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Perché il rapporto Draghi non è il piano Delors

Il piano intende colmare il profondo gap europeo nell’innovazione e nella ricerca, incluso nel settore difesa. Ma i limiti maggiori riguardano la governance, tanto che l’enorme investimento richiesto rischierebbe di trasformarsi in un gigantesco bancomat per le industrie.

Premessa

Il rapporto Draghi (The future of European competitiveness – Il futuro della competitività europea -) è diviso in due parti: la prima descrive le difficoltà economiche e sociali dell’Europa rispetto ai principali competitori internazionali; la seconda parte delinea alcuni obbiettivi tecno-economici che dovrebbero restituire alla stessa Europa un minimo di progettualità nei settori strategici. Si tratta di dieci obbiettivi collegati ad altrettanti settori (energia, materie prime critiche, digitalizzazione e tecnologie avanzate, industrie ad alta intensità energetica, tecnologie pulite, automotive, difesa, spazio, farmaceutico, trasporti), e cinque missioni legate alle politiche di “orizzonte” (accelerare l’innovazione, colmare il divario di competenze, sostenere gli investimenti, rinnovare la concorrenza, rafforzare governance). Le proposte si distribuiscono su poco meno di 400 pagine, di cui 14 legate alla difesa. Il report (parte I°) inizia con “Il punto di partenza: un nuovo paesaggio per l’Europa”; si tratta di una presa di coscienza della vulnerabilità europea nel consesso internazionale rispetto a tre grandi trasformazioni: la necessità di accelerare l’innovazione e trovare nuovi motori di crescita; di ridurre i prezzi elevati dell’energia, continuando la decarbonizzare e passare a un’economia circolare; di reagire ad una geopolitica meno stabile, in cui le dipendenze stanno diventando vulnerabili e l’Europa non può più contare su altri per la sua sicurezza. Queste nuove e inedite sfide, in realtà erano state denunciate da molti commentatori e ricerche, dovrebbero (1) colmare il divario di innovazione, (2) elaborare un piano congiunto di decarbonizzazione e competitività, (3) aumentare la sicurezza e ridurre le dipendenze, (4) finanziare gli investimenti e (5) rafforzare la governance.

Qualora il report Draghi fosse condiviso da tutti i Paesi europei coinvolti, si tratterebbe di una rivoluzione o di un nuovo inizio per la comunità europea. Se fosse discusso seriamente, mentre ho il sospetto che tra breve il report potrebbe riempire qualche cassetto di una scrivania della Commissione Europea, sarebbe una griglia su cui declinare alcune questioni che a torto o ragione l’Europa deve affrontare. In altri termini, potrebbe diventare un oggetto di discussione equivalente all’indimenticabile Piano Delors1 .

Inoltre, per raggiungere gli obiettivi delineati nel rapporto, sarebbero necessari degli investimenti aggiuntivi annuali tra i 750 e 800 miliardi di euro, corrispondente al 4,4 e/o il 4,7% del PIL dell’UE del 2023. In altri termini, la quota degli investimenti sul PIL passerebbe dal 22% al 27%. Sono risorse enormi e non inferiori a quelle stanziate da USA e Cina, sebbene la struttura e il governo europeo faticherebbe non poco a mettere a terra tutto questo denaro: l’amministrazione pubblica europea è piegata sul controllo della finanza pubblica degli Stati europei e non ha mai esercitato un qualche potere di intervento diretto nel sistema economico. Inoltre dobbiamo considerare la difficoltà di alcuni paesi europei a mettere a terra le risorse di NGEU (Next generation EU), cioè 700 miliardi di euro distribuiti su un arco temporale lungo 5 anni e che valgono poco più di un punto percentuale di PIL annuo europeo. Un altro passaggio importante è legato al progetto Next generation EU (NGEU): la matrice e le finalità sottese a questo progetto dovrebbero essere la base del progetto economico europeo.

Il piano Draghi e l’economia pubblica

L’analisi del rapporto Draghi, inevitabilmente, passa da una breve rassegna degli obbiettivi e finalità della spesa pubblica. Infatti, dobbiamo domandarci se e come il rapporto Draghi sia o meno coerente con i principi e le missioni della spesa pubblica. Se in generale lo sviluppo economico di un Paese è legato alla trasformazione dell’apparato produttivo, con innovazioni tecnologiche e organizzative, che porta ad ampliare la capacità produttiva e aumentare la produttività per addetto, permettendo di raggiungere stabilmente un più elevato livello di reddito reale pro capite, questa dinamica solleva molti aspetti sociali e politici, cioè la necessità di coordinare consumi, investimenti privati, spesa pubblica, cercando di consolidare un retroterra di conoscenze sufficiente per sviluppare un’autonoma capacità innovativa, tale da assicurare una crescita economica sostenibile. L’intervento pubblico funzionale 2, per definizione, dovrebbe:

