Oggi i paradossi assurdi del nostro sistema economico vengono spesso accettati come “naturali”. Stefano Massini ha realizzato due spettacoli teatrali sul lavoro – “Sette minuti” – e sulla finanza – “Lehman trilogy” – che mettono in luce i lati più oscuri dell’ economia. Si leggono in due libri pubblicati da Einaudi
I grandi momenti dell’ economia politica non sono quelli dei modelli matematici raffinati, magari premiati con un Nobel, ma quelli che ci spiegano i grandi paradossi economici con i quali siamo costretti a vivere. Nella crescita economica i ricchi diventano sempre più ricchi e – per legge economica che oggi detta più legge di qualsiasi altra – i poveri non riescono nemmeno a tenere il passo. What’ s wrong? Altri paradossi riguardano il lavoro: Il fatto che si debba lavorare meno mentre la produzione aumenta, finisce per essere una pessima notizia. Gli “esuberi” perdono il loro reddito. Per gli occupati rimanenti spesso l’ orario di lavoro viene addirittura prolungato. La scoperta di paradossi di questo tipo gettò gli economisti classici (Townsend, Malthus, Ricardo) in un profondo pessimismo. Anche la letteratura reagì trattando stimoli e idee da questi nuovi misteri (Swift e Defoe con un certo sarcasmo). I romanzieri dell’ 800, Austen, Balzac e altri (come ha raccontato recentemente Piketty) fecero con grande precisione i conti in tasca ai loro eroi per poter serbarli dal destino del lavoro salariato, mentre nasceva tutta una letteratura di ispirazione sociale che rimpianse i poveri. Oggi i paradossi assurdi del nostro sistema economico vengono accettati come “naturali”, una normalità che fa piangere (perfino un ministro), ma non desta nessuna meraviglia.
Con “7 minuti” Stefano Massini è riuscito a portare in teatro un fatto normale facendoci meravigliare. Undici operaie tessili di un consiglio di fabbrica intorno a un contratto da rinnovare. L’ azienda va bene, è stata venduta, la nuova proprietà in cambio di una garanzia dell’ occupazione e dello stipendio propone alle maestranze di rinunciare a 7 minuti “dell’ intervallo pattuito in sede di contratto premiando lo sforzo della proprietà di venirvi incontro in questo delicato passaggio storico”. La prima reazione delle donne è un grande sollievo. Perfino un sentimento di gratitudine. Questa garanzia, la tranquillità di un lavoro e di uno stipendio, valgono il sacrificio di 7 minuti al giorno. Altre fabbriche chiudono, ma qui si continua a lavorare. L’ offerta va accettata subito. Solo Blanche, trent’ anni al telaio, ha una strana “sensazione alla bocca dello stomaco“. Vuole discutere, vuole vedere chiaro. “Perché ho sempre la sensazione che noi dobbiamo ringraziare? Non è uno scambio alla pari?”. Non lo è. Tutte le donne lo sanno, anche se non hanno studiato l’ asimmetria di potere inerente al mercato del lavoro. Sentono il ricatto che su ciascuna pesa in modo diverso. Chi ha figli, chi un marito disoccupato, chi è giovane, chi immigrata. Tutte, meno Blanche, sono decise a firmare. “Ma se il lavoro lo perdessimo proprio votando sì?”. Il calcolo è presto fatto. Sette minuti di lavoro in più al giorno per 200 operaie vuol dire 600 ore di lavoro al mese. “E’ come se entrassero altre operaie” non pagate. Poi a qualcuno potrebbe anche venire l’ idea che così si crei un “esubero”. Le donne discutono malvolentieri, soprattutto perché hanno la sensazione che comunque non possono fare niente. Per ognuna la perdita di 7 minuti al giorno è accettabile ed è sempre meglio della perdita del posto di lavoro. Ma dalla discussione reticente emergono una dopo l’ altra le domande. “Noi ci teniamo il posto, va bene, loro si prendono sette minuti: fine della storia?” Quale sarà il prossimo sacrificio da fare? Che effetto avrà questo “sì” su altre fabbriche e altri contratti? Dopo anni di sacrifici non sarebbe meglio rischiare una volta un “no”? Fosse solo per dignità? “Loro non mi regalano niente, perché dobbiamo fargli regali noi?”. La risposta a ognuna di queste domande può costare l’ esistenza. Alle operaie, non ai manager, non alle “cravatte”. Il consiglio si spacca e probabilmente anche il pubblico si dividerà. Che cosa vogliamo di più da un testo teatrale?
