La riforma delle pensioni mette in crisi l’equità del sistema contributivo e incentiverà l’evasione. Un’analisi storica per capirne di più
Passato il clamore della manovra Salva Italia, ormai in tempi di riforme strutturali si può dare qualche spazio ad una riflessione sulla confusione che esiste tra il meccanismo di determinazione del trattamento pensionistico (retributivo vrs. contributivo) ed il cosiddetto “sistema di gestione” per il quale, nella terminologia delle scienze attuariali, si intende la struttura del sistema di finanziamento che sostiene il trattamento stesso e, per coerenza logica, gli dovrebbe corrispondere. La storia dell’Inps inizia nel l898 con la fondazione della Cassa nazionale di previdenza per l’invalidità e la vecchiaia degli operai, per un’assicurazione volontaria integrata da un contributo di incoraggiamento dello Stato e dal contributo anch’esso libero degli imprenditori, ma è soltanto nel 1919, dopo circa un ventennio di attività, che la Cassa, da poco più di 700.000 iscritti e 20.000 pensionati, assume il compito istituzionale dell’assicurazione generale obbligatoria (Ago) che viene ad interessare la totalità dei lavoratori dipendenti dell’industria e del commercio. E’ il primo passo verso un sistema che nel tempo si svilupperà per proteggere il lavoratore dipendente da tutti gli eventi della vita lavorativa che possano minare il livello del suo reddito e quello della sua famiglia: così nel 1933 la Cassa si tramuterà nell’Inps (Istituto Nazionale della Previdenza Sociale), ente di diritto pubblico dotato di personalità giuridica e gestione autonoma al quale verranno affidate (1939) le assicurazioni contro la disoccupazione, la tubercolosi e per gli assegni familiari, poi la pensione di reversibilità a favore dei superstiti dell’assicurato o del pensionato e le integrazioni salariali per i lavoratori sospesi o ad orario ridotto.
In quegli anni la determinazione del trattamento pensionistico, sostanzialmente contributivo, si basava sull’ammontare dei contributi materialmente rappresentati dalle cosiddette “marchette”, determinate nel loro valore unitario in relazione alla retribuzione del soggetto assicurato, che erano apposte nel libretto personale. Il sistema finanziario di gestione coerente a tale meccanismo di determinazione della pensione era a capitalizzazione del tipo “a premio medio generale e conti individuali ”, perché i contributi, determinati in misura percentuale della retribuzione del singolo, venivano capitalizzati ad un certo tasso, determinato in funzione dalla redditività dei capitali investiti, per costituire il capitale necessario a determinare l’onere prospettivo della pensione spettante al raggiungimento dell’età di vecchiaia. Le condizioni di equilibrio di tale sistema di gestione erano garantite dal fatto che le contribuzioni complessive, di anno in anno versate all’Inps, venivano investite o in immobili da porre a reddito o, guarda caso, in sottoscrizioni delle emissioni del debito pubblico in modo da garantire un sostenibile tasso di capitalizzazione dei conti individuali. Al momento del raggiungimento del diritto a pensione il valore capitale della posizione individuale era tradotto nella pensione spettante al singolo, sulla base di un coefficiente che teneva conto del valor attuale di una rendita valutata per tale età, in relazione alle vigenti ipotesi della probabilità di sopravvivenza ed ad un opportuno tasso di attualizzazione. Tutto funzionava per il meglio: ognuno risparmiava per sé e, secondo la sua storia retributiva, otteneva dal proprio capitale accumulato una pensione per tutta la vita residua, potendo contare, per via del calcolo basato sulla prospettiva generale di sopravvivenza, sulla solidarietà degli altri assicurati-pensionati, mentre dal suo canto lo Stato virtuoso finanziava opere pubbliche offrendo all’Inps interessi che, insieme al reddito degli investimenti immobiliari, permettevano di guardare positivamente alle prospettive del paese.
La crisi economica e monetaria seguita al secondo conflitto mondiale, minò la tenuta finanziaria del sistema a capitalizzazione, per l’impossibilità di realizzare rendimenti superiori alla tasso di svalutazione della lira e quindi di difendere dall’inflazione i patrimoni mobiliari accumulati. Ne seguì in proposito un dibattito tra gli addetti ai lavori, tra i primi gli attuari dell’Inps (Coppini e Petrilli 1946 ), che porterà dopo venti anni (L. 153/69) ad abbracciare la scelta della ripartizione[1], sostituendo il sistema contributivo con quello retributivo, che basa la pensione sull’ultima retribuzione o meglio sulla media delle retribuzioni degli ultimi anni, con un tasso di sostituzione fra ultimo stipendio e pensione tra il 70 e l’ 80%.
Dal dopoguerra sino agli anni ’90 l’Inps ha dovuto affrontare le richieste del sistema sociale e politico, che premeva per provvidenze assistenziali che nulla avevano a che fare con le logiche di un sistema previdenziale assicurativo, e la conseguente crescita del fabbisogno finanziario, che in qualche modo tra aumenti dei tassi di contribuzione, crescita della popolazione occupata e sviluppo economico sembrava in quegli anni sostenibile. Il sistema allora vigente, ormai retributivo a ripartizione, è entrato in crisi a causa del diminuito rapporto fra lavoratori attivi e pensionati, per gli aumenti della durata media di vita e del numero delle pensioni di anzianità, nonché per il calo demografico e di produttività del sistema economico. Il sistema Inps si sarebbe potuto tenere in equilibrio solo aumentando l’aliquota contributiva in modo insopportabile per il costo del lavoro e si è resa dunque necessaria una successione di riforme per arginare la progressiva crisi del sistema previdenziale e la sua incidenza sul Pil.
