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Previsioni per il dopo pandemia, orizzonte 2025

Nel 2025 è plausibile che l’economia sarà uscita dall’emergenza. Gli analisti tratteggiano scenari: uno sviluppo ancora più accelerato di tecnologie innovative, mutamenti climatici più devastanti, diseguaglianze accentuate, più intervento dello Stato, più precarizzazione del lavoro.

Alcune previsioni e i loro limiti

L’inizio di un nuovo anno è in generale una buona occasione per provare a fare delle previsioni sulle prospettive future del mondo. Anche questa volta l’esercizio è stato svolto da molti con diligenza, sul fronte economico-sociale e su quello tecnologico. E questa volta ovviamente il compito è influenzato in maniera particolare dallo scoppio della pandemia. 

Naturalmente le previsioni si basano di solito sulle informazioni che si hanno a disposizione in un certo momento e sulla proiezione di tendenze che si pensa di intravedere, ma bisogna considerare che poi delle novità possono irrompere all’improvviso, facendo magari saltare tutto. Le valutazioni sono influenzate, ovviamente, anche dalla visione del mondo, dalle speranze e dalle paure che ciascuno di noi si porta dietro. Tutto questo sottolinea i limiti dell’esercizio, anche se, purtuttavia, è difficile fare a meno delle previsioni. 

Proviamo anche noi a dare qualche indicazione prendendo l’ispirazione da alcune delle considerazioni relative al settore economico-sociale da uno scritto di Martin Wolf, il più noto giornalista del Financial Times (Wolf, 2020), che, anche se non è il solo, individua possibili tendenze sino all’orizzonte 2025. Per quanto riguarda il campo delle tecnologie invece ci rifacciamo, tra i molti previsori, alle considerazioni di Catie Wood, amministratore delegato di Ark Investment Management (Wood, 2020). 

Dai mutamenti climatici a quelli geopolitici

Bisogna ovviamente inserire al primo posto le preoccupazioni per i mutamenti climaticivenute ancora più in evidenza con lo scoppio della pandemia, tanto che negli ultimi mesi la lotta per contrastarli sembra abbia fatto significativi passi avanti nella coscienza dell’opinione pubblica ed in quella di numerosi governi (meno in quella di molte società petrolifere, in particolare Usa e britanniche). 

Si è così assistito di recente agli impegni presi o a quelli probabili venturi dei due maggiori inquinatori del mondo, la Cina e gli Stati Uniti; prima dal presidente cinese, Xi Jiinping, poi dal neo-eletto Joe Biden, che promette un ritorno degli Usa al tavolo di Parigi. Si sono fatti sentire di recente sul tema anche l’Unione Europea, il Giappone, la Corea del Sud, tra gli altri.

Naturalmente i prossimi cinque anni saranno un periodo cruciale per trasformare gli impegni in azioni, impegni che comunque appaiono gravosi da portare avanti, richiedendo forti investimenti e grandi sforzi tecnologici e organizzativi. Intanto i ghiacciai continueranno a sciogliersi e la temperatura media del pianeta continuerà a salire, speriamo moderatamente, nei prossimi cinque anni.

Dall’Occidente all’Oriente  

Possiamo poi sottolineare la tendenza in atto al dislocamento del centro del mondo economico e anche tecnologico dall’Occidente verso l’Asia ed in particolare verso la Cina. 

I dati della Banca Mondiale, utilizzando il criterio della parità dei poteri di acquisto, segnalano che nel 2019 i Paesi emergenti hanno conquistato una fetta del 58% del Pil mondiale, gran parte della quale attribuibile ai Paesi asiatici, mentre la sola Cina ottiene ormai il 18,5% del totale contro il 2% del 1981 e contro il 16% sempre nel 2019 per gli Stati Uniti. E le prospettive per i prossimi anni dovrebbero ancora indicare una crescita del divario. Si può azzardare che nel 2025 la quota del pil mondiale controllata dai Paesi emergenti si collochi almeno intorno ai due terzi del totale.

Appare in particolare evidente, come già accennato, il ruolo egemone esercitato dall’Asia e in particolare, insieme alla Cina, da Corea del Sud, Giappone, Vietnam, Singapore, Taiwan, HK e dintorni. La capacità di tali paesi di controllare efficacemente il covid-19 sembra segnalare anche simbolicamente la loro crescente centralità. 

