Uno sguardo aperto sul nostro futuro demografico e sociale, in due libri: “Avanti giovani alla riscossa” e “La rivoluzione nella culla”
Proprio ora, quando la previsione, o meglio la mancanza di qualsiasi previsione fondata, sul futuro dell’occupazione allarma tutti, in controtendenza, si possono leggere i primi lavori realmente inclusivi, aperti, e perciò pieni di speranza, sul futuro demografico e sociale dell’Italia. I libri sono Avanti giovani alla riscossa. Come uscire dalla crisi giovanile in Italia di Massimo Livi Bacci (il Mulino, Bologna 2008) e La rivoluzione nella culla. Il declino che non c’è di Francesco C. Billari e Gianpiero Dalla Zuanna (Università Bocconi Editore, Milano 2008).
Gli autori sono tutti e tre demografi; le tesi sono sostanzialmente convergenti ed hanno, ovviamente, alcuni punti totalmente condivisi: la storia recente e le proiezioni della popolazione e delle forze di lavoro per genere, dell’attesa di vita, dell’età al primo matrimonio e alla nascita del primo figlio. Tuttavia i testi non sono affatto sovrapponibili.
Livi Bacci, che è anche, se non soprattutto, un demografo storico, inizia con un capitolo su un aspetto assolutamente fondamentale ma spesso trascurato nei confronti tra l’inizio di questo secolo e quello del secolo scorso: la discontinuità netta nella durata della vita, nell’età di inizio del lavoro, nell’analfabetismo, nel numero dei fratelli, nell’accesso alle risorse fondamentali (acqua, cibo, casa) e perciò nella condizione giovanile.
Si tratta di una discontinuità materiale e culturale. Tra allora ed oggi la durata media della vita è quasi raddoppiata, in particolare in alcune regioni, come Puglia e Abruzzo. Un bambino nato a fine ottocento aveva poco meno del 50% di probabilità di morire entro i primi cinque anni di vita, se sopravviveva e non era nato da genitori ricchi e colti cominciava a lavorare da subito, appena ne aveva la capacità materiale, spesso doveva emigrare per sopravvivere, frequentava la scuola per pochi anni o restava analfabeta. Livi Bacci aggiunge, giustamente, che non aveva nessuna libertà reale nella scelta della persona con cui formare una famiglia, nelle regioni meridionali, dove la riproduzione era più polarizzata che al nord, aveva una bassa probabilità di potersene formare una.
Il capitolo seguente è una descrizione accurata della riduzione delle coorti e, alla fine, del quasi dimezzamento dei nuovi nati, della inversione delle quantità tra genitori e figli, fenomeno diffuso in Europa ma particolarmente notevole in Italia, del declino del numero assoluto di giovani in varie regioni, del declino della fertilità, del declino del tasso di attività dei giovani, del ritardo nell’età del matrimonio, del primo figlio, dell’abbandono del tetto dei genitori.
Il terzo capitolo è un quadro della perdita di peso dei giovani che va di pari passo con l’aumento del benessere goduto per il miglioramento generale e a spese dei genitori. Si va dall’aumento rapporto tra il reddito degli adulti e quello dei giovani, all’aumento dell’età dei parlamentari, dei ricercatori, dei docenti, degli imprenditori. In sostanza, fino all’ultimo capitolo si tratta di un severo quadro del declino demografico e perciò, in prospettiva, culturale ed economico del paese.
L’ultimo capitolo, la riscossa preannunciata dal titolo, più una necessità, o una invocazione che una previsione, introduce il vero elemento di novità e cioè l’arrivo di immigrati giovani e la ripresa della natalità, dovuta anche alle immigrate e invita ad occupare il vuoto che si è creato, a darsi da fare per riappropriarsi di ciò che è naturale patrimonio della gioventù: l’iniziativa, la creatività. Non mancano segnalazioni di problemi, come la difficile condizione delle madri, la insoddisfacente protezione della maternità e dell’adolescenza, ma in generale si auspica la svolta.