Nel 1992 la Riforma Amato (L. 503/92) ha cercato di contenere e dilazionare la spesa, ma è con la Riforma Dini (L.335/95) che si imposta un nuovo sistema con il pensionamento flessibile, tra i 57 e 65 anni (uomini e donne), una prima armonizzazione dei trattamenti diversi per categorie e settori,lo sviluppo della previdenza complementare e l’introduzione progressiva della pensione contributiva[2] (con gestione a ripartizione), che dovrebbe garantire l’eguaglianza tra montante contributivo (contributi individuali capitalizzati con il tasso medio nominale di crescita del PIL) ed il valore della pensione determinato attraverso appositi coefficienti di trasformazione[3].
Nel 2011 si ha finalmente la riforma Monti-Fornero (Legge 214/11), con la soglia della vecchiaia spostata da 65 a 66 anni per gli uomini e da 60 a 62 per le donne sino a raggiungere i 68 anni nel 2018. La pensione di anzianità viene inoltre progressivamente dilazionata per disincentivarla rispetto a quella di vecchiaia, con una riduzione per la quota retributiva dell’1% per ogni anno di anticipo (sale al 2% dal terzo anno in su). Per il resto si passa al sistema contributivo pro-rata per tutti, per la sola contribuzione versata dal 2012, senza modificare quanto maturato sino al 31.12.11 con il precedente metodo di calcolo misto, ma si blocca per le pensioni in essere l’adeguamento all’inflazione, ad eccezione dei trattamenti più modesti. E’ ormai ben chiaro che tutte le riforme succedutesi dal 1995 trovano il loro principale fondamento nella insostenibilità del debito previdenziale prospettico e la giustificazione nelle progressive difficoltà di cassa del sistema previdenziale. Tutto ciò è comprensibile ed accettabile nei transitori drammatici, ma dovrebbe spingere a considerare comunque le conseguenze future di quanto si è costretti, per necessità e fretta, ad imporre alle riforme dell’ultimo decennio con le ultime modifiche apportate dalla Legge 214/11.
I processi di capitalizzazione insiti nel sistema contributivo e la loro equità attuariale andrebbero ripensati nella loro necessaria coerenza. Da un lato lo Stato, nel processo di capitalizzazione lucra la differenza tra tasso di crescita nominale del Pil, riconosciuto all’assicurato, e tasso corrente del debito pubblico risparmiato con le contribuzioni versate in Tesoreria, mentre da oggi, dall’altro, nega l’adeguamento all’inflazione che, per equità attuariale, sarebbe dovuto proprio perché si riconosce all’accumulazione soltanto il tasso di crescita del Pil. Questo vulnus, ancorché giustificabile con esigenze di cassa, mette in crisi l’equità logica del sistema retributivo, ed incentiverà l’evasione contributiva, lasciando peraltro adito a sospetti anche sulla credibilità futura del sistema complementare. Una riflessione meriterebbero inoltre i riferimenti logici delle misure dei tassi di valutazione sia del monte contributivo e sia dei coefficienti di trasformazione, così come questi ultimi andrebbero rivisti (quelli vigenti risalgono al 2006 su basi del 2002 ) e distinti, anche in relazione al sesso, in modo più equo e attento alla coerenza attuariale tra capitale accumulato e pensione di reversibilità.
Quanto agli interventi sempre più dilatori dell’età della pensione di anzianità, una volta che si tratti di pensioni contributive, e quindi di pensioni erogate a fronte di un capitale accumulato, non si vede perché non si debba riconsiderare la questione dell’età del diritto, quale strumento di incentivazione all’uscita dal lavoro dipendente per affrontare nuove prospettive economiche e la utilità, attraverso tale diritto, della sostituzione tra generazioni. Di fatto la lotta finora condotta alla pensione di anzianità risente del peso degli abusi del passato, ma non si giustifica più in un pieno e coerente sistema contributivo che veda quanto accumulato correttamente tradotto in quanto spettante, poco o tanto che sia, soltanto in relazione all’età raggiunta e ad un minimo di anzianità accumulata. Infine anche quest’ultima riforma, per l’urgenza dei tempi, ha evitato di mettere in campo la distinzione tra previdenza ed assistenza e l’individuazione di un sistema di finanziamento a ciò coerente. Il quadro organico delle competenze dell’Inps, fondato negli anni ’30 che ha visto, dagli anni ’50 in poi, la crescita della tipologia delle prestazioni offerte ad insiemi sempre più ampi di soggetti appartenenti a differenti categorie, con storie contributive a volte inesistenti, non è più sostenibile dall’Inps nell’architettura delle gestioni contabilmente separate e nella sua strutturale confusione tra previdenza ed assistenza e tra i relativi sistemi finanziamento. Il passaggio al contributivo dovrebbe segnare inoltre l’occasione per l’unificazione delle diverse misure della contribuzione che aprirebbe qualche prospettiva anche alla diminuzione del costo complessivo del lavoro.
E’ tempo dunque che, tra le tante riforme auspicate, trovi spazio un’attenta indagine che ridia, ai contributi versati, la certezza della misura di quanto accumulato per il futuro e la coerenza con quanto spettante per la pensione, nonché la corretta individuazione del debitore tra Stato, conto individuale e mutualità, intra o inter generazionale, del sistema previdenziale Inps. Tutto ciò non ridurrebbe il costo delle pensioni vigenti, né il peso, ma permetterebbe di non far pagare agli assicurati di un regime contributivo il costo di altre gestioni delle più diverse generosità sociali, e riportare correttamente alla fiscalità l’onere della loro copertura che si giustifica soltanto con l’insopportabile confusione tra previdenza ed assistenza.