L’economia eterodossa è ancora l’eccezione alla regola mainstream. E i giovani sono incentivati al conformismo. Quale pensiero economico ci aspetta nel futuro?
Secondo uno studio recente (1) nel 2001-2003, triennio considerato dal passato esercizio di valutazione della ricerca realizzato dal CIVR, un economista italiano su cinque ha scritto almeno una pubblicazione con metodi o su temi che egli stesso ha definito “eterodossi”. Uno su quattro ha scritto sulla storia del pensiero economico, in Italia tradizionalmente utilizzata per la comparazione di teorie e paradigmi teorici alternativi.
Però, questa pratica ha almeno tre inconvenienti:
3. Lascia tutti gli studenti che non si specializzano in economia con la sola conoscenza (al massimo un po’ critica) dei modelli mainstream
Il primo punto é discusso in diversi interventi a commento del Manifesto disponibili nel sito http://www.syloslabini.info. Vorrei quindi brevemente commentare gli altri due, anche se reputo grave che debba essere un giovane a parlare “di giovani”. Infatti, occorre chiarire che, invece che difendere o rappresentare presunti interessi di categoria, la questione che sto discutendo ha a che fare col tipo di economia che sarà adottata e studiata tra 10 anni, se non per ragioni di merito, semplicemente per ragioni anagrafiche.
Il secondo punto sollevato ha a che fare proprio con gli incentivi per i giovani economisti. Anzitutto molti studenti si laureano essendo stati ormai convinti dell’inutilità di metodi, ad esempio, storici e dell’unicità e correttezza del paradigma dominante. In quest’ottica, non solo corsi di master o dottorato non ortodossi sono difficili da essere compresi – visti dall’esterno, prima di essere iniziati – e, quindi, scelti; ma soprattutto, se non presentano una grossa componente quantitativa, sembrano pericolosamente vicini ad un lusso intellettuale, invece che ad un investimento sulla propria carriera futura. Questo problema è separato ma parallelo al forte incentivo al conformismo che deriva dai timori per i giovani ricercatori a dedicarsi a temi o metodi che difficilmente verrebbero compresi ed accettati dalla maggioranza delle persone che, nell’immediato futuro, dovrebbero giudicarli ai fini di assunzione o di carriera. Ció rende il numero di ricercatori e giovani professori eterodossi molto inferiore – anche in termini relativi – a quello dei più anziani professori eterodossi, e dunque per gli economisti eterodossi si pone un problema di mancato ricambio generazionale. Oggi questo è tanto più grave per la forte asimmetria tra il mercato del lavoro degli anziani – fin troppo tutelato – e quello dei giovani – caratterizzato da precarietà sia nell’occupazione che nel reddito.
Infine l’ultimo punto, relativo a quale economia insegniamo ai non economisti, è forse il più importante. Il senso comune e l’opinione pubblica (ovvero, i media) determinano sempre più il modo di pensare e di comportarsi dei policymakers, così come il giudizio che di loro hanno gli elettori. Come conseguenza dell’insegnamento non pluralista nei corsi di base, commercialisti, piccoli imprenditori, dipendenti di banche, quadri e dirigenti, ma soprattutto – purtroppo – giornalisti, editorialisti e funzionari di partito, imparano a vedere e analizzare la società solo con gli occhiali deformanti dell’economia mainstream. Non è poi una gran sorpresa se non hanno orecchie per sentire (né formazione per intendere) voci alternative o critiche, al più bollate come disinformate o idealiste ed illuse.
Di fronte a questo, la crisi economica ha portato qualche scossone. I più, comunque, si domandano “quando finirà”, che equivale a dire che la crisi è un momentaneo incidente di percorso, che ovviamente presto tutto tornerà come prima, inclusi gli occhiali necessari a leggere correttamente la società: quelli di sempre, quelli dell’economia tradizionale. Spesso questo include chi (come ad esempio Joseph Stiglitz nel suo intervento alla riunione annuale dell’associazione americana degli economisti) riconosce l’origine strutturale della crisi.
Come sempre, mi sembra difficile che possa esserci una sola soluzione. Nell’accademia è indispensabile ampliare l’adozione di libri di testo e di programmi di studio pluralisti già nei corsi di base (come oggi viene fatto a Roma, Bologna, Napoli, Milano, …).Ma soprattutto, fondazioni, partiti e associazioni dovrebbero fornire centri di formazione, dibattito ed elaborazione meno conformisti, nonostante questo significhi criticare alcune delle politiche e delle interpretazioni che hanno portato avanti fino a poco fa. Anche per questi luoghi passa la formazione dell’opinione pubblica e l’informazione a giornalisti, politici e commentatori. Purtroppo, questa ricetta richiede di affrontare un altro problema di ricambio generazionale: quello in politica e nei centri culturali. Le prospettive, dunque, non sono affatto incoraggianti.
(1) Corsi, M., D’Ippoliti, C., Lucidi, F. (2010), “Pluralism at risk? On the Evaluation of Economic Research in Italy”, American Journal of Economics and Sociology, in via di pubblicazione. Ulteriori dati possono essere forniti su richiesta dall’autore.