A questo punto dobbiamo ricordare i presunti processi di decoupling Usa-Cina e più in generale i presunti processi di deglobalizzazione che dovrebbero prendere piede nei prossimi anni. Le ostilità economiche contro la Cina, già avviate con Obama, hanno acquisito nuovo vigore con Trump;  poi sono diventate sempre più pervasive passando dalle tematiche commerciali a quelle tecnologiche e a quelle finanziarie, mentre il virus non ha fatto che esacerbare tale conflitto. Appare plausibile che ciò continuerà con Biden: gli Stati Uniti si rifiutano di accettare il fatto che un altro Paese li possa raggiungere sul piano commerciale, tecnologico, finanziario e alla fine anche superarli. I prossimi cinque anni dovrebbero ancora essere caratterizzati dal persistere e forse anche dall’aggravarsi di tale rivalità.

Nonostante la messa in opera da parte di Trump di dazi anche pesanti su pressoché tutte le merci cinesi, con lo scoppio della pandemia il saldo commerciale degli Usa con la Cina tende persino ad aggravarsi. Gli investimenti esteri verso la Cina non sembrano anch’essi avere subito alcun danno; nel 2020, nonostante la pandemia, essi dovrebbero essere cresciuti di circa il 6,5% rispetto all’anno precedente; c’è semmai qualche mutamento nel mix dei Paesi di origine degli investimenti e nei settori di impiego. 

Sul fronte tecnologico le restrizioni messe in opera da Trump, mentre suscitano qualche problema immediato, nel medio termine sembrano semmai spingere nella direzione di accelerare l’autonomia cinese dagli Stati Uniti. La pandemia non sembra avere portato a grandi mutamenti nelle catene di fornitura: i vantaggi comparati della Cina sono troppo importanti per essere facilmente trascurati. In sintesi, la Cina continua, e plausibilmente continuerà nei prossimi anni, ad essere insieme la fabbrica del mondo e sempre più anche il mercato del mondo.

Più in generale, per i prossimi anni la tendenza ad un processo di deglobalizzazione, pur corrispondendo ad una certa realtà in atto, appare largamente sopravalutata. Certo si assisterà a qualche riduzione nell’andamento dei commerci internazionali, a qualche cambiamento nelle sue caratteristiche, ad esempio coinvolgendo meno prodotti industriali e più servizi, meno beni fisici e più beni intangibili, spingendo ad una tendenza a raggruppamenti continentali come quello del RCEP, ma d’altra parte largamente aperti al resto del mondo. Saranno all’opera alcune forze che potranno tendere a qualche spinta al reshoring, ma soprattutto da altri Paesi. Va avanti la spinta, qua e là, di diverse imprese a non lasciare la Cina, ma ad impiantare un secondo insediamento in un altro Paese per ridurre comunque i rischi.

Sui processi di deglobalizzazione non mancano peraltro opinioni diverse; così Nouriel Roubini (Roubini, 2020) stima che il mondo sarà alla fine diviso in due sistemi concorrenti, uno a guida Usa e l’altro a guida della Cina; ci sarà una separazione delle basi dei dati, dei flussi finanziari, delle valute, del 5G, chip e così via.

Alcune questioni sociali

C’è poi la questione del lavoro. Anche in questo caso alcune tendenze che prima andavano avanti lentamente hanno registrato un’accelerazione con la pandemia. In generale, l’accelerazione ha mostrato che il nostro sistema economico non è semplicemente in crisi, è strutturalmente difettoso (Mazzuccato, 2020), visto in particolare, anche se non solo, quello che sta succedendo proprio sul fronte del lavoro.

In termini generali possiamo affermare con Sarah O’Connor (O’Connor, 2020) che nel 2025 il mondo del lavoro sarà più flessibile e pieno di risultati per alcuni di noi (quelli con elevata professionalità), ma sarà invece più brutale e insicuro per molti altri.

La pandemia ha messo in evidenza lo sviluppo del lavoro a domicilio. La sua applicazione è cresciuta fortemente per un apparente stato di necessità, ma la tendenziale ritirata del morbo non sembra debba portare ad una scomparsa del tema, semmai ad una sua qualche riduzione rispetto alle punte massime raggiunte in questi mesi. I vantaggi per gli imprenditori sono, entro certi limiti, evidenti. 

Tale tendenza preoccupa in quanto potrebbe facilmente portare ad una crescente precarizzazione del lavoro, precarizzazione che si va peraltro affermando anche per altre strade. In effetti il lavoro a domicilio può comprendere anche i lavoratori reclutati all’estero, di solito con salari più bassi. Il risultato potrà essere quello di una forza destabilizzatrice che possiamo chiamare “immigrazione virtuale” (Wolf, 2020) e che potrebbe prendere nei prossimi anni fortemente piede.

Sempre il Covid ha portato ad un potenziamento anche della sharing economy, in particolare per alcuni settori. Anche in questo caso la tendenza appare preoccupante. I tentativi che si sono registrati nel mondo negli ultimi anni per regolamentare il fenomeno hanno ottenuti successi solo limitati e il futuro non sembra più promettente. 

