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Per un pacifismo politico

Nell’epoca della guerra mondiale a pezzi le politiche per il disarmo e la nonviolenza sono destinate a fallire se non si modifica la postura occidentale nelle relazioni internazionali.

Prima che l’appartenenza ad alleanze militari si tratta di mettere in discussione esplicitamente la dottrina della supremazia strategica incorporata nella Nato 360. Una dottrina che, oltre che immorale, alimenta necessariamente il riarmo e la guerra. A questa va contrapposta la proposta dello sviluppo condiviso e della cooperazione globale di fronte alle sfide comuni dell’umanità. Per questo le politiche per la pace per essere efficaci devono mettere al centro la critica della politica estera italiana ed europea. A fianco del pacifismo strumentale e del pacifismo etico, va rilanciato il pacifismo politico. La parola d’ordine della neutralità attiva lanciata dalla Rete Italiana Pace e Disarmo è fondamentale e sarebbe un grave errore lasciarla cadere e per questo il 5 va lanciato con forza l’obiettivo “Trattativa subito”.

Nel suo celebre saggio del 1966 sull’era atomica Norberto Bobbio identificava tre principali filoni del movimento pacifista. Per usare le sue parole: “…il primo strumentale, ovvero la pace attraverso il disarmo, il secondo istituzionale, ovvero la pace attraverso il diritto, il terzo etico e finalistico, ovvero la pace attraverso l’educazione morale…”.

Nel primo filone Bobbio propone di inserire le correnti teoriche e pratiche che concentrano la propria azione sui mezzi (gli strumenti) della guerra distinguendo gli sforzi per distruggere le armi o almeno per ridurne al minimo la quantità e la pericolosità e quelli con lo scopo di sostituire i mezzi violenti con mezzi non-violenti. Si tratta oggi delle tante campagne e delle organizzazioni impegnate, anche a livello internazionale, per il disarmo e per la difesa non armata. 

Nel terzo filone Bobbio inseriva le filosofie che concentrano la propria attenzione sul cambiamento morale e culturale, insistendo sulle culture collettive e sulle pulsioni individuali. Vanno inserite in questo filone le politiche normalmente raccolte nella definizione di Educazione alla pace e alla non-violenza e di costruzione della cultura di pace, a cui molte risorse vengono dedicate dalle religioni e da tanti collettivi e associazioni.

Poi c’è, intermedia tra i due filoni sin qui indicati, la corrente che Bobbio definisce “Istituzionale” o “giuridica”, nella quale egli raccoglieva ritengono si debba affidare la prevenzione della guerra alla politica, con la costruzione di istituzioni internazionali atte ad impedirla (pacifismo giuridico). Si parla qui del pensiero e delle pratiche politiche che affondano le radici nel “Progetto per una pace perpetua” di Kant o che nell’800 ha posto le basi per l’idea teoriche della Società delle Nazioni e poi delle Nazioni Unite.  

Si tratta di quello che definirei il “pacifismo politico” perché affida alla politica ed in particolare alla politica estera e ai rapporti negoziali tra gli Stati, il compito di costruire le condizioni politiche affinché le armi non vengano costruite ed utilizzate, nel mentre che si afferma uno sviluppo della cultura umana che renda la guerra un tabù e la metta “fuori dalla storia”.

Il vasto e multiforme movimento per la pace italiano, riunito nella Rete Italiana Pace e Disarmo e in altre reti e coordinamenti comprende un insieme di organizzazioni, persone, forze politiche che coprono l’intero arco delle correnti pacifiste individuate a suo tempo da Bobbio. Nella Rete e più in generale nel movimento per la pace convivono bene gruppi che si concentrano sulla contestazione delle alleanze militari con coloro che lavorano sulla formazione alla nonviolenza, coordinamenti che si battono per il disarmo atomico con associazioni che dedicano il proprio tempo ad interventi di educazione nelle scuole. Un universo che batte su tutti i tasti del pensiero pacifista anche se non sempre riconoscendo reciprocamente l’altrui indispensabilità e l’interconnessione esistente tra le diverse dimensioni. È questa una ricchezza che andrebbe reciprocamente maggiormente riconosciuta dalle diverse anime del pacifismo Ma sappiamo che la strada dell’unità nella diversità è difficile

Volendo fare una rapidissima disamina dei risultati conseguiti dai movimenti per la pace nel secolo e mezzo che ci divide dalla nascita del pacifismo come movimento politico, che possiamo far risalire convenzionalmente al primo congresso mondiale dei “Friends of Peace” di Londra nel 1843, possiamo misurare contemporaneamente successi e insuccessi.