  1. individuare la migliore allocazione delle risorse e ripartirle tra privato e pubblico;
  2. assicurare che la crescita del Paese (Europa) sia almeno in linea con la crescita demografica e l’innovazione tecnologica;
  3. stabilizzare la crescita del reddito del Paese (Europa) e intervenire qualora si manifestasse una crisi sia essa di eccesso di crescita e sia essa di bassa crescita;
  4. realizzare una corretta redistribuzione del reddito per evitare che il reddito e la ricchezza si polarizzi nelle mani di gruppi sociali ristretti.

In particolare, dobbiamo domandarci se il rapporto Draghi permette di migliorare (1) l’efficienza nell’allocazione delle risorse tra pubblico e privato; (2) lo sviluppo economico sostenibile sia nel breve che nel lungo periodo; (3) la stabilità del reddito nazionale; (4) la redistribuzione del reddito. Inoltre, nel nuovo scenario geopolitico, dobbiamo anche chiederci se e come la finanza pubblica europea, proporzionale all’emissione di titoli pubblici europei, possa diventare un intervento macroeconomico capace di condizionare l’allocazione delle risorse private, così come diventare un intervento microeconomico che assegni alla pubblica amministrazione la capacità di realizzare beni e servizi tesi a qualificare gli investimenti privati. Questa area di intervento è tanto più urgente dal momento in cui “i responsabili politici devono incoraggiare non solo la ricerca e lo sviluppo (R&S), ma anche un’allocazione più efficace delle risorse (…); Quando i giocatori dominanti danno priorità a mosse strategiche piuttosto che a una vera innovazione, l’economia nel suo insieme perde quasi sicuramente opportunità di crescita potenziali3.

La sfida europea del bilancio pubblico

Come già ricordato, delineare un fabbisogno finanziario di 800 miliardi di euro, utilizzare gli aiuti di Stato per progetti comuni, semplificare la struttura del bilancio per raggiungere una scala sufficiente a sostenere i progetti strategici, ridurre il numero di tutti i programmi di finanziamento, emettere strumenti di debito comune, che verrebbero utilizzati per finanziare progetti di investimento congiunti volti ad aumentare la competitività e la sicurezza europea, pur accompagnati da garanzie (pubbliche?), sono iniziative che delineano un vero e proprio bilancio pubblico europeo. Sebbene la prima parte del rapporto utilizzi la parola tasse solo 20 volte e la seconda parte più di 150 volte, legata quasi sempre alla dizione tax credit – non proprio la via maestra per garantire la crescita degli investimenti pubblici – si osserva nel rapporto la necessità di armonizzare il diritto societario e di insolvenza, il diritto del lavoro e la fiscalità. 

In realtà, il bilancio pubblico delineato da Draghi manca clamorosamente di uno dei grandi obbiettivi di finanza pubblica, cioè quello di individuare la migliore l’allocazione delle risorse e ripartirle tra privato e pubblico. Draghi non immagina nessuna public utility strategica europea al netto delle Agenzie esistenti. Non solo la dizione public utility non è mai utilizzata, ma nel rapporto non si delinea nemmeno un percorso teso a creare public utility di interesse generale. Indiscutibilmente la pubblica amministrazione europea non ha la dotazione tecnica per occuparsi di utility, ma senza creare i presupposti di una loro creazione svuota il bilancio pubblico europeo di uno degli strumenti essenziali per implementare una buona politica economica, e industriale in particolare. Senza società pubbliche europee, sostanzialmente, il 4% del PIL europeo di nuovi investimenti rischia di diventare un bancomat a favore del sistema privato senza che vi sia un concorrente pubblico capace di condizionare e guidare le necessarie trasformazioni economiche e sociali. Il mercato sussidiato diventerebbe, pur indirizzato nei settori innovativi, l’alfa e l’omega della politica economica europea. 

