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Perché il Giappone è differente?

Proprio a fronte delle implicazioni più inquietanti della stagnazione economica nei paesi dell’area Euro, l’esperienza del Giappone torna oggi a suscitare nuova attenzione. Perchè l’elevata attivazione del lavoro anche in un contesto di bassa crescita, e più spesso, di deflazione, appare come una esperienza apparentemente anomala

I confronti internazionali per le performances dei mercati del lavoro tornano oggi di rilevante attualità. Perché i tassi di disoccupazione (o di occupazione) divergono anche di molto fra paesi, anche a fronte di una loro comune esposizione ai trend strutturali ed eventi ciclici che agiscono oramai su una scala globale ?

Il pensiero “mainstream”, nell’accademia, ma in modo ancor più insistente e pedante, nella divulgazione del “verbo” da parte delle istituzioni internazionali quali il FMI, OCSE, ecc., associa regole e caratteristiche istituzionali dei mercati nazionali del lavoro alla loro performance di attivazione occupazionale. Di qui, l’esemplificazione per paesi virtuosi, che devono ispirare, in qualità di “benchmark”, i percorsi di riforma dei paesi “deficitari”. Ma indagini più approfondite, o il semplice passaggio dei cicli, hanno spesso rivelato le fragilità di questi “modelli”. Spagna ed Irlanda erano considerati casi esemplari negli anni novanta; il caso olandese con tassi di occupazione fra i più elevati si è rivelato associato alla più elevata incidenza di un lavoro “part-time” nel mondo (fino all’80% fra le donne). Oggi, nel contesto europeo, la storia di successo esemplare si identifica con il “Modell Deutschland”.

Chi scrive crede che gli esiti occupazionali siano, principalmente, il risultato delle dotazioni di capacità tecnologiche e di capitale umano dei paesi. Gli istituti regolativi, le prassi di relazioni industriali, l’efficienza dei servizi di supporto a migliori esiti occupazionali, sono fattori incidenti, ma quando agiscono in complementarità al dinamismo di fondo di un’economia. Ancora, le “success stories” spesso hanno limiti e lati oscuri, spesso sottovalutati dalla prosa elogiativa dei rapporti ufficiali. Ma sul modello germanico lascio spazio alla riflessione dei più competenti.

La mia storia ed esperienza mi portano ad un rinnovato interesse per una riflessione sul caso del Giappone: paese certo geograficamente e culturalmente più distante, ma che condivide con contesti europei di paesi “maturi” problematiche quali l’emergere dei nuovi competitors, fenomeni di delocalizzazione industriale, tassi di crescita mediamente modesti, l’invecchiamento della popolazione, ed altri ancora. L’attenzione degli osservatori internazionali sul “modello” giapponese era stata ampia intorno agli anni ottanta del secolo passato, quando il successo, e talvolta il primato, della sua capacità manifatturiera aveva attratto l’interesse degli studiosi intorno alle “specificità giapponesi”, per il contesto istituzionale e in particolare per gli aspetti funzionali del sistema di relazioni industriale e organizzazione del lavoro. “Life-term Employment”, la flessibilità funzionale degli orari e delle remunerazioni di fatto legate alla incidenza delle componenti di “bonuses”, la concertazione, ogni anno ad inizio primavera, delle concessioni salariali legate a previsioni o obiettivi di produttività: queste, ed altre caratteristiche di un modello “tipicamente nipponico” vennero allora proposte come caratteristiche contestuali alla radice della buona produttività, e bassa conflittualità, del lavoro in Giappone.

Il “decennio perduto” degli anni novanta, con il crollo della bolla immobiliare seguita da una prolungata stagnazione, associata anche ad una diffusa sofferenza del sistema bancario e finanziario in senso più lato, hanno forse contribuito a ridurre a livello internazionale la percezione di valenza positiva del modello giapponese. L’emergere, più recentemente, della Cina, come potenza egemone nel contesto Est-asiatico, ha acuito il senso di una “marginalità insulare” del Giappone nel contesto geo-politico.

