Governi e istituzioni internazionali hanno sottovalutato le conseguenze depressive delle politiche di austerità perchè basano le proprie previsioni su modelli irrealistici e con un forte contenuto ideologico. Gli stessi modelli sono alla base delle riforme strutturali che i Governi europei stanno portando avanti.
Negli ultimi anni le previsioni del Governo e delle istituzioni internazionali sull’andamento dell’economia italiana si sono rivelate sistematicamente ottimistiche (come ha ricordato in questi giorni Emiliano Brancaccio). Lo stesso Ministero delle Finanze, nella nota di aggiornamento del Documento di Economia e Finanza 2014[1], riconosce che “tanto i governi quanto gli organismi internazionali hanno ripetutamente peccato di ottimismo e sono stati poi costretti a posticipare le previsioni di ripresa per l’Italia e per l’Area dell’Euro”. (Con involontaria ironia, qualche pagina dopo la parte previsionale del documento annuncia che secondo gli economisti del Ministero la ripresa arriverà tra pochi mesi.)
Prendiamo ad esempio le previsioni del Fondo Monetario Internazionale (FMI), probabilmente il più autorevole tra i previsori istituzionali. Il Fondo Monetario da quattro anni prevede nel suo report di Ottobre l’arrivo imminente della ripresa; ripresa che poi puntualmente non si manifesta (si veda il grafico). Gli stessi errori di sopravvalutazione delle prospettive economiche sono stati compiuti da tutte le principali istituzioni (OCSE, CE, BCE, Governo) e hanno riguardato sostanzialmente tutte le economie dell’Area Euro.
Perchè governi e istituzioni economiche internazionali continuano a prendere cantonate, prevedendo continuamente una ripresa che non arriva mai, mentre l’economia in realtà sprofonda sempre di più nella stagnazione e nella deflazione? Nell’anno in cui l’errore di previsione è stato maggiore (il 2012), il FMI ha riconosciuto pubblicamente di avere “sottostimato i moltiplicatori fiscali”. In altre parole, è stato sottovalutato l’effetto depressivo delle riduzioni della spesa pubblica e degli aumenti di tasse, cioè delle politiche di austerità.
DIETRO LE PREVISIONI SBAGLIATE C’È UN MODELLO DELL’ECONOMIA POCO CREDIBILE…
Il Fondo Monetario Internazionale, così come le altre principali istituzioni, utilizza per elaborare le proprie previsioni dei modelli matematici basati sulla visione ‘neoclassica’ dell’economia. In particolare si tratta dei cosidetti DSGE (Dynamic Stochastic General Equilibrium) models, cioè modelli basati sulla teoria neoclassica dell’equilibrio economico generale[2]. Si tratta di una teoria che ha le sue origini nella seconda metà dell’Ottocento[3], e che è fondata su una visione entusiastica e un pò naive del capitalismo. L’idea di base è che in assenza di imperfezioni e impedimenti, il libero mercato tende a impiegare pienamente ed efficientemente tutti i fattori produttivi e a far crescere l’economia in modo stabile. In una situazione di concorrenza perfetta, il mercato realizzerebbe “il migliore dei mondi possibili”.
Sfortunatamente però la visione neoclassica dell’economia è completamente irrealistica. La teoria dell’equilibrio economico generale[4] infatti funziona solo se si assume che in ogni mercato ci sia un banditore d’asta che consente l’equilibrio istantaneo di domanda e offerta in ogni istante e che le persone siano in grado di prevedere perfettamente il futuro (o alternativamente che ci siano mercati a futuri per tutti i possibili beni e servizi, anche quelli che non sono stati ancora inventati). Questo vale anche per il mercato del lavoro: si assume quindi che non ci possa mai essere disoccupazione involontaria. L’assunzione di piena occupazione dei fattori produttivi è giustificata dalla cosiddetta ‘Legge di Say’, secondo cui tutto ciò che non viene consumato è automaticamente investito, per cui non possono mai verificarsi carenze di domanda aggregata. Tali teorie hanno un contenuto ideologico molto marcato: rappresentano un’apologia del capitalismo non-regolamentato. Ignorano l’importanza della domanda aggregata e delle istituzioni.
I fondatori di questo approccio erano consapevoli dell’altissimo livello di astrazione della teoria, e difficilmente avrebbero consigliato di usarla come base per un modello previsionale. Ad esempio, Frank Hahn, un importante (e argutissimo) economista neoclassico che con i suoi lavori ha contribuito in modo decisivo allo sviluppo della moderna teoria dell’equilibrio economico generale, difendeva il modello sul piano puramente teorico ma era chiarissimo sul fatto che esso rappresenta solo un grande esperimento intellettuale, e riconosceva che che “come teoria su come funziona il mondo, è falsa”[5] (Hahn, 1973, p.324).
