Arriva dagli Usa, la Community Organizing che vuole rivitalizzare il sindacato come grande organizzazione sociale. Intervista a Valery Alzaga, attivista e dirigente di Seiu
Organizzare i lavoratori non organizzati. Che sono sempre di più, complici un mercato del lavoro stravolto da una feroce competizione globale e un pensiero molto diffuso che guarda con scetticismo a tutte le forme di rappresentanza collettiva, e dunque ai sindacati. Questo processo, che riguarda ormai tutti i paesi dell’occidente sviluppato, ha investito negli anni 90 per primi gli Stati Uniti, producendo un tracollo del tasso di sindacalizzazione nel paese (ridotto ormai al 12 per cento). A questo trend, però, i sindacati americani hanno saputo reagire innovando tecniche e strategie di proselitismo; non limitandosi dunque a una sterile protesta contro la diffusa ostilità e incomprensione, ma anzi partendo proprio da questo “dato” per rinnovarsi in profondità e lanciare un’idea di Community Organizing che, in estrema sintesi, rivitalizza il sindacato come grande organizzazione sociale, capace di operare e influire anche fuori dai luoghi di lavoro tradizionali, coinvolgendo comunità, reti sociali e producendo un nuovo, diretto, protagonismo dei lavoratori. Di questi temi, che stanno suscitando grande interesse in Europa e in Italia, abbiamo discusso con Valery Alzaga, attivista e dirigente di Seiu (il sindacato americano dei lavoratori dei servizi). “In tutto il mondo – dice a Rassegna – i sindacati stanno affrontando grandi difficoltà. Sfortunatamente, però, solo poche organizzazioni sono state capaci di ‘adattarsi’ ai cambiamenti epocali indotti dal neoliberismo nei settori tradizionali e non: outsourcing, subappalti, flessibilizzazione estrema del lavoro, contratti a brevissimo termine”.
Di Community Organizing si è cominciato a parlare diffusamente con la campagna Justice for Janitors, lanciata da Seiu negli anni 90 e indirizzata ai lavoratori migranti poveri delle pulizie e che ispirò anche il Ken Loach di Bread and Roses. Ci puoi spiegare in cosa consiste l’Organizing?
È un approccio lungo e capillare. Cominciamo sempre con un grande lavoro di ricerca per capire esattamente la natura delle realtà di cui abbiamo deciso di occuparci. Si tratta di una vera e propria “indagine sindacale”: studiamo i mercati di riferimento delle imprese, il loro stato di salute, i principali imprenditori che operano nel settore, la quota di mercato, i trend prevedibili, la catena degli approvvigionamenti, l’organizzazione del lavoro, i margini di profitto, la forza lavoro e la sua oscillazione, lo stile del management e il rispetto o meno delle regole e degli standard. Cerchiamo anche di valutare con onestà la nostra forza o debolezza nel settore. Dopo questo lavoro di analisi accurata cerchiamo di immaginare quali risultati vogliamo e siamo in grado di raggiungere in uno spazio di dieci anni. Quindi, realizziamo una vera e propria mappatura della realtà su cui abbiamo deciso di intervenire. Infine, quando ci siamo fatti un’idea su dove cominciare e su cosa possiamo ottenere in un lasso di tempo realisticamente determinabile, lanciamo la nostra campagna di “Organizing”, di sindacalizzazione.
La leva più forte di questo approccio, quella che per esempio ha favorito il successo di Justice for Janitors, riguarda le modalità di approccio verso i lavoratori…
È vero, si tratta di un aspetto fondamentale. Dedichiamo grande cura nel cercare di conoscere a fondo i lavoratori a cui pensiamo di rivolgerci. Cerchiamo di capire come lavorano e dove, le loro richieste, la visione del sindacato e il perché vi hanno aderito o no, i desideri, le paure, le possibili soluzioni alle questioni che più li interessano, le loro reti e i legami sociali. Tutto questo lo facciamo parlando direttamente con loro, spesso li andiamo a trovare a casa. Incontrarli nel proprio domicilio rappresenta una grande opportunità quando si tratta di organizzare persone disperse nel territorio, o senza un’occupazione stabile; è anche un modo sicuro per sfuggire al controllo del capo o dell’azienda e dà più tempo per approfondire le situazioni individuali ed elaborare strategie e piani d’azione adatti alle circostanze particolari che incontriamo.
Ma la difficoltà probabilmente non sta tanto nell’incontrare lavoratori, quanto nel riuscire a coinvolgerli…
Dopo i primi contatti e una mappatura accurata dei luoghi di lavoro procediamo con l’identificare quelli che per noi sono i “leader naturali”: le persone più rispettate, forti e spesso non iscritte ai sindacati. Con loro cominciamo a costituire dei comitati (Organizing Committees) che rappresentano i motori delle nostre campagne rivendicative: spendiamo molto tempo per aiutarli a sviluppare la capacità di organizzare gli altri colleghi, avere una visione strategica, anticipare le decisioni dei manager e dare forza ai lavoratori prima che inizi la lotta vera e propria. Insomma: puntiamo a favorire una leadership dal basso. I comitati sono importanti anche per organizzare il sostegno alle campagne nei quartieri, coinvolgendo chiese, centri di accoglienza per migranti, partiti politici, istituzioni culturali, università, media, artisti, personaggi famosi che credono nelle nostre battaglie. Le campagne procedono per fasi, ciascuna delle quali viene portata avanti da un gruppo di coordinamento del sindacato insieme ai comitati.
Ci puoi indicare, seppur schematicamente, quali sono queste fasi?