Una terza tendenza è quella ad un’ulteriore spinta all’automazione, che, di nuovo, accelerando fortemente nei prossimi anni, potrà incidere fortemente sui livelli di occupazione, almeno secondo le valutazioni della maggior parte degli esperti.

In ogni caso, la pandemia ha già visto una caduta nei livelli di occupazione, che solo in parte saranno recuperati con la sperabile ripresa, visti anche i movimenti sopra descritti. Da alcune analisi appare che molte grandi imprese europee e statunitensi, mentre sono piuttosto ottimiste sulla ripresa abbastanza a breve della loro attività, fanno previsioni negative sui livelli di occupazione che potranno mantenere.  

Le diseguaglianze  

Se c’è un fattore comune a praticamente tutti i Paesi del mondo negli ultimi decenni è quello ad una crescita delle diseguaglianze all’interno dei vari Paesi, mentre si sono andate riducendo le differenze tra i vari Paesi del mondo.  Un articolo recente (Romei, 2020) sottolinea come sono in atto con il coronavirus cinque modi attraverso cui il mondo sta diventando più diseguale: i lavoratori poveri si stanno ritrovando più poveri, aumentano le diseguaglianze tra Paesi (invertendo la tendenza prima in atto), sta peggiorando il gap tra le generazioni, i lavoratori meglio pagati rimangono in una situazione confortevole e i ricchi diventano più ricchi.

Ora, si può prevedere che nei prossimi cinque anni tali tendenze difficilmente saranno rovesciate, tranne forse la seconda. Si può stimare che le diseguaglianze non si saranno ridotte da qui al 2025 perché le forze che le hanno spinte in avanti sono troppo potenti (Wolf, 2020). 

Le tecnologie

Nel 2020 si è assistito ad una molto più rapida digitalizzazione delle nostre vite e di quelle delle varie organizzazioni. Abbiamo visto così diversi anni di trasformazione digitale delle imprese in atto realizzarsi in pochi mesi. 

Parallelamente, il valore di Borsa dei giganti della tech sono nel 2020 esplosi; in particolare quelli Usa sono cresciuti in media del 60% su valori già prima molto elevati. Per altro verso, stiamo anche assistendo ad un ulteriore affermarsi di un feticismo tecnologico poco promettente. Naturalmente nei prossimi anni le tecnologie andranno ancora avanti e parecchio.

Le cinque più importanti piattaforme di innovazione che stanno trasformando l’economia globale e continueranno nei prossimi anni a farlo sono, secondo un esperto (Wood, 2020), dunque, oltre al sequenziamento del DNA, la robotica, le tecnologie di immagazzinamento dell’energia, l’intelligenza artificiale, la tecnologia del blockchain. Questi punti focali comprendono al loro interno dei sottocapitoli, quali la terapia genica, la stampa in 3d, il cloud computing, il big data, le criptovalute. Tali tecnologie attraversano i vari settori economici; per esempio, i veicoli autonomi, che segnano qualche ritardo temporale rispetto alle precedenti entusiastiche stime, stanno arrivando dalla convergenza di robotica, tecnologie di immagazzinamento di energia, intelligenza artificiale.

La crescita sempre più imponente delle grandi imprese Usa e cinesi del settore stanno peraltro aumentando le inquietudini rispetto ad un processo che si teme diventi presto fuori controllo. Negli ultimi mesi stanno così avanzando in Cina, negli Stati Uniti, in Europa, i tentativi dei governi e delle strutture di sorveglianza di mettere sotto controllo il fenomeno. I prossimi anni indicheranno più chiaramente se e quanto tali sforzi andranno avanti; si può azzardare la previsione che in particolare in Occidente non si riuscirà a fare moltissimo, nonostante l’apparente decisa intenzione almeno di qualche politico.

Lo Stato e i suoi problemi

Non si può certo trascurare poi il tendenziale accresciuto ruolo dello Stato. Già dopo la crisi del 2008 si stava assistendo ad un rinnovato aumento del peso dello Stato nella vita economica dei Paesi occidentali, in relazione anche ad una stanchezza diffusa nei confronti del neoliberismo e dei problemi da esso creato.

La pandemia ha tra l’altro contribuito a mostrare come la privatizzazione corroda alla fine la democrazia. Negli ultimi 40 anni i governi hanno così ceduto ai privati i servizi pubblici, ma c’è un conflitto di fondo tra i valori democratici e tali decisioni (Cordelli, 2020).  

