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Perché noi ricercatori protestiamo

Non solo blocchi e tagli, che si accaniscono sulla conoscenza. Ma una visione sbagliata del futuro dell’università. Punto per punto, quel che ci aspetta

I motivi della protesta che da diversi mesi sta interessando quasi tutti gli atenei italiani risiedono nella politica di smantellamento delle università pubbliche messa in atto dal governo attuale con vari provvedimenti legislativi che si sono susseguiti in questi ultimi anni e culminata con il ddl Gelmini di prossima discussione alla camera.

In particolare, gli elementi maggiormente critici in materia della politica dell’attuale governo riguardano sia gli aspetti specifici del ddl Gelmini, sia le misure retributive recentemente adottate a discapito del personale pubblico (incluso quello universitario) sia, più in generale, la tendenza alla riduzione dei finanziamenti all’università e alla ricerca scientifica.

Iniziando da quest’ultimo punto, si ricordano di seguito i principali punti critici che hanno sollevato di recente forte protesta da parte degli studenti e del corpo docente (e in particolare dei ricercatori).

Taglio dei finanziamenti all’università e ricerca. Provvedimenti quali le leggi 103 del 2009 e 1 del 2009 hanno ridotto il Fondo di Finanziamento Ordinario (Ffo) globale del 19,14% (da 7.485 a 6.052 milioni di euro) nel periodo 2009-2012. Peraltro, pur essendo questa la principale fonte di finanziamento delle Università, ad oggi il ministero non ha ancora versato agli atenei il Ffo del 2010, impedendo la chiusura del bilancio per quest’anno e la previsione di spesa per il 2011 ed impedendo di fatto pagare gli stipendi dei propri dipendenti.

Blocco della dinamica salariale. In un quadro già disastrato, il decreto legge 31/05/10, n. 78, contenente misure urgenti in materia di stabilizzazione finanziaria e di competitività economica, relativamente alle università ha previsto quanto segue:

  • Blocco del turn-over (al 50% per università “virtuose”, quelle che non spendono in stipendi per il personale assunto a tempo indeterminato più del 90% del Ffo).

  • Riduzione del 50% rispetto a quella sostenuta nel 2009 della spesa per il personale a tempo determinato e parasubordinato.

  • Sospensione dei rinnovi contrattuali per il personale tecnico amministrativo.

  • Abolizione degli scatti biennali degli stipendi di ricercatori e professori per il periodo 2011-2013, senza futuri recuperi.

  • Abolizione degli adeguamenti Istat per il periodo 2011-2013, senza futuri recuperi.

  • Pagamento differito della liquidazione e frazionamento in 3 anni della sua erogazione.

La beffa a discapito del personale universitario cresce se si pensa che l’art. 9 comma 20 del decreto legge 78/2010 originariamente recitava “I meccanismi di adeguamento retributivo per il personale non contrattualizzato (magistrati, professori e ricercatori universitari, dirigenti dei Corpi di polizia e delle Forze armate) non si applicano per gli anni 2011, 2012 e 2013 e non danno comunque luogo a successivi recuperi”, ma, successivamente, è stato emendato in “magistrati, dirigenti dei Corpi di polizia e delle Forze armate potranno recuperare gli scatti…”.

Analogamente, mentre per i magistrati e gli altri dirigenti pubblici il blocco degli scatti biennali è temporaneo – ed al termine del triennio la normale progressione di carriera viene recuperata compensando le riduzioni previste dall’attuale manovra finanziaria –, per ricercatori e professori universitari l’effetto del blocco è permanente, non c’è quindi nessun tipo di compensazione nel corso del resto della vita lavorativa (con conseguenze negative, quindi, anche sul trattamento pensionistico).

Inoltre, cosa ben peggiore è che l’impatto è relativamente tanto più forte quanto più all’inizio della carriera ci si trova: i ricercatori universitari – che hanno uno stipendio mensile netto al momento dell’assunzione di circa 1.200 euro – pagano quindi più di tutte le altre categorie chiamate a contribuire al risanamento della finanza pubblica.

Alcune misure contenute nel ddl Gelmini

Governance. La riforma in discussione limita pesantemente la democrazia interna agli atenei e la loro autonomia. I poteri attribuiti al Consiglio di Amministrazione mortificano la partecipazione di tutte le componenti universitarie vincolandole al potere di un rettore-monarca, dei soli professori ordinari e di alcuni soggetti esterni che decideranno le linee di sviluppo della ricerca e della didattica senza necessariamente avere alcuna competenza scientifica. Il ddl ha un fondamento ideologico evidente: la democrazia interna paralizza lo sviluppo degli atenei. La soluzione prevede la concentrazione del potere nelle mani di pochi ed il ricorso ai privati. Ma chi saranno questi membri esterni del CdA in “possesso di comprovata competenza in campo gestionale”? Dato il peso economico crescente che gli enti locali potrebbero avere nel nuovo assetto degli atenei, i membri esterni del CdA saranno probabilmente scelti tra le file dei partiti politici. Il ddl rischia quindi di aprire le porte a una lottizzazione senza precedenti dell’università italiana che vedrà protagonisti gli esponenti politici locali.