Paradossalmente, l’esperienza del Giappone torna oggi a suscitare nuova attenzione, proprio a fronte delle implicazioni più inquietanti della stagnazione economica nei paesi dell’area Euro. L’esperienza di “ristagno deflazionistico” è stata, come noto, anticipata di due decenni precisamente dal Giappone. Una politica espansionistica per aggredire la deflazione (e ancor più, le aspettative deflazionistiche) è oggi al centro della “missione” proclamata dal governo di S. Abe (percepito come il “più a destra” nella esperienza post-bellica).

I prezzi al consumo in Giappone hanno segnato tassi negativi di variazione in 11 degli ultimi 20 anni, con pochi episodi inflattivi (appena +1.8 % nel 1997 e +1,4% nel 2008) che coincidono con gli aumenti delle aliquote dell’imposizione indiretta. Per i prezzi alla produzione, il relativo indice, con 2010=100, si situa adesso intorno a 98, rispetto a 110 del 1995. Il tasso di crescita del PIL reale da inizio secolo è stato in media annua dello 0,88% (1,22% nell’EU, 2,02% negli USA). Solo negli ultimi due anni, l’impatto di una “Abenomics”1, certamente meno austera del “Fiscal Compact” ha consentito modesti segnali di ripresa lì, a fronte della “double dip” recessiva qui. Al di là di necessari approfondimenti, il quadro macroeconomico di medio termine del Giappone ha segnato lo scenario di un ristagno deflazionistico, prima e più persistentemente, rispetto ad altri contesti.2

Ecco allora il punto: accade che, secondo la più recente rilevazione delle forze di lavoro (agosto 2014), il tasso di disoccupazione totale del Giappone viene segnalato al 3,7%. Questo dato, secondo il commento autorevole del governatore della Banca del Giappone H. Kuroda, sarebbe vicino al 3,5%, considerato di “piena occupazione” al netto della componente frizionale.3 Il tasso di disoccupazione, dall’inizio della “Grande Recessione” nel 2008, ha conosciuto un picco al 5,5% a metà 2009, per poi scendere fino al dato attuale; il numero degli occupati, sceso di circa due milioni di unità nella recessione, ha recuperato oggi circa metà di tale calo. A completamento del quadro comparativo, ricordo che, sia per i tassi di occupazione, che per i confronti di uno standard di vita (PIl pro-capite in PPA) i valori giapponesi non risultano molto diversi rispetto a quelli che prevalgono nei contesti europei più avanzati (un vantaggio giapponese, 81% contro 76,5% della UE, per il tasso di occupazione nelle classi centrali; un leggero deficit per il Pil pro-capite in $-PPA, 35317$ contro 36543$; ma il valore è certo superiore a quelli del “sud” dell’Europa…).

Questi tassi di occupazione/disoccupazione sembrano allora di difficile razionalizzazione, a fronte delle performances tutto sommato modeste dei “fondamentali” macroeconomici del medio periodo. Non vale oggi, a mio avviso, il dubbio di una non comparabilità degli indicatori statistici. I criteri standard ILO sono oggi comunemente applicati, e l’ufficio statistico giapponese è forse fra i più accurati nel fornire indagini di dettaglio per composizioni occupazionali, differenziali salariali, ecc.

L’elevata attivazione del lavoro anche in un contesto di bassa crescita, e più spesso, di deflazione, appare pertanto come una esperienza apparentemente anomala, che rinvia ad analisi delle strutture produttive, caratteristiche istituzionali, relazioni industriali, ed infine, delle “norme sociali” in senso più ampio, che possono caratterizzare il caso. Questo richiede studi e riflessioni più approfondite rispetto allo spazio occasionale. Mi limito quindi a richiamare poche caratteristiche di un “sistema giapponese di divisione ed organizzazione sociale del lavoro”, note certamente agli esperti, ma che sfuggono talvolta ad un pubblico più ampio.