Massini ci porta fino alle soglie del mistero economico. Andare oltre è il compito del lettore o dello spettatore che legge/vede cose che forse già sa, ma delle quali difficilmente si rende conto: Il lavoratore salariato appartiene non al singolo capitalista, ma al capitale, perché le sue condizioni di vita dipendono dai movimenti e dalle esigenze del capitale che la nostra società considera essere oggettive. La dipendenza può assumere forme attenuate da diritti conquistati, può diventare sopportabile e perfino confortevole. Ma periodicamente la legge del profitto si affaccia con la sua maschera ferrea e richiede, come gli dei degli aztechi, i suoi sacrifici umani. Infatti, il capitalismo può essere considerato ormai una delle grandi religioni. E’ il Dio denaro che dà senso alle nostre azioni, regola la nostra vita, i nostri sentimenti e i nostri sogni. Nella sua “Lehman Trilogy” Massini racconta attraverso le vicende di una dinastia di banchieri e finanzieri, che sono i sacerdoti di questa religione, i suoi fasti e la sua gloria fin dalla sua incarnazione nel mito americano. La forza che dà fiato al suo canto epico scaturisce da una catastrofe: Il 15 settembre 2008 crolla la Lehman Brothers provocando il fallimento più grande nella storia delle bancarotte mondiali. La banca era considerata “too big to fail”. Eppure questa volta il sistema bancario e lo stesso governo americano hanno voluto stabilire un esempio facendo squillare le trombe dell’ ultimo giudizio. Un’epoca è finita. Ma che cosa significa questa affermazione e che tipo di Requiem stiamo cantando?
La “Lehman Trilogy” ci illumina sui passaggi cruciali da un capitalismo arcaico della “roba” a quello trascendentale della finanza. I Lehman, ebrei poveri immigrati dalla Germania, vendono attrezzi agricoli, passano alla compra-vendita di cotone, si trasferiscono dopo la guerra civile dall’ Alabama a New York dove figurano tra i fondatori della Borsa di Cotone, lontani da attrezzi, campi e carri. Capiscono il bisogno di nuovi mezzi di trasporto, investono in ferrovie e petrolio, in aerei e armi di guerra, si sposano bene, rimangono attaccati alla religione dei padri e conducono una vita da capitalisti “protestanti”, direbbe Max Weber. Sono tra gli artefici dell’ industrializzazione di un continente, creatori, come scriveva Marx, di “meraviglie ben diverse dalle piramidi egizie, dagli acquedotti romani e dalle cattedrali gotiche”. Ma nelle ultime pagine della terza parte della trilogia tutto cambia. Il cuore degli affari del gruppo è diventato la compravendita di denaro nelle sue forme molteplici chiamate “prodotti finanziari”. Queste forme di denaro si staccano dal mondo dei beni reali e dagli investimenti per produrli e conducono una propria vita irreale in altre sfere. Entriamo nei regni dei miliardi, bilioni, trilioni di dollari dove ci si orienta in modo diverso dal mondo degli 80 Euro concessi ai lavoratori dipendenti e assimilati. L’ origine dell’ alto tasso di rendimento delle nuove forme di denaro rimane nascosto e nessuno la vuole sapere. Nessuno poteva nemmeno aspettarsi questi frutti sopranaturali. Eppure il terreno è stato a lungo preparato. “L’ America, guardiano del pianeta, armato fino ai denti”. Riempire il mondo di merci, di mezzi di comunicazione, di computer, di programmi. Il computer non significa solo calcolo, ma anche linguaggio “per non far crollare la torre di Babele”. I have a dream di Martin Luther King diventa una formula per vendere vendere vendere in modo che il mondo possa redimersi nel comprare comprare comprare. Metamorfosi infernali del denaro. E tutti ballano, banchieri e operai, tutta l’ America. Crisi. Il dio denaro sacrifica la Lehman Brothers, il suo figlio primogenito. Fine del vecchio testamento.
Quest’articolo è apparso sul numero di aprile 2015 de L’Indice dei libri del mese