L’unione monetaria fa le veci di un’unione politica che è ancora da costruire. Come riassume la cancelliera Angela Merkel: “Se l’euro fallisce, fallisce l’Europa”
E’ impossibile prevedere in queste ore convulse come andrà a finire la crisi greca e quale sarà il panorama della zona euro dopo la tempesta in corso. Molto probabilmente, gli storici del futuro individueranno in questo lungo periodo di crisi un momento di verità per l’euro e per la costruzione europea. L’insofferenza verso il referendum indetto da Tsipras sulle politiche di austerità e le pressioni di queste ore perché vi rinunci, ricordano, in termini molto più drammatici, altre storie: anche i “no” ai referendum di Francia e Olanda nel 2005 sul Trattato costituzionale sono poi stati di fatto ignorati e il Trattato di Lisbona ha fatto rientrare dalla finestra quello che i due popoli europei avevano pensato di mettere fuori dalla porta. Tsipras, ripetendo l’invito a votare “no” domenica, si è indignato mercoledì: “personalmente non credevo che l’Europa non desse a un popolo il tempo per prendere una decisione democratica”. Senza arrivare a prendere alla lettera quello che il presidente della Commissione Jean-Claude Juncker si è lasciato scappare – “non c’è scelta democratica contro i Trattati” – sta di fatto che l’anomalia della “costituzionalizzazione” di contenuti di politica economica è lo scoglio contro il quale si è scontrata la volontà del governo di Syriza di convincere i partner che un’altra Europa fosse possibile.
L’unione monetaria fa le veci di un’unione politica che è ancora da costruire. “Se l’euro fallisce, fallisce l’Europa”, riassume Angela Merkel. Un governo federale potrebbe prendere decisioni politiche, ma siamo lontani (sempre di più, visto l’euroscetticismo in crescita) da questa situazione e 19 governi si addizionano, con colori politici (e interessi) differenti. Prevale quindi un navigare a vista, con il solo obiettivo di proteggere l’euro, anche contro le scelte (di parte) dei suoi stessi membri. In questi giorni di tensione è stato molto usato l’argomento dello scontro di legittimità democratiche: a Tsipras è stato rimproverato dagli altri paesi membri di mettere in avanti le scelte dei greci, mentre in altri paesi altri cittadini ne hanno fatto di diverse e contrarie, altrettanto valide. Il risultato è che i dirigenti europei hanno giocato la brutta carta di mettere le legittimità popolari una contro l’altra, dividendo ancora di più le popolazioni, con la riemergenza dei vecchi cliché (i greci “pelandroni”, i tedeschi “nazisti”, per prendere solo le copertine più estremiste di alcune recenti pubblicazioni nei due paesi maggiormente al centro della polemica).
Fino alla crisi del 2008, la giovane moneta unica aveva potuto reggere perché era considerata una tappa della costruzione europea, un’Unione che ha promesso ai suoi cittadini la pace e la prosperità. Ma queste promesse traballano: alle frontiere si accumulano le guerre (con conseguenze all’interno, a cominciare dalla tensione per l’afflusso di migranti, altro punto non risolto e fonte di tensioni infra-Ue) e la crisi economica ci ha riportato ad anni indietro. Nella Ue e nella zona euro una fetta della popolazione vive ormai sotto la soglia della povertà (anche nelle ricche Germania e Francia), la disoccupazione sta minando le basi della convivenza all’interno dei paesi e nella Ue.
In questi giorni, da Berlino a Madrid, tutti si preoccupano di rassicurare sulla tenuta dell’euro. Ma non c’è unità neppure sulla concezione del ruolo della moneta: al nord, in particolare, il collante dell’euro è il rispetto delle “regole” (e poco importa che queste siano state decise prima della crisi, in un periodo in cui la deflazione non era all’orizzonte), mentre per paesi come la Francia la sopravvivenza dell’euro è legata alla fiducia nella moneta. Per i primi, un Grexit sarebbe un atto di consolidamento tagliando fuori la mela marcia, per i secondi, al contrario, la prima falla che farà cadere la costruzione, iniettando il verme della domanda “chi sarà il prossimo a uscire?”. Di qui le diverse posizioni e la frattura franco-tedesca di questi giorni di fronte alla Grecia. E il potere accordato all’Eurogruppo, ridotto al ruolo “tecnico”, un’istanza senza nessuna particolare legittimità, che pero’ si è permessa, sabato scorso, di funzionare a 18, dopo aver escluso Yanis Varoufakis (per cercare di salvare la forma, la riunione mozzata è stata battezzata a “19 meno uno”).
Di fronte a questa paralisi politica, la Bce è stata ai comandi durante tutta la crisi greca. La Bce è praticamente l’unica struttura “federale” ma le sue decisioni non hanno nessuna legittimità democratica. Tsipras non indossa più i guanti per accusare Francoforte: “le recenti decisioni dell’Eurogruppo e della Bce hanno un solo obiettivo: reprimere la volontà del popolo greco”. Basta un gesto di Mario Draghi e una decisione del consiglio dei governatori per strozzare Atene, chiudendo l’ultimo rubinetto rimasto aperto (l’Ela, la liquidità di emergenza), dopo che Francoforte ha soppresso gli altri canali di finanziamento per la Grecia. Ma la Bce si difende: Mario Draghi farà “qualunque cosa” per difendere l’euro. Lo statuto della Bce impedisce di concedere l’Ela a banche non solvibili. E le banche greche non sono solvibili. Di conseguenza, potrebbe essere una decisione “tecnica” a spingere al Grexit, nei fatti una scelta altamente politica.