenti, diversamente da quelle tedesche. Le province tedesche sopra i 100.00 euro sono 5, tra gli 80.000 e 100.000 sono 6. Il risultato cambia quando prendiamo in considerazione un valore aggiunto per addetto al di sotto di 80.000 euro. In questo caso le province tedesche diventano 2, contro le 9 italiane.
Sono più d’uno i fattori che possono spiegare questa divergenza: 1) la specializzazione produttiva del paese e la coerente intensità tecnologica degli investimenti non permette di raggiungere i valori delle province tedesche; 2) l’organizzazione del lavoro e il modello di relazioni industriali non favorisce un efficiente utilizzo delle nuove tecnologie e lo sviluppo delle competenze dei lavoratori; 3) il gap di valore aggiunto, sempre per addetto, tra imprese italiane e tedesche, a parità di settore produttivo, cela un fenomeno di elusione e lavoro sommerso.
Se il Paese, nei due scorsi decenni (1996-2014), ha perso 18,7 punti di Pil rispetto alla media europea, nonostante gli investimenti delle imprese non siano inferiori a quelli dei concorrenti tedeschi, qualcosa di grave è accaduto. Lo spread di valore aggiunto per addetto sottolinea che l’industria italiana diverge dal target della produzione richiesto dal mercato. Se – come crediamo – c’è un grave problema di specializzazione produttiva che affligge l’Italia, allora diffondere l’idea di una Baviera italiana rischia di creare un ottimismo ingiustificato che potrebbe nascondere una tragica amarezza qualora le aspettative venissero deluse dai risultati.
***Sergio Ferrari, Riccardo Leoni, Stefano Lucarelli, Paolo Pini, Roberto Romano.