Con il coronavirus il settore pubblico ha assunto nuove funzioni, dal sostegno alle imprese e ai privati in difficoltà, al rinnovato intervento nella sanità e nella scuola, al salvataggio di molte imprese in difficoltà. Si sono moltiplicati i prestiti pubblici garantiti, mentre le banche centrali hanno comprato titoli pubblici in grande quantità e anche obbligazioni delle imprese private; il settore pubblico è diventato il principale fornitore di capitali a quello privato direttamente e indirettamente con l’acquisto dei titoli pubblici.  “Continuate a spendere” è in queste settimane il grido accorato del capo degli economisti dell’Ocse, pur tradizionale bastione del neoliberismo, rivolto agli Stati (Carlini, 2021). 

Su di un altro piano, la pandemia dovrebbe aver ribadito che ci sono una serie di beni e servizi che dovrebbero essere collocati al di fuori delle leggi di mercato e comunque in mani pubbliche (Cordonnier, 2021).

Si può pensare che tale nuovo ruolo dello Stato si conserverà nei prossimi anni. La nuova era dell’economia riflette infatti il punto finale di alcune tendenze di lungo termine; finanziamenti al settore privato, debiti pubblici elevati e stampa di moneta potrebbero diventare degli strumenti standard di politica economica (The Economist, 2020).

La crescita dell’indebitamento pubblico e privato

Tra i problemi anche dello Stato c’è quello dell’indebitamento. Già prima dello scoppio della pandemia ci si preoccupava molto della crescita costante del livello di indebitamento nel mondo. Il Covid ha portato ad un suo più forte impiego per sostenere l’economia e le persone. Tale sforzo durerà presumibilmente ancora per una parte almeno del 2021. 

Il debito mondiale è passato da un già elevato rapporto del 321% della fine del 2019 al 362% alla fine di giugno 2020 del Pil mondiale. Tale aumento è dovuto in parte al crollo del Pil ma soprattutto ai nuovi debiti contratti per far fronte alla pandemia. In particolare quello pubblico dovrebbe essere passato nelle economie avanzate dal 105% del 2019 al 132% del 2020.  

Molti cominciano a interrogarsi su come si riuscirà a contenere le conseguenze di tale marcato aumento, ma le idee in proposito sembrano mancare, mentre si può temere un qualche prossimo problema sollevato dalle agenzie di rating e dal Patto di stabilità. In ogni caso i prossimi anni saranno caratterizzati dall’incombere di tale questione, visto anche che in particolare in Europa e anche negli Stati Uniti le prospettive di crescita dell’economia appaiono piuttosto modeste. Per fortuna ed almeno per il momento i tassi di interesse si collocano a livelli molto bassi. 

Per una soluzione parziale al problema nell’area euro si pensa già all’annullamento dei titoli del debito pubblico posseduti dalla BCE, mentre i vari Stati stanno preparando piani di graduale rientro per i prossimi anni, piani che non si sa quanto possano essere plausibili. Ed è possibile che deraglino facilmente.

Conclusioni

Probabilmente per il 2025 le economie dei vari Paesi si saranno riprese dalla pandemia in atto, ma gran parte di essi saranno più poveri di quello che sarebbero stati senza di essa.

Per altro verso, i problemi delineati in queste pagine saranno ancora presso di noi alla fine del 2025. Le forze della conservazione dello status quo, seppur indebolite, sembrano ancora in grado di condurre il gioco, mentre quelle del rinnovamento appaiono molto deboli. 

Comunque ci troviamo in questo momento con una alternativa molto importante: sviluppare ancora le contrapposizioni tra mondo occidentale e blocco cinese-russo (questa sembra, dai primi segnali, la visione di Biden), o trovare invece una via di collaborazione tra i vari Paesi per combattere i cambiamenti climatici, le malattie, i problemi dell’economia, le diseguaglianze, senza rinunciare peraltro ai propri principi, ammesso che se ne abbiano veramente.

Testi citati nell’articolo

-Carlini R., la retromarcia di economisti e politici, Internazionale, 7 gennaio 2021

-Cordelli C, The Covid crisis has shown how privatisation corrodes democracy, www.theguardian.com, 24 dicembre 2020

-Cordonnier L., En avant vers le monde d’avant, Le Monde Diplomatique, gennaio 2021 

-Mazzuccato M., Covid exposes capitalism’s flaws, www.ft.com, 28 dicembre 2020 

-O’Connor S., Labour and the work place, in Life in 2025 : what the future look like ?, www.ft.com, 16 dicembre 2020

-Roubini N., La finanza brinda al vaccino, ma ci aspettano 10 anni difficili, Il Sole 24 Ore, 29 dicembre 2020

The Economist, Free money, 25 luglio 2020

-Wolf T., Five forces that will define our post-Covid future, www.ft.com, 16 dicembre 2020

-Wood K., Stand ready for the big five technology convulsions reshaping markets, www.ft.com, 23 dicembre 2020