Sul piano morale e del pensiero sono stati conseguiti importanti risultati. Oggi deliri come “guerra igiene del mondo” non possono più essere nemmeno pronunciati, mentre gli Stati sono costretti ad aggettivare la guerra nei modi più fantasiosi per giustificarla di fronte alla opinione pubblica (guerra umanitaria, difesa preventiva, operazione militare speciale, ecc.). La guerra è stata definita “flagello dell’umanità”, dalla Carta dell’Onu che l’ha messa, almeno giuridicamente, fuorilegge. La Chiesa cattolica ha, di fatto, ritrattato la teoria della guerra giusta che datava da Tommaso d’Aquino. Se pensiamo che il secolo scorso usciva da un periodo di 300 anni di guerre intraeuropee e coloniali e dal riconoscimento vestfaliano del “diritto alla guerra” in capo ad ogni Stato, l’avanzamento è certamente notevole.

È questo certamente il risultato dell’incessante lavoro degli uomini e delle donne di pace, ma nasce anche dall’impressione che nelle menti e nell’esperienza di milioni di uomini e di donne hanno fatto la Prima e la Seconda guerra mondiale, con l’inclusione nel perimetro della guerra e del terrore dell’intera popolazione civile. Insomma, questi risultati sono costati cento milioni di morti.

Più ambigui sono i risultati sul terreno del disarmo. 

Il processo di legiferazione internazionale sul disarmo ha portato a importanti risultati come i trattati di non proliferazione nucleare e di bando delle armi batteriologiche e chimiche, ma le grandi potenze, Usa, Cina e Russia, da 30 anni non hanno più firmato nessuno dei trattati successivi (mine antiuomo, bombe a grappolo, commercio delle armi, bando nucleare) ed hanno attivamente boicottato la discussione sui killer robots.

Nei settant’anni successivi al secondo conflitto mondiale le spese militari, a prezzi correnti, sono costantemente aumentate. Ci sono stati solo due brevi periodi in cui si è temporaneamente invertita questa tendenza: i primi anni ‘60 e i primi anni ‘90. Entrambi i periodi hanno coinciso con determinate politiche internazionali.

Negli anni 60 è il periodo della politica della distensione seguita alla crisi dei missili di Cuba, intrapresa da Kennedy che trovò interlocuzione nella dottrina della coesistenza pacifica di Kruscev e fu favorita dal

movimento dei paesi non allineati. Sono stati quelli anche gli anni del massimo sviluppo del movimento mondiale per la pace, con la contestazione della guerra in Vietnam, in Italia erano i tempi dei partigiani della pace, dell’attivismo di La Pira, della prima marcia Perugia-Assisi, non per caso convocata da Capitini proprio nel 1960. 

Il secondo breve periodo in cui le spese militari sono state ridotte sono i primi anni successivi al crollo del sistema sovietico. È stato un periodo di grande speranza. Reagan e Gorbaciov lavorarono per un superamento della contrapposizione e per l’inclusione della Russia. Furono firmati il trattato INF, poi il trattato Start e l’ABM. Un processo di disarmo che ridusse grandemente il numero di testate nucleari esistenti e in cui addirittura ambedue gli stati accettarono ispezioni reciproche dei rispettivi siti nucleari. In Italia in quel clima fu possibile ottenere un’importante vittoria del movimento pacifista: l’approvazione della legge 185 sul controllo del commercio di armamenti. In Europa furono addirittura varati strumenti per la riconversione delle industrie di produzione di armamenti.

