La riforma del 2011 non è riuscita né a creare occupazione, rimandando il naturale turnover, né a garantire i giovani. Ha creato solo esodati e preparato una “bomba sociale” in arrivo. Sarebbe ora di affrontare i nodi di equità irrisolti anche dalle toppe delle Quote.
Nel dibattito sulle pensioni suscitato dalla proposta governativa inserita nella legge di bilancio ci sono due equivoci di fondo: il primo è che la normalità cui si dovrebbe tornare sarebbe l’assetto stabilito dalla riforma Fornero nel 2011; il secondo è che essa favorirebbe i giovani.
Nei dieci anni trascorsi, specialmente dopo la crisi pandemica, i fatti hanno mostrato chiaramente i danni creati dalla filosofia della “austerità espansiva” seguita dal governo Monti e dalla sua applicazione al sistema pensionistico. Prima ancora che la riforma Fornero venisse applicata, furono subito segnalate le sue incongruità anche tecniche che davano luogo a fenomeni economicamente e socialmente insostenibili come la creazione di una nuova penosa figura, quella degli “esodati”, cioè persone che improvvisamente venivano a trovarsi senza salario e senza pensione, un risultato decisamente estraneo ai compiti che dovrebbero essere svolti dalla previdenza sociale.
Naturalmente, bisognò correre subito ai ripari e si procedete alle cosiddette misure di salvaguardia; nel corso degli anni successivi ne sono state fatte nove, portando a circa 250.000 la platea dei lavoratori “salvaguardati” dalla “normalità” della legge Fornero. Questa, peraltro, era stata giustificata sostenendo pure che alzando l’età di pensionamento sarebbe aumentati gli attivi e gli occupati; ma mentre il primo effetto era statisticamente ovvio, il secondo era una colpevole illusione. Infatti l’occupazione non aumentò poiché proprio le politiche governative restrittive ostacolarono la crescita di un sistema già molto depresso. Quanto all’effetto sui giovani, trattenere forzosamente in attività chi stava per andare in pensione, inevitabilmente ridusse i posti disponibili per i nuovi ingressi nel mondo del lavoro; cosicché, oltre a penalizzare le aspirazioni comprensibili e complementari degli anziani e dei giovani, si ridusse il turnover e la sua normale spinta all’innovazione e alla dinamica della produttività.
“Quota 100” è stato un altro tentativo di compensare i problemi generati dalla riforma Fornero, ma è stata una misura sopravalutata sia dai suoi sostenitori sia dai suoi detrattori. In una fase di grande precarietà economico-sociale, la sensibile riduzione di reddito che già si verifica nel passaggio dalla retribuzione alla pensione, accentuata dalla penalizzazione per l’anticipazione del pensionamento nel sistema contributivo, ha consentito solo ai lavoratori più benestanti, prevalentemente maschi, di usufruire di “Quota 100”. Questa, dunque, da un lato, si è rivelata una misura inadeguata e discriminante rispetto all’obiettivo, d’altro lato, è stata meno costosa di quanto temuto. Ma se oggi, alla prevista scadenza del triennio di applicazione di “Quota 100”, l’intervento del Governo si riduce alla sua progressiva eliminazione tramite “quote” intermedie (102, 103, …) per tornare alla legge Fornero, non solo non si realizza il bene dei giovani falsamente decantato, ma si continuano ad ignorare i problemi strutturali sempre più urgenti del nostro sistema previdenziale e dei suoi effetti negativi sui complessivi equilibri economico-sociali.
Da anni, nel Rapporto sullo stato sociale redatto in Sapienza viene richiamata l’attenzione sulla “bomba sociale” in arrivo: quasi il 60% di quanti hanno iniziato a lavorare a metà degli anni ’90, a causa dei salari bassi e instabili finora avuti, permanendo gli assetti del sistema previdenziale e del mercato del lavoro, matureranno una pensione inferiore alla soglia di povertà. Alle stesse generazioni che nell’età attiva stanno subendo le conseguenze di politiche economico-sociali controproducenti che alimentano la precarietà di vita, pregiudicando perfino la loro possibilità di fare figli, si sta prospettando una anzianità con condizioni di vita ancora peggiori.
Preoccuparsi per i giovani (e non solo) significa offrirgli una maggiore stabilità, che sarebbe favorita non solo da maggiori e migliori opportunità di lavoro e di realizzazione oggi, ma anche da prospettive di sicurezza per il domani, tenendo in conto che le prime e le seconde interagiscono tra di loro. Assicurare ai giovani d’oggi una anzianità almeno decente, mettendola a riparo dall’automatica riproposizione delle precarietà lavorative attuali e riducendo l’ansia che induce risparmi eccessivi, stimolerebbe comportamenti più favorevoli alla crescita del reddito (attuale e futuro) da cui poter attingere anche il finanziamento delle pensioni (attuali e future).
Il sistema pensionistico richiede interventi più significativi e innovativi rispetto alla logica dell’austerità che ha dominato negli ultimi decenni. Occorre riconoscere una contribuzione figurativa ai lavoratori involontariamente disoccupati per ridurre strutturalmente le conseguenze negative sulle loro pensioni derivanti dalla attuale precarietà del modo del lavoro; ciò, peraltro, non graverebbe sul bilancio pubblico attuale e offrirebbe le maggiori certezze favorevoli alla crescita e ai bilanci pubblici anche futuri. E’ utile e giusto dare a ciascun lavoratore elasticità di scelta dell’età di pensionamento (e della prestazione maturata) in un arco temporale variabile anche in relazione alle mansioni svolte; questo grado di libertà (peraltro inizialmente previsto nella riforma del 1995) nel sistema contributivo non avrebbe effetti sul bilancio previdenziale di medio periodo (un anticipo del pensionamento e un maggior numero atteso di annualità delle prestazioni ricevute sarebbe compensato dall’adeguamento attuariale del loro valore unitario); anche questa misura contribuirebbe a favorire le sicurezze personali e, quindi, gli equilibri economici.
Il sistema produttivo e quello previdenziale sono strettamente collegati; il superamento della visione macroeconomica rigorista imposto dal suo fallimento richiede che si proceda in modo corrispondente anche nel sistema pensionistico. Ecco perché è necessario smetterla con i rattoppi di una riforma tecnicamente sbagliata inserita dieci anni fa in un disegno di politica economico-sociale dimostratosi disastroso che, per di più, alimenta immotivate e pericolose contrapposizioni generazionali a danno della coesione sociale che ricordano i capponi di Renzo.