L’Europa fondata sulla conoscenza

La letteratura scientifica sottolinea come e quanto il ritardo economico europeo sia direttamente proporzionale alla propria specializzazione produttiva e alla bassa propensione alla ricerca e sviluppo; la specializzazione condiziona la ricerca e sviluppo 4. In effetti, il livello della spesa in ricerca e sviluppo europea è coerente con la struttura economica. Il rapporto Draghi riconosce questo particolare tratto dell’economia europea, e cerca di indicare una strada più o meno plausibile per rigenerare tutta l’economia europea tentando di colmare il divario di innovazione, in particolare attraverso l’integrazione dell’intelligenza artificiale “verticale” nell’industria europea. Nel rapporto Draghi si sottolinea che “alla base della debolezza dell’Europa nel settore delle tecnologie digitali c’è una struttura industriale statica che produce un circolo vizioso di bassi investimenti e bassa innovazione”, così come “la spesa pubblica per la ricerca e l’innovazione in Europa manca di scala ed è insufficientemente focalizzata sull’innovazione rivoluzionaria”. Draghi ricorda quanto e come la dominanza dei fornitori statunitensi condizioni la crescita europea; l’UE dovrebbe trovare una via di mezzo tra promuovere la propria industria cloud domestica e garantire l’accesso alle tecnologie di cui ha bisogno. Ciò solleva questioni di politica industriale fondamentali: l’implementazione di nuove tecnologie e la dimensione di scala adeguate a sviluppare una ricerca e sviluppo, secondo il rapporto Draghi, necessita di un approfondimento del mercato unico al fine di raggiungere una dimensione sufficiente per accelerare l’adozione di tecnologie avanzate. 

Anche le politiche ambientali ed energetiche sono piegate sullo sviluppo delle conoscenze, tanto più che l’Europa è stata un leader mondiale nell’innovazione delle tecnologie pulite, ma ha sprecato i vantaggi acquisiti nelle fasi iniziali a causa delle debolezze nel suo ecosistema di innovazione, tanto più che “il potenziale di innovazione dell’Europa non si è tradotto in una superiorità manifatturiera nel settore delle tecnologie pulite, nonostante la grandezza del suo mercato interno” (p. 38). Per esempio, “il miglioramento delle prospettive dell’UE nell’industria delle batterie dimostra che un impegno politico mirato può avere successo, ma i maggiori beneficiari potrebbero essere attori non appartenenti all’UE (p. 39). In effetti, se il trasporto è tra i settori più inquinati, proprio il trasporto dovrebbe svolgere un ruolo cruciale nella decarbonizzazione dell’economia dell’UE, ma l’esito finale dipende da una pianificazione europea (p. 40).

Economia di guerra?

L’Europa ha scelto come politica economica l’economia di guerra? La domanda è legittima, data la guerra in Ucraina e quanto succede in Medioriente. Il rapporto Draghi sottolinea la vulnerabilità europea rispetto al consesso internazionale e, quindi, l’esigenza di rafforzare la difesa e la capacità industriale, sebbene vincolata alla cooperazione dei Paesi europei. Da un lato il rapporto Draghi sottolinea come “l’industria della difesa europea soffra non solo di una minore spesa per la difesa, ma anche di una mancanza di attenzione allo sviluppo tecnologico” (p. 51), dall’altro lato ricorda che “l’insufficiente aggregazione e coordinamento della spesa pubblica in Europa aggrava la frammentazione industriale” (p. 51). La proposta di Draghi richiama, quindi, a un coordinamento del settore: “In assenza di una spesa comune europea, le azioni politiche per il settore della difesa devono concentrarsi sull’aggregazione della domanda e sull’integrazione delle risorse industriali della difesa” (p. 53). Cosa si cela dietro le proposte di Draghi rispetto al settore difesa? Sebbene sia chiara l’alleanza strategica con gli Stati Uniti, emerge anche un altro sentimento: “La scelta di acquistare (sistemi d’arma) dagli Stati Uniti può essere giustificata in alcuni casi perché l’UE non ha alcuni prodotti nel suo catalogo, ma in molti altri casi esiste un equivalente europeo, o potrebbe essere reso rapidamente disponibile dall’industria della difesa europea”. Se il rafforzamento del settore rientra nelle corde del rapporto, sembra delinearsi anche una sorta di autonomia dagli Stati Uniti. Un esito inatteso se consideriamo il monopolio USA nel settore della difesa.

Prime considerazioni

Il rapporto Draghi ha il merito di riaprire la discussione sugli indirizzi di politica economica e industriale europea. Se il nuovo Patto di Stabilità Europeo è una camicia di forza per il bilancio pubblico per la maggior parte dei Paesi di Area euro, l’arretramento dell’economia europea nel consesso internazionale suggerisce una azione collettiva capace di compensare la deflazione sottesa al nuovo Patto. Il PIL europeo sul totale di quello OCSE è in contrazione dal 1995, mentre quello USA cresce lentamente e quello cinese si consolida al secondo posto, posizionandosi dietro a quello statunitense.