Sembrerebbe, se si può così sintetizzare, che il movimento per la pace riesce a incidere e a conseguire risultati o a seguito di una grande guerra, o in presenza di una situazione politica internazionale nella quale sia inscritta la possibilità di una politica di disarmo, dentro cioè a tendenze politiche reali. Un esempio è il movimento contro l’installazione dei missili in Europa agli inizi degli anni ‘80, movimento che ha avuto un’enorme diffusione, ma che ha dovuto attendere la fine degli anni ’80 e le trattative Usa/Urss che seguono la svolta di Gorbaciov per avere risultati. Insomma, nel periodo della guerra fredda le campagne contro gli armamenti potevano essere efficaci perché il disarmo era iscritto come una delle opzioni possibili nel clima e nelle relazioni internazionali dell’epoca che lo stesso movimento per la pace contribuiva a determinare.

L’attuale clima politico internazionale è del tutto diverso sia da quello degli anni ’60, che di quello degli anni ’90. Ciò non solo per l’invasione russa dell’Ucraina, che segnala la possibilità della ripresa, dopo ottant’anni, di una guerra globale, per di più nucleare. Il clima politico internazionale, definito da alcuni come una nuova “guerra fredda” e da altri, più propriamente, come una “guerra mondiale a pezzi” è caratterizzato dal fatto che a fronte del possibile raggiungimento da parte di paesi del Sud Globale, in particolare della Cina, di uno sviluppo economico e tecnologico paragonabile a quello occidentale, gli Stati Uniti hanno dichiarato l’obiettivo di mantenere la supremazia acquisita con il crollo del blocco sovietico. È questa decisione che ha rilanciato la corsa agli armamenti a livello mondiale e italiano.

In estrema sintesi le politiche occidentali sono passate da contenimento, distensione ed equilibrio strategico, caratteristiche del secolo scorso, alla dottrina della supremazia strategica, a cui è stata allineata la nuova Nato360 fondata a giugno a Madrid, con l’approvazione del nuovo concetto strategico, peraltro mai discusso da nessun Parlamento dei paesi aderenti.

Questa dottrina è stata via via messa a fuoco nel corso degli ultimi 30 anni e ha già dato prova di sé nella moltiplicazione di iniziative belliche occidentali si scontrerà con una Cina in rapida ascesa e che si fa più assertiva mano a mano che il suo stesso sviluppo economico, condizione per il mantenimento del potere dell’attuale regime, ne amplia gli interessi internazionali e acuisce la competizione per risorse energetiche, tecnologiche, materie prime e mercati, con altri sistemi capitalistici. 

La propaganda presenta la teoria della supremazia come finalizzata ad assicurare la pace. Si tratterebbe della “pax democratica”. La realtà è che la dottrina della supremazia strategica, al di là ed oltre dell’essere moralmente insostenibile, soprattutto se praticata da un Occidente che non ha ancora riconosciuto le proprie responsabilità per il passato coloniale, porta inevitabilmente al riarmo e alla guerra.

Il mantenimento di una posizione di supremazia militare nei confronti del resto del mondo implica una politica attivamente finalizzata ad impedirne lo sviluppo. Un obiettivo sbagliato e impossibile, in particolare nei confronti di un paese con il quadruplo della popolazione e con un tasso di crescita stabilmente 4/5 volte quello occidentale. La probabilità che tale politica porti prima o poi, per scelta o per attrito, allo scontro militare nelle forme che è impossibile prevedere oggi è molto elevata. Nell’immediato già determina una imponente ripresa della corsa agli armamenti e la militarizzazione delle politiche estere di tanti paesi. 

Per questo la lotta per la pace oggi non può nutrirsi solo di campagne per il disarmo e di opzioni etiche, ma ha bisogno di diventare direttamente e fortemente politica. Senza una modifica dell’ambiente internazionale queste campagne, per quanto generose, sono destinate al fallimento. La stessa lotta per il disarmo nucleare di per sé, anche quando fosse vittoriosa, non comporterebbe necessariamente la messa in sicurezza della pace globale. 

