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Per una economia di pace

Un libro collettivo per una contro-narrazione delle guerre in corso e del disastro planetario che si sta realizzando attraverso il circuito militar-monetario che lucra sul riarmo dei paesi.

Il libro edito dalla Cittadella Editrice, dal titolo “Uscire dalla guerra, per una economia di pace”, e curato da Antonio De Lellis, Stefano Risso e Rosetta Placido, accoglie 19 contributi da economisti professionisti, filosofi, giornalisti, attivisti di movimenti sociali e cristiani, uniti dal desiderio di costruire una contro-narrazione, indicando alcune delle vere ragioni del disastro umanitario e planetario inedito e terrificante che si sta realizzando.

Secondo gli autori, sembrerebbe profilarsi un sistema economico e sociale fondato sulla guerra. In effetti, i due conflitti più importanti in questo momento, tra Russia e Ucraina e Israele e Palestina, sostengono l’ipotesi di un sistema economico fondato sulla guerra e, quindi, la necessità di costruire una economia di pace che si ispiri al disarmo, alla produzione di energie rinnovabili e diffuse, unitamente ad una economia pubblica e comunitaria che ci liberi dal consumismo e dalla competizione, abbracciando la cooperazione e l’equità anche nei rapporti internazionali. Ovviamente gli autori delineano un orizzonte possibile, ma sono altrettanto consapevoli che occorra del tempo per implementarla, soprattutto lavorando su un piano sociale e culturale manomesso da una narrazione che inibisce qualsiasi riflessione che non sia quella ufficiale.

I poteri che sostengono l’economia di guerra sono sicuramente da ascrivere al militarismo e al neoliberismo, sostenute da occidente a oriente, ma la pace si costruisce prevenendo i conflitti anche quando non fanno rumore, e rimettendo al centro la piena riaffermazione della dignità della persona umana e il rispetto del bene comune universale che la pace disarmata richiama e riafferma.

Tra il 2000 e il 2020 le spese militari sono aumentate. Nel 2021 le spese militari ammontano a 767 mld di dollari per gli Usa e al secondo posto c’è la Cina, con 1/3 degli Usa, ma con un tasso di crescita del 440% dal 2000 e il 2021, e poi India 131 % tasso di incremento e Arabia Saudita. La Francia al 17% e la Germania al 23%. Questi valori sono la testimonianza che man mano che si polarizza la situazione tra paesi creditori e paesi debitori si vanno ad accumulare sempre più armi.Il ribaltamento di posizioni nello scacchiere internazionale che stiamo vivendo non è affatto casuale. Esso rappresenta una conseguenza dei grandi squilibri che si sono formati negli anni dell’apertura globale dei mercati, con gli Stati Uniti e gran parte dei paesi occidentali ad accumulare disavanzi esteri e posizioni nette sull’estero passive, e la Cina, alcuni paesi emergenti ed esportatori di energia e in parte persino la Russia a veder crescere, simmetricamente, i surplus e i crediti verso l’estero. Uno sbilanciamento che col tempo tenderebbe logicamente a sfociare in un processo di centralizzazione dei capitali, con i creditori a liquidare, acquisire e fagocitare i debitori. L’atteggiamento occidentale è rappresentato da una difesa contro i rischi di una centralizzazione del capitale a guida cinese. Il problema è che a loro volta i creditori possono reagire, tentando di espandere lo spazio di influenza economica tramite lo sfondamento delle barriere protezioniste con mezzi ancor più spregiudicati, al limite militari. È una lunga e complessa catena di azioni e reazioni, che sospinge l’intero sistema verso una vera e propria guerra capitalista.

Sebbene la semplice fotografia dell’esistente induca a un certo pessimismo, l’idea di un sistema economico (capitalistico) fondato sulla spesa militare sembra precipitare davanti alla realtà dei numeri. In effetti, i moltiplicatori della spesa militare sono inferiori a qualsiasi altra spesa, in particolare rispetto a quelle per ambiente, energia e sociale. Secondo il dossier pubblicato da Sbilanciamoci nel marzo del 2023 a firma di Gianni Aliotti, l’idea che l’industria militare sia una trave portante del sistema economico e occupazionale è solo un mito, sfatato dai dati ufficiali del settore. Negli ultimi dieci anni ciò che è aumentato è solo il fatturato – e i profitti, lievitati del 773% – mentre gli occupati sono calati del 16%.