Prioritario allora appare ricordare che il Giappone si caratterizza, da sempre, per la polarizzazione duale nei modi di impiego del lavoro. Anche se oggi sono ampiamente diffuse le fattispecie intermedie, l’espressione più radicale di tale dualità si è posta nel contrasto fra un “contratto implicito a vita” (“Life-term Employment”), che ancora copre i mercati “interni” del lavoro di segmenti privilegiati, – “white collars”, ma anche addetti operativi qualificati, presso imprese, o altri enti privati e pubblici, con una certa consistenza dimensionale – da una parte, e la diffusione del c.d. “Arbaito” (allitterazione dal sostantivo tedesco…) dall’altra, in cui fra le parti si concorda, fra “persona e persona”, per la remunerazione oraria e le ore complessive, di un rapporto di lavoro delimitato nel tempo e liberamente terminabile dalle parti. Rimane, in tutto questo, di fatto una discriminazione di genere, per cui i percorsi stabili coprono essenzialmente maschi “prime age”.

La tenuta dell’occupazione, e il suo recupero più recente dalla crisi, appaiono allora di fatto ascrivibili alla crescita di questo comparto di lavori “Hiseiki” (traducibile, letteralmente, come “atipico”). La crescita, ad es. del “part-time”, che rappresenta la parte maggioritaria dei contratti atipici in Giappone, ( e dove la nozione di tempo parziale è assai flessibile, da avvicinarsi a volte ad orari lunghi “quasi full-time”, ma non coperto dalle clausole di protezione tipiche dei contratti a tempo indeterminato) è ben descritta dal grafico, che riportiamo da una relazione recente del governatore della Banca del Giappone.4

Ma la progressione, apparentemente inesorabile al di là delle congiunture cicliche, di un lavoro precario è un fenomeno peculiare, o particolarmente accentuato, in Giappone, rispetto ad altri contesti? Un controllo preliminare su dati OCSE – che forniscono, separatamente, le incidenze dei lavoratori “temporanei” e “part-time” – davano i primi, al 2012, ad una quota del 17,8% in Giappone, a fronte del 15,2% per la EU a 17 paesi. (Per i “part-time”, Giappone 25,2%, EU 21,6%). La dualità fra “LTE” e “Arbaito” in Giappone appare allora certo un caso limite, ma non totalmente alieno, rispetto a pratiche diffuse in contesti a noi più vicini (es. percorsi professionali stabili versus “Minijobs” in Germania, ecc.). Un primo controllo sui dati indica anche che un vecchio mito, quello di una società giapponese relativamente egualitaria”, con scarti fra remunerazione di “managers” e di operativi relativamente contenuti per norma sociale implicita, non vale più, nel contesto odierno di incidenza crescente del lavoro atipico. Gli indicatori di diseguaglianza distributiva segnalano valori non molto diversi rispetto a paesi europei. Ad esempio, per il rapporto “80/20”, fra reddito medio del quintile più alto e quello più basso, indica un valore di 5,7 per il Giappone (es. 5,5 in Italia).

Ma allora, dovremmo ridimensionare le peculiarità di un “modello” giapponese? Siamo di fronte ad una riedizione aggiornata di un capitalismo “renano-nipponico”, che già fu contrapposto al capitalismo “anglosassone” in un notevole saggio di R. Dore?5 In tale contesto, i percorsi più qualificati di istruzione e formazione, insieme alle prassi di una flessibilità “interna” (orari, mansioni, ecc.) continueranno ancora a coprire un segmento primario, se pur in contrazione relativamente al potenziale totale, di lavoro. Cresce quindi, nel frattempo, la quota di popolazione costretta ad offrirsi sul mercato secondario, a redditi modesti se non minimali.

Giappone e Germania presentano, tuttavia, importanti differenze, sia pure all’interno di una comune e resistente vocazione verso produzioni manifatturiere di gamma alta. Vorrei confutare a questo punto un luogo comune, secondo cui l’economia giapponese sarebbe sostenuta in prevalenza da un orientamento “export-led”. Nel confronto internazionale fra paesi avanzati, il Giappone appare anzi fra le economie più “chiuse”: il rapporto Export/PIL (2012) era infatti al 12,1% in Giappone e al 39,9% in Germania! L’integrazione in un “Mercato unico” continentale in un caso, e l’insularità nell’altro, giustificano parte di tale differenza. Bisogna tuttavia riconoscere il fatto, per cui l’attivazione occupazionale in Giappone dipende in misura prioritaria dalle componenti interne della domanda.