Sebbene il PIL sia un indicatore sintetico di molte variabili economiche, investimenti, consumi e livello della spesa pubblica, indiscutibilmente l’Europa è arretrata nel consesso internazionale; il pareggio di bilancio degli Stati doveva essere compensato da politiche macroeconomiche europee, ma il bilancio pubblico europeo è rimasto su livelli di poco superiori all’1% del PIL. L’esito finale è stato quello di una crescita contenuta e trainata dagli avanzi di parte corrente della bilancia dei pagamenti; non è un mistero che tutti i governi USA hanno contrastato e denunciato i continui e ripetuti avanzi dell’Europa. In effetti, l’Europa ha fondato la propria crescita sulla domanda estera e questa politica prima o poi avrebbe sollevato delle dispute internazionali, in particolare proprio tra USA ed Europa.

Sebbene lo sforzo finanziario annuo del piano Draghi sia enorme, senza un bilancio pubblico europeo finanziato da entrate fiscali autonome e un apparato adeguato a coordinare e implementare gli investimenti indicati, l’esito di questi investimenti potrebbe non essere quello desiderato. L’assenza di una analisi di impatto degli investimenti delineati, sorprendente se consideriamo che la cornice economica di NGEU, estremamente vincolante in termini di occupazione, crescita e riduzione dei gas serra, è presa come paradigma. Tutte le iniziative delineate sono semplicemente dei buoni propositi di cui non sappiamo l’impatto sociale.  In altri termini, con gli investimenti destinati all’energia, all’ambiente, all’intelligenza artificiale, alla difesa o automotive, come e quanto può crescere il valore aggiunto? Quanta occupazione sarebbe creata e/o sostituita? Le importazioni legate a questi investimenti aumentano o diminuiscono? Inoltre il posizionamento del tessuto economico per settore (NACE) come si colloca nella catena del valore internazionale? Draghi ha sostanzialmente delineato un orizzonte, che necessita di ulteriori studi di fattibilità e statistica. Quindi il rapporto Draghi è un catalogo di buone intenzioni che necessitano di ulteriori sforzi conoscitivi. Si potrebbe anche azzardare che Draghi conosca molto bene le debolezze dei settori economici europei, ma abbia sorvolato per evitare i classici conflitti di potere interni a tutte le categorie sociali. Avrebbe anche potuto delineare una iniziativa pubblica nei beni di merito, così come la nascita di soggetti industriali pubblico-privati nei settori in cui si osserva una certa debolezza e nei settori che si trovano alla frontiera della ricerca. 

Il piano Draghi è una sorta di libro bianco, meno impegnativo di quello fatto da Delors, che potrebbe aprire una discussione seria. In particolare, occorre domandarsi: chi e quale sarebbe il soggetto che più e meglio di altri dovrebbe guidare la lunga e profonda transizione economica europea?

Grafici 

NOTE:

1  Il libro bianco, presentato nel 1992 in piena fase recessiva dal presidente della Commissione europea Delors ai governi degli Stati membri, univa in un quadro d’insieme politiche europee per la crescita, la competitività e l’occupazione. 

2Per raggiungere taluni scopi lo Stato si avvale, oltre che dell’attività di prelievo e di spesa attuata tramite il bilancio, anche di imprese pubbliche, regolamentazione dell’attività privata, politica monetaria e del controllo del credito (in tal caso di bilancio funzionale). 

3 Ufuk Akcigit, 2024, THE INNOVATION PARADOX, ed. F&D magazine, IMF, https://links-1.govdelivery.com/CL0/https:%2F%2Fwww.imf.org%2Fen%2FPublications%2Ffandd%2Fissues%2F2024%2F09%2Fthe-innovation-paradox-ufuk-akcigit%3Futm_medium=email%26utm_source=govdelivery/4/01000191ddaac4bd-5ff8929b-653c-48f5-8279-a4f48a20fa22-000000/OV4guuiO5lk0RHwoOdTI80-mJIig9E2HnaL_lVrSW3U=369

4 Maranzano, P., Variato, A. M., & Romano, R. (2022). Politica economica ed evoluzione di struttura: una comparazione europea attraverso gli arcipelaghi settoriali. Economia & lavoro58(2), 171-190; Maranzano, P., & Romano, R. (2023, August). The European Economic Transition before, during, and after the Pandemic through the War in Ukraine. In Forum for Social Economics (pp. 1-26). Routledge; Cresti, L., Lucchese, M., & Pianta, M. (2020). Una politica industriale per il dopo-pandemia in Italia. L’industria41(4), 607-627; Guarascio, D. (2020). R. Bellofiore, F. Garibaldo, M. Mortagua, euro al capolinea? La vera natura della crisi europea. Economia & lavoro54(2), 179-184.