Nell’era del confronto strategico la lotta per la pace passa per la politica estera. Prima ancora di una discussione sull’appartenenza o meno ad alleanze militari ciò che va messo in discussione esplicitamente è l’obiettivo della supremazia occidentale. In questo senso la politica estera del nostro paese e dell’Europa dovrebbe assumere una postura autonoma dal pensiero suprematista volta non al mantenimento del vantaggio, ma alla ricerca dell’equilibrio economico, della condivisione delle scoperte scientifiche e della collaborazione tra le nazioni a fronte delle sfide epocali che l’umanità deve affrontare.

Non è da nascondersi che questo ha un prezzo e comporta un trasferimento di ricchezza e di conoscenza dal nord al sud del mondo, con implicazioni sociali di grande portata, ma questo è il prezzo della pace che dovremmo essere disposti a pagare.

Di grande importanza da questo punto di vista l’adozione da parte della Rete Italiana Pace e Disarmo della parola d’ordine della Neutralità Attiva e del non allineamento, che va rilanciata e difesa dagli attacchi interessati di chi la considera di equidistanza tra la popolazione ucraina e l’esercito russo. Il popolo della pace sta con la popolazione ucraina, ma deve avere ben chiaro che questa guerra è inserita ed ha una genesi nel quadro del confronto strategico globale che oggi orienta tutte le politiche. Per questo la richiesta di apertura di negoziati sotto l’egida dell’Onu e con la partecipazione di tutte le grandi potenze è la parola d’ordine centrale della manifestazione del 5 novembre.

 

di Fabio Alberti, di Un Ponte Per e membro dell’esecutivo della Rete Italiana Pace e Disarmo

 

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Note:

  1. Norberto Bobbio, Il problema della guerra e le vie della pace, IL Mulino 1979
  2. Altri pensatori si sono cimentati nella analisi del movimento pacifista e, sia pure con alcune differenze tutti ricalcano più o meno questa stessa concettualizzazione. Musella (Il Pacifismo in Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco – 2014), Max Scheler (in L’idea di pace perpetua e il pacifismo, 1927), Federico Oliveri (Quale pacifismo giuridico oggi? in Scienza e pace, 2016), Francesco Pasetto “Pacifismo profetico e pacifismo politico”, 2001.
  3. Non includo i movimenti e le correnti di pensiero che pacifiste non sono come i pacifisti “à la carte”, come quelli che condannano la guerra all’Ucraina e non quella alla Serbia, o viceversa.
  4. Convenzioni firmata da Usa, Russia e Cina: Proibizione dello sviluppo, produzione e stoccaggio di armi batteriologiche e sulla loro distruzione (1972); Convenzione sul non uso militare di tecniche di modifica dell’ambiente (1978); Convenzione delle Nazioni Unite su certe armi convenzionali (1980); Convenzione sulla proibizione delle armi chimiche (1993). Convenzioni non firmate da Usa, Russia e Cina: Convenzione sul divieto d’impiego, di stoccaggio, di produzione e di trasferimento delle mine antipersona e sulla loro distruzione (1997); Convenzione sulle munizioni a grappolo (2008); Trattato sul commercio delle armi (2013); Trattato sulla proibizione delle armi nucleari (2021).
  5. Bush: “Impedire l’emergere di una potenza in grado di competere” (1990) Obama: “Una verità innegabile: l’America deve guidare” (2015, National Security Strategy) Trump: “Ricostruiremo la forza militare americana per garantire che non rimanga seconda a nessuno” (National Security Strategy, 2017) Biden: “Prevalere nella competizione strategica con la Cina o qualsiasi altra nazione” (Interim National Security Strategic Guidance, 2021)
  6. 1991 Iraq, 1998 Iraq, 1999 Serbia, 2001 Afghanistan, 2003 Iraq, 2011 Libia
  7. Documento approvato dalla assemblea nazionale del settembre 2021 “Per la neutralità attiva di un’Italia e un’Europa non allineate”