L’Italia esce sconfitta nel confronto con la Spagna sui rispettivi Piani di Ripresa e Resilienza: mentre a Madrid, pur con alcuni limiti, si possono intravedere le premesse per un nuovo modello di sviluppo, il nostro PNRR assomiglia a una grande e affastellata manovra finanziaria, a cui mancano respiro e visione strategica.
In tema di PNRR, mettendo a confronto il piano spagnolo e quello italiano si rimane colpiti già dal titolo: in quello spagnolo c’è la parola trasformazione (Plan de recuperaciòn, transformacion y resiliencia). Sarà solo una parola, ma l’indicazione contenuta nel titolo è già un segnale della strada che in Spagna si vuole seguire, quella di un nuovo modello di sviluppo. Il piano spagnolo è simile nella struttura a quello italiano e contiene molti aspetti critici e discutibili, tanto che le organizzazioni della società civile hanno espresso dubbi e avanzato richieste di radicali correzioni. Ma mentre il piano italiano ha una impostazione da finanziaria moltiplicata per dieci, nel piano spagnolo si avverte il tentativo di una visione complessiva, con un filo rosso delle proposte.
Nel documento spagnolo ci sono diversi aspetti importanti, decisamente migliori rispetto al nostro piano. Nel PNRR italiano, nonostante il profluvio di richiami alla concorrenza, alla competitività, alle imprese, l’espressione “politica industriale” compare una sola volta. Prevale – nonostante i tanti investimenti pubblici – l’idea che alla politica industriale ci pensano le imprese private, beneficate da sgravi fiscali e sostegni diretti (ben 50 miliardi nel nostro piano). Un’idea che in questi anni non ha funzionato. Nel piano spagnolo alla politica industriale (legata alla riconversione ecologica dell’economia) viene invece dedicato un intero capitolo, con proposte, stanziamenti e iniziative dettagliate.
Un secondo esempio è quello del welfare. Nel piano italiano ci sono naturalmente diversi stanziamenti (molto frammentati) per interventi sociali e welfare, ma manca – per l’appunto – una visione. Nel piano spagnolo si avanza la proposta di una economia della cura, dove è chiaro il tentativo di legare la risposta ai bisogni e ai diritti dei cittadini all’idea che il welfare è una politica pubblica coerente (non una spesa, ma un investimento sociale) che crea occupazione, fa crescere il PIL e favorisce l’innovazione sociale e istituzionale. Niente di tutto questo c’è nel piano italiano, dove manca qualsiasi enfasi nel dare al nostro paese livelli essenziali ed adeguati di prestazioni, capaci di colmare quelle diseguaglianze sanitarie e sociali che hanno colpito l’Italia durante la pandemia.
Un terzo esempio è che mentre il piano italiano – per il monitoraggio dei progetti – sembra affidarsi ad una sorta di metodo McKinsey con matrici, indicatori e software, il piano spagnolo dedica decine di pagine al processo di consultazione e monitoraggio in cui viene esplicitato il rapporto con i corpi intermedi (associazioni, sindacati, eccetera), le comunità territoriali e gli enti locali, prevedendo anche delle conferenze tematiche in cui coinvolgere tutti gli stakeholders: istituzionali, sociali, economici, della cittadinanza attiva.
Nonostante tutti i limiti del piano di Madrid (ad esempio, una sottovalutazione della riorganizzazione del sistema sanitario), l’Italia può molto imparare dalla Spagna: siamo ancora in tempo per correggere in corso d’opera gli errori e i limiti più evidenti del PNRR italiano, cercando di dare un’anima ad un piano che altrimenti rischia di essere solo una grande finanziaria suddivisa in sei anni.