La guerra in Ucraina è parte di un più ampio e complesso sistema di regolazione dei poteri geo-politici. L’Ucraina sembrerebbe, quindi, una sorta di agnello sacrificale utile per riscrivere la geografia economica internazionale. Infatti, se ci soffermiamo sulle cause e sugli scenari della guerra in Ucraina possiamo notare che a marzo 2022 il debito estero ucraino consisteva in 130 miliardi $, di cui la metà pubblico e la metà privato, cui andavano aggiunti altri 40 di debito pubblico interno. Per capire come si fosse giunti ad un carico così ingente occorre tornare indietro di qualche anno. Solo due mesi dopo l’entrata in carica del nuovo governo filoccidentale di Arseniy Yatsenyuk (febbraio 2014 – aprile 2016) il Fondo monetario internazionale decideva lo stanziamento di 17 miliardi $ a suo favore. Negli anni seguenti avrebbe approvato altri finanziamenti: l’11 marzo 2015 altri 17,5 mld per 4 anni; il 18 dicembre 2018 ulteriori 3,8 mld per 14 mesi. Nello stesso lasso di tempo 2014-2021 la Ue e gli enti finanziari ad essa collegati avrebbero finanziato il paese per circa 17 miliardi di € in prestiti e sovvenzioni, mentre gli Usa, a fronte di un massiccio finanziamento per il rafforzamento militare si sarebbero limitati a 5 mld $ per il settore civile. In questi anni 2014-21 una lunga serie di provvedimenti si sono abbattuti sul paese come risultato di tali pressioni: spinte sistematiche verso la deregolamentazione del vasto settore agricolo; creazione di un clima pro-imprese sul piano fiscale e regolativo; licenziamento di circa 50.000 medici e la chiusura di 332 ospedali; tentativi di privatizzazione di circa 3000 enti statali. Dopo lo scoppio della guerra l’incontro, che è stato ribattezzato Ukraine Reconstruction Conference e che si è tenuto a Lugano nel 2022 e a Londra nel 2023, mostra una impressionante continuità in direzione mercatista, si prescrive infatti la “diminuzione della spesa pubblica”, “efficienza del sistema fiscale” e “deregolamentazione”; si consiglia di “ridurre ulteriormente le dimensioni del governo” attraverso la privatizzazione e altre riforme, liberalizzando i mercati dei capitali e garantendo la “libertà di investimento”, creando così un “clima di investimento migliore e più familiare per gli investimenti diretti Ue e globali ”. Resta molto dubbio come il paese, rovinato dalla guerra, possa risultare attrattivo. Una stima dei danni sino a questo momento indica la cifra di 486 miliardi $, e pare improbabile che il FMI e gli Stati occidentali possano coprire la somma. La domanda che possiamo sollevare è la seguente: potrebbe l’Europa adottare un piano di ricostruzione dell’Ucraina, per un valore finanziario non inferiore a 500 mld di euro, quando fatica a immaginare dei provvedimenti adeguati a sostenere la transizione ambientale e tecnologica interna? Se non riesce a trovare (programmare) una spesa “corrente” di un trilione di euro cada anno, può recuperare 500 mld per ricostruire l’Ucraina?

Quello che è emerso nelle varie conferenze per la ricostruzione – ovviamente affollate di aziende ansiose di assicurarsi il business della ricostruzione – è la necessità di attirare capitali privati. A tal fine Kiev ha stretto legami con i più potenti soggetti finanziari al mondo: BlackRock, JP Morgan e McKinsey. La loro capacità di convogliare risorse è notevole, ma le opportunità di profitto dovranno essere sostanziose, e sarà inevitabile una cessione di tutte le più importanti risorse del paese. Beni di cui i cittadini ucraini resteranno privi in futuro, anche quando l’uscita del paese dal cono di luce mediatico indurrà presumibilmente a lesinare gli aiuti internazionali.   

È questa l’inedita combinazione di dati che sta alimentando una tendenza generale verso un “equilibrio di guerra”, e che rischia di esondare ben al di là dei confini ucraini. La vera posta in gioco, infatti, è enormemente più grande: la sopravvivenza o la profonda trasformazione delle regole del circuito militar-monetario internazionale attuale.

La discussione aperta dal libro “Uscire dalla guerra, per una economia di pace” non si esaurisce nella denuncia della guerra. Infatti, la nuova geografia economica internazionale necessita di istituzioni dell’economia politica coerenti e capaci di delineare un orizzonte plausibile fondato su relazioni economiche e sociali multipolari. 

In qualche misura, i curatori del libro hanno denunciato la guerra come sistema, ma dietro questa denuncia si cela la necessità di una riflessione puntuale sulla necessità di immaginare e non evocare un nuovo modello di sviluppo.