Ruolo dei ricercatori. Con il ddl Gelmini si prevede poi la messa ad esaurimento del ruolo dei ricercatori a tempo indeterminato che invece avrebbero dovuto svolgere un ruolo ben preciso all’interno degli atenei. Entrando nel ruolo verso i 27/28 anni, dopo aver svolto studi avanzati con un dottorato di ricerca, i ricercatori avrebbero dovuto svolgere prevalentemente attività di studio, mentre l’attività didattica sarebbe per loro dovuta essere marginale. Ciò avrebbe consentito di fare molta ricerca in una fase della propria vita in cui si è più creativi (tra i 27 e i 32 anni circa) e contemporaneamente di acquisire l’esperienza necessaria per poi diventare “docenti” (non a caso il concorso per professore associato prevede come prova una lezione pubblica per dimostrare di essere capaci di fare lezione). Ma questo ruolo molto presto è stato stravolto: si entra come ricercatori di ruolo non prima dei 32/33 anni (quando va bene!), dopo varie forme di precariato, e immediatamente arriva l’affidamento di uno o più corsi. Tra il tempo da dedicare alla didattica dei corsi di cui si è titolare e l’attività didattica integrativa per i corsi di cui sono titolari i professori ordinari e associati, il tempo lasciato libero per svolgere la ricerca è molto esiguo. Nonostante nella quasi totalità dei casi non siano mai stati retribuiti per l’attività didattica svolta in affidamento, nell’ultimo quindicennio i ricercatori hanno coperto circa il 45% degli insegnamenti svolti negli atenei italiani, continuando comunque a svolgere attività di ricerca con risultati spesso eccellenti. Ora, con il ddl si propone di mettere ad esaurimento questo ruolo e contemporaneamente cancellare di fatto ogni possibile forma di avanzamento di carriera, non riconoscendo in nessun modo il lavoro fondamentale svolto dai ricercatori negli anni passati.

La “tenure track”. Lo stesso ddl Gelmini prevede l’istituzione della cosiddetta tenure track, un istituto proprio del mondo accademico anglosassone, che però, come noto, funziona in modo molto diverso dal nostro. In un mondo anglosassone che si regge in gran parte su finanziamenti di privati si è sentita la necessità di istituire un ruolo che fosse totalmente libro da condizionamenti. La caratteristica principale è quindi la garanzia prospettica di un impiego a tempo indeterminato. Un tenured professor raggiunge la propria posizione al termine di una cosiddetta tenure track, se è riuscito a dimostrare con la propria attività (pubblicazioni, insegnamento, capacità di gestione, ecc.) il proprio valore. Questa “temporanea precarietà” viene riconosciuta con stipendi molto alti. Inoltre, quando un’istituzione avvia una persona su una tenure track parte dal presupposto che tale percorso abbia successo. Quindi fino dal suo inizio i finanziamenti che serviranno a pagare lo stipendio per tutta la vita a quella persona devono essere disponibili. Questa condizione-chiave non è al momento affatto garantita dalle iniziative governative. Ciò che il ddl Gelmini prevede in sostituzione dei ricercatori a tempo indeterminato è, infatti, l’istituzione della figura dei ricercatori a tempo determinato con contratti da 3(+2)+3 anni non ulteriormente rinnovabili e senza diritto al ruolo di II fascia.

In sintesi si rischia di creare dei ricercatori “usa e getta”: dopo 11 anni (di dottorato e contratti a tempo determinato) non c’è alcuna garanzia di reclutamento nella seconda fascia e non è più possibile rinnovare il contratto. Inoltre, si creano le condizioni per una “guerra tra poveri”: visti i tagli, i pochi fondi disponibili potrebbero venire usati per sottrarre alla disoccupazione i ricercatori a termine, compromettendo quindi le prospettive di carriera degli attuali ricercatori a tempo indeterminato.

Se a questo quindi aggiungiamo il blocco delle assunzioni, del turn-over e il blocco delle remunerazioni già molto basse per un ricercatore, il risultato è certo: il flusso in uscita di giovani capaci e preparati non solo non si arresterà ma aumenterà sempre di più. La fuga di cervelli diventerà inarrestabile.

“Sciopero”? Da ultimo, una precisazione. Molto si è scritto (e si è appena ricordato) sulle ragioni che hanno indotto i ricercatori universitari a protestare (ma appare chiaro da quanto detto che le ragioni della protesta non dovrebbero interessare solo le figure professionali più direttamente colpite, anche economicamente, dalle misure approvate e in discussione, ma chiunque abbia a cuore le prospettive dell’università pubblica). Non abbastanza chiara è invece la forma che ha preso la protesta: ossia l’indisponibilità a svolgere attività didattica non prevista per legge. La normativa vigente attribuisce alla figura del ricercatore, tra le altre cose, compiti di “didattica integrativa” e, soltanto con il suo consenso, l’eventuale titolarità di uno o più insegnamenti. È errato dunque parlare di sciopero o di astensione in relazione alla protesta dei ricercatori, i quali continuano a svolgere regolarmente i propri compiti di ricerca e di assistenza alla didattica. Semplicemente, in molti hanno deciso di non dare il proprio consenso per coprire insegnamenti che non sono per legge tenuti ad effettuare. La precisazione è necessaria se la stessa titolare del dicastero dell’università, in una recente conferenza stampa (22 settembre 2010), si è rivolta ai ricercatori dicendo: “tornate a fare didattica”. Appello, evidentemente privo di contenuto e che, amaramente, conferma come lo stesso ministro non appaia informato sugli obblighi dei ricercatori universitari e sulle peculiarità del loro ruolo.

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