…E QUALCHE RITOCCO PSEUDO-KEYNESIANO QUA E LA’ NON È SUFFICIENTE
Per fare si che il modello possa contemplare l’esistenza della disoccupazione almeno nel breve periodo, vengono inseriti nei modelli DSGE degli elementi ad hoc che producono questo risultato. In particolare si introducono nel modello le cosidette rigidità, principalmente nella forma di salari che non sono abbastanza flessibili e impediscono l’incontro della domanda e dell’offerta nel mercato del lavoro. Così le discrepanze tra il modello neoclassico ‘panglossiano’ e l’economia reale vengono spiegate con degli impedimenti, che in alcune circostanze impediscono temporaneamente ai mercati di esprimere pienamente i propri effetti benefici.
Inserire nell’impianto teorico neoclassico delle ‘rigidità’, in modo da ottenere un modello che ha qualche caratteristica pseudo-Keynesiana nel breve periodo, ma che resta neoclassico nel lungo, non appare un modo soddisfacente di correggere i difetti del modello. Ne risulta una visione dell’economia schizofrenica, nella quale le dinamiche di breve termine, nelle quali la domanda può avere qualche influenza sulla crescita, sono completamente sconnesse da quelle di lungo periodo, in cui l’economia converge inevitabilmente verso una posizione ‘naturale’ di pieno impiego, sulla quale le dinamiche della domanda sono totalmente ininfluenti. Come dire che un paziente può essere ammalato ogni singolo giorno dell’anno, ma se prendiamo l’anno nel suo complesso stare benissimo.
Chiaramente, è l’impostazione di base che va cambiata, se l’analisi economica vuole essere in grado di dire qualcosa sul mondo reale e non essere un semplice gioco intellettuale per matematici estrosi. La storia ci insegna che l’evoluzione della domanda aggregata è un fattore fondamentale nella crescita di lungo periodo dell’economia, così come lo sono l’evoluzione del contesto istituzionale e l’intervento dello Stato nell’economia. L’osservazione della realtà mostra chiaramente che la disoccupazione è un elemento strutturale di tutte le economie capitalistiche, non un elemento transitorio di breve periodo, dovuto a impedimenti al funzionamento dei mercati. E’ sbagliato partire dall’assunzione che ci siano nel libero mercato meccanismi che tendono automaticamente alla piena occupazione. In realtà la piena occupazione è stata raggiunta poche volte nella storia delle economie capitalistiche e sempre con il contributo di un forte intervento Statale.
Non tutti gli economisti sono convinti della teoria neoclassica ed esistono delle visioni alternative che attribuiscono alla domanda aggregata il ruolo di motore della crescita e che quindi hanno previsto correttamente che le politiche di austerità avrebbero provocato stagnazione e deflazione. (Per una introduzione sintetica si veda ad esempio questa presentazione di Antonella Stirati ad un convegno organizzato da Rethinking Economics. O le interpretazioni della crisi avanzate nell’ebook Oltre l’Austerità, a cura di Sergio Cesaratto e Massimo Pivetti.)
RIFORME STRUTTURALI? RIPENSIAMOCI
I modelli neoclassici non sono usati soltanto per produrre previsioni sbagliate sull’andamento del PIL. E’ sulla base di queste teorie che sono state concepite le cosiddette ‘riforme strutturali’ che i Governi europei, Renzi in primis, stanno portando avanti. Sulla base di una certa versione di queste teorie si è giustificata l’idea che l’austerità potesse essere ‘espansiva’, cioè portare alla crescita. Secondo gli economisti panglossiani i problemi dell’Italia sono il mercato del lavoro troppo rigido e la spesa pubblica troppo alta. (Per inciso, in Italia la spesa pubblica per abitante è perfettamente in linea con la media OCSE e inferiore a quella dei paesi più ricchi, e la protezione dei lavoratori dipendenti per molti aspetti è inferiore che in Germania). In questo modo si continua a ignorare il principale problema dell’economia italiana – la carenza di domanda aggregata – e si propongono politiche che lo aggravano ulteriormente. Finchè una visione dell’economia ‘panglossiana’, che ha dimostrato di ignorare aspetti determinanti della realtà, continua ad essere la guida delle politiche economiche europee, non c’è da aspettarsi molto di più che stagnazione e deflazione.