Termini come spread o Quantitative Easing hanno ormai invaso la stampa, i telegiornali e perfino i profili di Facebook. Eppure l’economia non viene insegnata a scuola e pochissimi cittadini hanno gli strumenti per orientarsi con un minimo di consapevolezza in queste tematiche. È ora che le cose cambino.
Nel 1952, fresco di un master in economia ad Harvard, l’allora venticinquenne Paul Volcker fu assunto alla Federal Reserve. La banca centrale americana di quegli anni non era un posto per economisti, almeno ai piani alti. Del suo board, come da tradizione, facevano parte banchieri, avvocati, e perfino un allevatore di maiali (tale Rudolph M. Evans). Ma nemmeno un economista. “Abbiamo cinquanta econometrici che lavorano per noi”, disse una volta il suo presidente, William McChesney Martin (un ex broker). “Lavorano tutti nel seminterrato di questo edificio. E non è un caso siano lì”. Martin non faceva mistero di non amare gli economisti, persone con uno scarso “senso dei loro limiti”.
Il giovane Volcker disse alla moglie che non c’erano molte possibilità di fare carriera nella Fed[1]. Ma i tempi stavano per cambiare. Di lì a poco gli economisti avrebbero cominciato una lunga scalata ai vertici di ogni struttura del governo americano (e non solo americano), guadagnando sempre più influenza. Le politiche pubbliche furono sempre più plasmate dalle teorie, dal linguaggio e dalle tecniche elaborate all’interno della professione economica. E così anche il dibattito politico. Quando un giornalista chiese a Kennedy perché volesse tagliare le tasse, il presidente ripose: “Per stimolare l’economia. Non ha frequentato il corso di base di economia politica?”[2]. Nel 1979 Volcker – già da tempo uscito dal seminterrato in cui lo aveva confinato Martin – diventerà presidente della Fed, nominato dal presidente Carter.
Da quei primi anni cinquanta la “teoria economica al potere” ha mutato pelle più volte, e non ha sempre dato buona prova di sé, al di qua come al di là dell’Atlantico. Ma le oscillazioni del pendolo fra paradigmi teorici diversi sono sempre state accompagnate dalla costante, progressiva, inesorabile colonizzazione della conversazione collettiva da parte di argomenti usciti dalla “fabbrica delle idee” degli economisti.
L’era del coronavirus non fa eccezione. Giornali, telegiornali, siti internet traboccano di articoli su spread, Quantitative Easing, Recovery Fund, eccetera. In Italia la discussione sui temi economici, o economico-istituzionali, sembra ancora più animata che altrove: basti pensare alla guerra di religione in corso sul Meccanismo Europeo di Stabilità.
Peccato che la gran parte dei cittadini abbia spesso pochissimi strumenti per orientarsi in questi dibattiti. Certo non aiuta il fatto che fra le poche fortezze rimaste ancora praticamente impenetrabili all’assalto degli economisti ci sia la scuola italiana, pur estremamente meritevole su molti altri fronti. Con l’eccezione di alcuni istituti tecnici, la scuola secondaria superiore in Italia non fornisce insegnamenti di economia. Col risultato che agli studenti è richiesto di conoscere le vicende della guerra del Peloponneso (431-404 a.C.), ma non di comprendere le vicende dei nostri giorni, in cui un annuncio del presidente della Banca Centrale Europea può dominare il dibattito politico per intere settimane, o mesi, o addirittura anni (è il caso, ad esempio, del whatever it takes di Mario Draghi).
Fornire agli studenti una alfabetizzazione economica e finanziaria di base significherebbe formare cittadini e professionisti più consapevoli. E anche tutelare quei settori sociali più esposti a cadere vittime dell’asimmetria fra “chi sa” (o può pagare “chi sa” per “sapere al suo posto”) e “chi non sa”: i recenti crack bancari in Italia hanno sollevato il velo su comportamenti spesso scorretti degli istituti di credito, ma anche sulla sconcertante inconsapevolezza di molti risparmiatori sui rischi connessi ai propri investimenti.
C’è una obiezione che a volte si muove all’insegnamento dell’economia nelle scuole, ma che forse trova le proprie origini in una critica della disciplina economica in sé, o meglio dello stato dell’arte della teoria economia prevalente. Lungi dal promuovere maggiore capacità di analisi della realtà e spirito critico, l’economia “dei manuali” prende spesso le forme di un esercizio astratto e autoreferenziale, o peggio di una celebrazione acritica di discutibili – e per nulla scientifici – orientamenti ideologici. Non si tratta di una obiezione del tutto infondata. In un articolo del 2016, “Il guaio della Macroeconomia”, il premio Nobel Paul Romer ha delineato un quadro abbastanza deprimente della teoria economica contemporanea: in macroeconomia “abbiamo assistito a tre decenni di regresso intellettuale”, ha scritto l’ex capo economista della Banca Mondiale. Ma questa è solo una parte della realtà. Ed è se mai un argomento per promuovere maggiore impegno, maggiore rigore e anche maggiore pluralismo nello studio e nell’insegnamento dell’economia. D’altra parte non tutti gli economisti e non tutti i modelli macroeconomici possono essere ricondotti alla “pseudoscienza” contro cui se l’è presa Romer. E anche se si condividessero le riserve di Romer verso una parte consistente della teoria economica contemporanea, comunque non verrebbe meno l’esigenza di studiarla, visto l’impatto enorme che essa ha avuto nel plasmare le istituzioni in cui viviamo e le politiche da esse promosse.
A chi ancora diffida dell’opportunità di avvicinare i ragazzi delle scuole italiane allo studio dell’economia, perché in fondo diffida dell’economia “dei manuali”, si potrebbe ricordare la celebre provocazione di Joan Robinson, che certo non era da meno di Romer nella severità delle proprie critiche all’ortodossia del suo tempo: l’economia serve in primo luogo ad “apprendere come evitare di essere ingannati dagli economisti”.
Note
[1] L’aneddoto è raccontato in Benyamin Appelbaum, “The economists’ hour” (2019, Picador, p. 3).
[2] L’aneddoto è raccontato in Gregory Mankiw, “Macroeconomia” (2004, Zanichelli, p. 190).
* Emilio Carnevali, economista del Goverment Economic Service (Regno Unito). La responsabilità per le idee espresse nell’articolo è interamente dell’autore e non coinvolge l’istituzione di appartenenza.