Iniziamo generalmente in maniera soft: facciamo petizioni, chiediamo ai datori di lavoro di assumere comportamenti corretti, mostriamo le nostre ragioni. Se questo non basta, aumentiamo gradualmente la nostra pressione. In ogni fase procediamo con l’appoggio della comunità e di soggetti e personaggi noti nel territorio. Lavoriamo come movimento sociale, non da soli. In questo modo i sindacati diventano parte importante di un movimento più vasto e vengono percepiti come un veicolo di cambiamento sociale e non come un’organizzazione di interessi preoccupata solo del destino dei propri membri.
Un altro aspetto interessante del vostro approccio riguarda il coinvolgimento diretto dei lavoratori anche nelle campagne di comunicazione…
Sì, è importante che siano loro stessi a rappresentare il volto delle campagne che li riguardano direttamente. Questo crea un effetto di rispecchiamento da parte dei colleghi, spingendoli a essere essi stessi protagonisti delle lotte. Anche in questo caso puntiamo a far emergere giovani leader che si rivolgono direttamente alla stampa e operano nei social network. Persone che parlano in prima di persona e incoraggiano gli altri a prendere la parola.
L’Organizing funziona in tutti i settori?
Sì. Seiu ha operato con successo, utilizzando questa strategia, nella sanità e nei settori pubblici in generale. Attualmente stiamo anche lavorando con Ig Metall in Germania nel settore dell’eolico e delle aziende in subappalto del comparto delle automobili. In Olanda collaboriamo con i sindacati pubblici che stanno cercando strade nuove per contrastare i tagli della spesa pubblica dovuti alla crisi.
Come si coniuga il sindacalismo “dal basso” con la forza dirompente della globalizzazione? Come mettere insieme locale e globale?
Justice for Janitors è un esempio di come sia possibile combinare proficuamente i due livelli. La campagna si è sviluppata a partire dalle città più importanti degli Stati Uniti e dai loro sobborghi. Siamo riusciti a mobilitare intere città, quartieri, settori (grandi proprietà, industria farmaceutica, aziende high-tech, aeroporti, università eccetera), comunità e sostenitori. Nel nostro caso i grandi datori di lavoro e anche i clienti dei vari servizi erano rappresentati da multinazionali. Per questo anche se le vertenze e le campagne sono state condotte a livello locale e nazionale, abbiamo dovuto agire a livello globale. Attraverso l’aiuto dell’Uni (la federazione internazionale che rappresenta 20 milioni di lavoratori del settore dei servizi, ndr) e il supporto di sindacati del terziario e associazioni che operano per i diritti dei migranti in molti paesi siamo riusciti a strappare accordi globali che hanno travalicato anche il “limite” nazionale e aiutato noi e altri sindacati a organizzare e migliorare le condizioni di lavoro nel settore dei servizi.
Spesso questo approccio globale ci ha aperto gli occhi. Per esempio ci siamo resi conto che molti dei nostri riferimenti sindacali europei (ai quali ci rivolgevamo per chiedere aiuto) non erano abbastanza forti e organizzati in questi settori. Anzi: molti partner europei chiedevano proprio a noi supporto e consigli per sviluppare la propria capacità organizzativa e rivendicativa. Questo è il motivo per cui Seiu e Change to Win hanno deciso di istituire un European Strategic Organizing Center in Olanda, dove svolgiamo un lavoro di consulenza e formazione, e operiamo attivamente con diversi sindacati per iniziative mirate in settori specifici.
Cerchiamo anche di incoraggiare le federazioni sindacali internazionali a sviluppare la propria capacità di Organizing e a supportare in questo modo i propri affiliati. Molti dei sindacati aderenti a Uni, per esempio, sono ormai in grado di sostenersi reciprocamente nelle diverse campagne in un modo che fino a poco tempo fa risultava impensabile. Insomma: più forza a livello locale significa più energia da spendere a livello globale per ottenere risultati importanti.
Dunque, grande importanza ai lavoratori che si autorganizzano dal basso, leadership collettiva e forti aspetti comunitari: pensi che questo modello sia compatibile con una tradizione, come quella italiana, in cui i sindacati hanno strutture molto forti e organizzate?
Mi pare che il sindacato italiano sia molto attivo e vivace. La vostra forza sta nell’aver costruito negli anni 70 percorsi capaci di guidare le battaglie dei lavoratori sia dentro sia fuori i luoghi di lavoro; il sindacato è riuscito a penetrare nel tessuto sociale esterno mentre, contemporaneamente, la politica – locale, nazionale, internazionale – entrava nei luoghi di lavoro. Questo scambio ha generato un movimento di natura politica e sociale nel quale il ruolo delle organizzazioni dei lavoratori era centrale. Per questo credo che l’Organizing sia ben presente nel Dna dei sindacati italiani. Gli altri elementi di forza riguardano la diffusione in Italia di una forte presenza e cultura sindacale che rappresenta una base solida su cui costruire strategie per contrastare le tendenze negative in atto nel tessuto economico e sociale.
In ogni caso mutamenti di questo tipo comportano resistenze fisiologiche nelle organizzazioni, non credi?
È vero. Ma se i sindacati vogliono invertire il trend di crisi devono aiutare i lavoratori a costruirsi la propria forza nei luoghi di lavoro. Anche l’approccio dei lavoratori, però, deve cambiare: occorre fare molto di più (anche se con un supporto “istituzionale”) per affrontare i problemi dei singoli in un’ottica collettiva. Mi rendo conto che cambiamenti di questa portata, e le nuove condivisioni di potere che comportano, non sono semplici da far digerire all’interno delle organizzazioni. Tuttavia non esistono cambiamenti senza frizioni e attriti, e senza abbandonare le proprie rassicuranti posizioni di sicurezza.
L’intervista è stata pubblicata sul settimanale Rassegna sindacale