Billari e Dalla Zuanna danno al libro, che è più socioantropologico che demografico, un taglio piuttosto diverso, anche se convergente. I primi due capitoli, i più demografici, constatato che è difficile accettarsi come paese di immigrazione e che gli studiosi tendono a concentrarsi, anche per necessità, sulle proiezioni delle popolazioni residenti, constatano che la popolazione residente continua a crescere, anche se i cittadini continuano a diminuire perché i morti sono più dei nati, che ogni anno entrano, e presumibilmente continueranno ad entrare, 300.000 immigrati nuovi, al netto delle uscite, che il numero dei figli di stranieri continuano a crescere in percentuale e in cifra assoluta e, soprattutto, che la fertilità media delle donne residenti è in ripresa, soprattutto al nord, nelle regioni più sviluppate.
Da questa constatazione nasce il punto fondamentale del libro, che emerge variamente nei capitoli successivi.
E’ vero che gli italiani sono particolarmente familisti (il terzo capitolo si chiama Piccola famiglia antica. Il primato dei forti legami di sangue.), che natalità e lavoro sono stati una alternativa non cumulabile per le donne fino a ieri, che la dipendenza dei giovani è cresciuta. Ma, appunto, forse questo sta cambiando. Forse ci stiamo avvicinando, per la convivenza e la riproduzione, all’Europa settentrionale. Restiamo un insieme di famiglie grappolo, che protegge i giovani, ma cominciamo ad averci una correlazione positiva tra attività delle donne e natalità, anche perché la differenza dei ruoli sessuali è un po’ diminuita.
Certo, bamboccioni o vittime che siano, i giovani diventano autonomi più tardi che nell’Europa del nord, ma qualcosa sta cambiando. E gli stranieri sono una parte importante del cambiamento; i giovani immigrati, motivati, attivi, mobili, sono nuova vitalità. Le donne, istruite, attive e madri sono una vera svolta.
Restano differenze – i nostri vecchi vivono a lungo, più che altrove, e sono assistiti in famiglia con l’aiuto delle badanti, in sinergia con i figli – ma non necessariamente sono una palla al piede. Bisogna aiutare le madri, bisogna dare pari opportunità all’avvio ai giovani, ai nati in famiglie numerose, a chi viene dal basso. Bisogna aprire le porte del paese e della cittadinanza agli stranieri; bisogna favorire una vecchiaia attiva. Non sarà tutto facile; sarà anzi un percorso accidentato; ma le risorse per farcela ci sono. La rivoluzione non è un pranzo di gala; neppure quella demografica.
Condivido buona parte dei principi degli autori, anche se io sarei più socialdemocratico e meno liberale, non solo per convinzione ma per necessità.
Per esempio l’assistenza famigliare basata sulla sinergia tra figli e badanti diventerà insostenibile tra una ventina d’anni, per mancanza di figli in età attiva delle vecchie nate negli anni ’50. E le pari opportunità per chi viene dal basso richiedono un rafforzamento della protezione del lavoro non limitabile alle borse di studio, che in ogni caso richiedono delle dichiarazioni dei redditi non troppo infedeli. E ci vuole una scuola pubblica forte e non segregata.
In questo momento in particolare ci vogliono due elementi aggiuntivi, un argomento in più, abbastanza facile, e una rivoluzione culturale, molto difficile.
L’argomento in più è che gli arrivi dei nuovi, non necessariamente proprio 300.000 tutti gli anni, e l’integrazione dei giovani figli di immigrati restano necessari anche se c’è la disoccupazione in aumento, perché una integrazione sociale non si improvvisa.
La rivoluzione culturale è l’accettazione della differenza religiosa. L’antislamismo, che nella realtà, per la maggior parte degli italiani, è il rifiuto del mondo antico, di ciò che siamo stati fino a ieri, del fazzoletto delle donne, delle famiglie famigliose, è una vera peste. Speriamo che non sia la nostra la città in cui la peste porterà i suoi topi a spargere il terrore.