L’interrogativo che ci si pone a questo punto è quindi, in quale misura l’elevata occupazione (con bassa crescita) nel caso giapponese sia legata ad una struttura della domanda particolarmente “employment friendly”. Bassa produttività in settori di servizi (ed agricoltura) protetti, l’elevato deficit pubblico, barriere non tariffarie all’import, ecc., sono spesso citati come fattori incidenti. Ma anche le caratteristiche di funzionamento e di aggiustamento ciclico del lavoro, le flessibilità “interne” dei mercati primari ed “esterne” su quelli secondari hanno un loro ruolo. Infine, rimarrebbero da considerare le peculiarità di una “specificità” giapponese nelle norme sociali implicite: ad es., un licenziamento senza “giusta causa” di un dipendente “primario” sarebbe scoraggiato non tanto da norme di legge, ma dalla riprovazione sociale che colpirebbe il datore di lavoro.

Infine, rimangono le difficoltà per giudizi di valore. Bisognerebbe riflettere e distinguere circa le caratteristiche di addizionalità, temporaneità, volontarietà (o piuttosto di discriminazione, persistenza, esclusione) che si possono associare alle fenomenologie di lavoro precario sempre più diffuso. Anche aspetti meno gradevoli, quali la persistenza di una subalternità femminile a dispetto delle legislazioni sulle “pari opportunità”, l’ostilità sociale e il blocco di fatto di un’immigrazione straniera non qualificata, e infine, un governo che invoca l’“orgoglio nazionale” per la ripresa ma evocando suggestioni sgradevoli per i paesi vicini, andrebbero inclusi nella valutazione.

Tutto questo richiede, evidentemente, una riflessione più ampia. Il Giappone rimane in ogni caso, a mia opinione, un caso di rilevante interesse, in una linea di ricerca più ampia che affronti la domanda “why employment rates differ” fra contesti geografici, sociali ed istituzionali diversi, nonostante i comuni vincoli e le circostanze imposte dalla “globalizzazione”.

1 Shinzo Abe, dopo le elezioni della camera bassa (dicembre 2012) e della camera alta (luglio 2013), dispone con il suo partito liberal-democratico, tradizionale formazione di orientamento conservatore del paese, di una maggioranza “monocolore”, dopo anni di governi di coalizioni di breve durata. La retorica dell’Abenomics ricorre alla tradizionale metafora giapponese delle “tre frecce”, che insieme non possono essere spezzate. La prima freccia è una politica fiscale dichiaratamente “keynesiana” che, nonostante un debito pubblico che si stima al 230% del Pil, ha previsto stimoli fiscali per 20,000 miliardi di yen (circa 150 miliardi di euro), prevalentemente sul lato della spesa ( incluso un significativo programma di rafforzamento militare); la seconda “freccia” è affidata alla Banca del Giappone, con la politica aggressiva di quantitative easing e l’annuncio di mantenere il tasso monetario di riferimento allo zero, finché l’obbiettivo di una inflazione positiva vicina al 2% non sarà stato avvicinato; la terza “freccia” rimanda a enunciazioni di “riforme strutturali” atte a favorire competitività e ammodernamento per settori manifatturieri e di servizi del paese. Una valutazione di successi e rischi della Abenomics richiede una ulteriore occasione.

2 I dati comparativi sono elaborati a partire dai database liberamente disponibili presso http://stats.oecd.org.

3 H. Kuroda “Deflation, the Labor Market and QQE”, Remarks at the Economic Policy Symposium held by the Federal Reserve Bank of Kansas City, August 23, 2014, p.1.

4 Chart 3 in Kuroda, cit.

5 R. Dore, Stock Market Capitalism, Welfare Capitalism. Japan and Germany versus the Anglo-Saxons, Oxford University Press, 2000.